Road To Superman: Alieno Americano – L’emotività dell’Uomo d’Acciaio
Gli anni dal 2011 al 2016 furono un quinquennio complicato per Superman, nonostante DC Comics e Warner Bros. avessero varato una sequela di progetti atti a rilanciare il personaggio di Jerry Siegel e Joe Shuster, insieme all’intero universo supereroistico di cui era capostipite.
Nel 2011 partì il reboot The New 52, che azzerò la continuity dell’Universo DC con lo scopo di svecchiarne i protagonisti. Il progetto, inizialmente accolto con entusiasmo, si rivelò piuttosto deludente a causa di una programmazione editoriale decisamente poco lungimirante. La testata di Superman e la gemella Action Comics vennero affidate rispettivamente a George Pérez e Grant Morrison, i quali diedero un’impronta decisamente vintage (totalmente anacronistica nel caso di Pérez) al personaggio, totalmente in antitesi con le promesse dell’intero rilancio.
Due anni dopo, uscì nelle sale cinematografiche The Man of Steel di Zack Snyder, primo tassello del fallimentare DC Extended Universe, che propose una versione di Superman dalle aspirazioni messianiche e dall’estetica vagamente dark, sulla falsariga dei film di Batman diretti da Christopher Nolan, produttore e co-autore del soggetto. Anche in questo caso, il risultato fu deludente e attirò le ire di diversi addetti al settore. Al di là del physique du rôle dell’attore protagonista, il Superman di Snyder si rivelò inopportunamente pomposo, animato da drammi da cartolina e circondato da comprimari decisamente anonimi. In pratica un brutto protagonista di un film d’azione degli anni ’80 con ambizioni filosofiche, laddove il livello di filosofia si attesta su “fuffaguru di TikTok”.
Il motivo del fallimento di questi progetti risiede in due interpretazioni parimenti conservative del personaggio. Nel caso dei New 52, Superman doveva mantenere lo status di personaggio bandiera, la cui forza risiede nelle proprie radici e nella propria iconicità. Ma la forza e l’iconicità di un personaggio nato nella seconda metà degli anni ’30 non resta immutata nel tempo, e il valore che decenni prima era attribuito a Superman da parte dei lettori è cambiato. Al contrario, Snyder e soci hanno puntato tutto su un’interpretazione etica e morale del personaggio, sulla pretesa che fosse qualcosa “di più” - troppo “super” e poco “man”. Il risultato è stato quello di alienare i lettori/spettatori dal personaggio, allargando la forbice che separava il prodotto dal fruitore.
Poi, nel 2015, arrivò Max Landis.
Figlio del regista John Landis e già sceneggiatore per il cinema, per il quale aveva scritto il bel film pseudo-supereroistico Chronicle diretto da Josh Trank, Max era un noto fan dell’Azzurrone, a cui aveva dedicato l’esilarante The Death and Return of Superman. Quando venne annunciata un’intera miniserie scritta da lui e disegnata da un team di disegnatori all-star, i fan accolsero la notizia con entusiasmo, che in effetti fu ben ripagato.
Superman: Alieno Americano si presenta come (l’ennesima) rinarrazione del mito di Superman, dall’infanzia fino all’età adulta e ai primi passi mossi nelle vesti di supereroe. Tuttavia, a differenza delle altre, preferisce interpretare il personaggio da un punto di vista decisamente inedito: quello delle basilari pulsioni umane. Non che manchino interpretazioni “emotive” del personaggio, anzi. Storie come Stagioni e All-Star Superman hanno saputo raccontare il lato umano di Kal-El in modi anche assai migliori di Alieno Americano. Eppure, ogni volta questo lato umano non veniva mai esplorato in maniera genuina, ma sempre per parlare di altro, per arricchire uno o più temi esterni (trovare il proprio posto nel mondo; le conseguenze dell’esistenza di un dio in un mondo popolato da minacce titaniche ecc.) che però contribuivano ulteriormente a generare un divario tra le persone comuni e l’Uomo d’acciaio.
Max Landis, attingendo ai tropi della moderna serialità dedicata a un pubblico di adolescenti, tratteggia invece un Superman decisamente più terreno, genuinamente entusiasta e, al contempo, spaventato dai cambiamenti derivanti dall’emergere delle proprie capacità aliene. Insomma, il Superman di Landis è un bambino, poi adolescente, poi adulto in pieno sviluppo ormonale.
Nel primo capitolo, appena scopre di poter volare, è spaventato a morte perché non riesce a controllare la direzione e l’atterraggio, salvo poi diventare euforico appena scopre di poterlo fare, cominciando a programmare viaggi attorno al mondo insieme a tutta la famiglia. Esattamente quello che farebbe un bambino normale nelle sue condizioni.
Durante l’adolescenza, perde il controllo dei suoi poteri e scopre quanto le sue capacità possano fare del male al prossimo. Esattamente come un qualsiasi adolescente rabbioso. Figuriamoci negli USA, dove i pericoli delle armi da fuoco nelle mani dei giovanissimi sono un problema più che reale.
Quando poi, divenuto stagista del Daily Planet, riesce a ottenere uno scoop con nientemeno che Lex Luthor, non pensa alle opportunità di utilizzarlo per smascherarne le nefandezze, bensì si mette a ballare in mezzo alla strada, facendo pure la figura del cretino, in quanto conscio di aver fatto un colpaccio dal punto di vista lavorativo.
Sono tutte reazioni decisamente “man” e poco “super”, ma quantomai utili ad avvicinare le due braccia della forbice. Grazie ad esse Landis permette al lettore di partecipare alla costruzione del mito evitando scomodi panegirici, svecchiando così una figura che da troppo tempo risultava inavvicinabile tanto ai novizi quanto ai lettori navigati, ormai stanchi delle rigide gabbie morali e narrative dalle quali sembrava impossibile liberarlo.
Permettere a qualsiasi avventore di comprendere le dinamiche caratteriali del personaggio senza sotterfugi come moralismi più o meno impliciti e vincoli di continuity è la più grande intuizione di Superman: Alieno Americano, tra i pochi fumetti in cui è possibile vedere Superman che manda genuinamente a fanculo un amico che gli ha appena fatto la paternale. Fondamentalmente la storia è quella di una persona dall’indole buona che scopre all’improvviso di avere un qualcosa di più dentro di sé. Un qualcosa di difficile da controllare, ma che potrebbe potenzialmente cambiare la propria e l’altrui sorte. Nel bene e nel male. E quando alla fine il personaggio arriva alla maturazione nel modo più violento e spettacolare possibile, guarda caso dopo lo scontro con un Uomo che si crede più Uomo di chiunque altro, è difficile non partecipare alla catarsi di un personaggio che ha finalmente trovato la sua dimensione, abbandonato l’infantilismo e assunto le responsabilità tipiche di ogni adulto che si rispetti. A riprova che un tema in Superman: Alieno Americano c’è, ma perché farlo pesare?
Tutto ciò ovviamente non sarebbe stato possibile senza un’oculata gestione degli artisti che hanno prestato le loro mani alla miniserie. Ogni capitolo presenta infatti un’estetica conforme all’approccio narrativo adottato da Landis, che cambia proprio come cambia Clark nel corso della vicenda.
Nick Dragotta, recentemente salito alla ribalta con Absolute Batman, racconta l’infanzia e la conseguente ingenuità di Clark attraverso uno stile cartoonesco che purtroppo lascia spazio a più di qualche imprecisione, ma che nel complesso restituisce efficacemente il mondo di pericoli e opportunità che si spalanca di fronte a un bambino del Kansas che scopre all’improvviso di avere i superpoteri.
Tommy Lee Edwards, con il suo tratto ruvido e graffiato, dipinge un’adolescenza tumultuosa fatta di amicizie cameratesche e vite al limite, a metà tra i classici film con cattivi ragazzi alla Gioventù bruciata e lo spirito iconoclasta della New Hollywood di American Graffiti.
Joelle Jones accompagna Clark in un’avventura fuori porta dove proverà le gioie e i divertimenti carnali del mondo esterno, in un’atmosfera che ricorda i prototipi dei teen drama e le coloratissime atmosfere delle serie TV degli anni ’80. Un po’ Beverly Hills 90210, un po’ Miami Vice. Alcune di queste dinamiche, visto i recenti altarini che hanno coinvolto lo sceneggiatore, potrebbero risultare un po’ inquietanti, ma almeno sono scritte bene.
Jae Lee, artista dal tratto elegante ed espressionista, mette in scena l’arrivo di Clark a Metropolis e le difficoltà di adattamento a cui andrà incontro, fatto di rigide gerarchie societarie e competizione smodata per l’ottenimento del prestigio e del potere politico. Non a caso parliamo dell’artista di Inumani, miniserie scritta da Paul Jenkins incentrata su sordidi intrighi politici.
Francis Manapul, il più canonicamente supereroistico del team, risulta al contempo l’ideale per i primi, timidi approcci di Clark con il concetto di supereroismo e i guai etici e, soprattutto, pratici che ne derivano. Alcuni di questi ricordano in parte i lavori iconoclasti di Mark Millar su Kick-Ass e Superior, ma decisamente più bonari e votati all’ottimismo.
Jonathan Case sfoggia invece un tratto debitore della golden age del fumetto statunitense, con figure semplici, morbide e molto espressive. A lui è affidato il compito di inscenare il confronto tra il nuovo Clark Kent metropolitano e suoi amici d’infanzia Pete Ross e Kenny, i quali ne metteranno in luce i progressi e le contraddizioni derivanti dall’abbandono del paese natale. Pensate a un episodio di Archie con alcol, parolacce e senza i pessimi dialoghi di Riverdale.
Per il gran finale, si è optato per un disegnatore stilisticamente spigoloso, schizofrenico e sporco. Uno in grado di far risaltare pienamente la violenza, le difficoltà e le ferite emotive derivanti dal definitivo ingresso nell’età adulta di Superman, ormai pienamente consapevole del tipo di persona che vuole essere, con tutte le responsabilità annesse e connesse. Il disegnatore in questione è Mark Simpson, alias Jock, artista britannico che ha spesso lavorato con Scott Snyder, sceneggiatore avvezzo all’orrore e violenza presenti in questo ultimo capitolo. Da notare che Jock e Landis avevano già lavorato insieme a una storia pubblicata sulla testata antologica Adventures of Superman, dove il kryptoniano si trovava ad affrontare nientemeno che Joker. A quanto pare a Landis piace fargli disegnare Superman a confronto con nemici di spessore. Chi riuscirà a indovinare l’identità del nemico finale dall’indizio lasciato qualche paragrafo sopra vincerà la stima del Sommo Audace.
Nel complesso, Superman: Alieno Americano è una miniserie in grado di far davvero appassionare al personaggio. Una storia realizzata con intelligenza e consapevolezza da parte di uno sceneggiatore talentuoso che ha saputo riconoscere le qualità potenzialmente repellenti di una figura simbolo della cultura pop e rimuoverle dalla narrazione, offrendo così un’immagine accattivante, simpatica e qualitativamente notevole del primo e più grande dei supereroi.
Chiunque voglia approcciarsi al personaggio prima del film di James Gunn, potrà contare su un’interpretazione magari non esattamente canonica, ma di sicuro intrattenimento e scevra di qualsivoglia nerdismo o agiografia. E questo, in un mondo di supereroi sempre più esclusivi e autoreferenziali, è un pregio non da poco.
Road To Superman By James Gunn è l’ottava retrospettiva grafica del progetto “RoadTo”, ideato da Leonardo D’Angeli con il sostegno di Silvia Pezzopane e FRAMED Magazine, per la seconda volta in collaborazione con Gli Audaci e per la prima con Daelar Animation.
Lo scopo è quello di riscoprire i passi del Big Blue Boy Scout sul grande schermo e la filmografia di James Gunn in attesa del film che fonderà i loro mondi, nonché secondo tassello del neonato DCU, Superman, dal 9 Luglio, al cinema! Il progetto si compone di 40 illustrazioni originali, 13 articoli e una live di presentazione.
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Poster di Tiziano De Siati.