Letture seriali: Universal Monsters - Frankenstein di Michael Walsh

Il Mostro, attraverso gli occhi di un bambino

Crepuscolo. Un funerale sta avendo luogo, mentre due figure, nascoste alla vista, attendono pazientemente la fine della cerimonia e che il becchino finisca di riempire la fossa. La luna si fa sempre più alta nel cielo e i due uomini devono essere svelti nel loro empio compito: disseppellire il defunto e trafugarne il corpo. Ma a quale scopo?

Forse, vi sarà d'aiuto sapere il nome di uno dei due: Henry Frankenstein...

Inizia così un autentico Classico dell'Orrore, datato 1931 e distribuito nelle sale dalla Universal, per la regia di James Whale e l'interpretazione della Creatura nata dalla mente di Mary Shelley affidata ad un vero e proprio "Mostro Sacro", Boris Karloff.

È grazie a lui e a quel make-up se Frankenstein entra nella Storia del Cinema, andando così ad affiancarsi a Dracula nel novero degli "Universal Monsters", gli stessi celebrati dalla collana Skybound pubblicata da noi dal team di Saldapress in bei cartonati.

Storie che rileggono, con stile fumettistico moderno ed impegnando alcuni dei migliori talenti dell'attuale panorama, questi caposaldi del grande schermo, affrontando il Mito attraverso punti di vista inediti.

Del Conte vi ho già parlato, ora tocca al Mostro creato da Frankenstein, qui ad uso e consumo, da autore completo, di Michael Walsh, disegnatore e sceneggiatore apprezzato sia dalle due Big, Marvel e DC, che dai lettori di Comeback. Per quanto riguarda Orrori e Affini, è sua la scintilla creativa che sta dietro il progetto The Silver Coin per Image Comics (pubblicato da Panini Comics, se vi andasse di recuperarlo).

Ma prima di addentrarci nel fumetto, piccolo excursus storico sulla pellicola originale.

«Buonasera. Il signor Carl Laemmle (produttore e uno dei fondatori della Universal, n.d.r.) ritiene che non sia opportuno presentare questo film senza due parole di avvertimento: stiamo per raccontarvi la storia di Frankenstein, un eminente scienziato che cercò di creare un uomo a sua immagine e somiglianza, senza temere il giudizio divino. È una delle storie più strane che siano mai state narrate, tratta dei due grandi misteri della creazione: la vita e la morte. Penso che vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi. Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi... beh, vi abbiamo avvertito!»

Con queste parole, nel prologo, l'attore Edward Van Sloan, interprete del Dr. Waldman (e già apparso come Van Helsing in Dracula, tra l'altro) imbonisce il pubblico sulla orribile, terrificante, allucinante vicenda a cui stanno per assistere.

Sì, posso vedere da qui i vostri sorrisi, visto che parliamo di un film di quasi un secolo fa, in bianco e nero, di sicuro ben lontano da ciò che oggi possiamo definire "da brivido", ma per l'epoca, indubbiamente, la Magia del Cinema sapeva evocare emozioni "scioccanti".

A dare vita... ok, espressione sbagliata... a portare in scena l'ossessione, tra scienza e follia, di Victor Frankenstein è l'attore Colin Clive, solo che qui, per venire incontro al pubblico americano, venne ribattezzato con un più colloquiale Henry.

E ad assisterlo, troviamo il Fritz di Dwight Frye... anche questo nome vi suona familiare? Forse perché l'ho nominato spesso proprio nella recensione di Dracula. È sempre lui, infatti, ad interpretare, in quella pellicola, Renfield (come vedete, corsi e ricorsi storici, anche al tempo finiva che vedevi sempre gli stessi attori nei film).

La pellicola di Whale è ormai, come detto, un Classico, e rivista oggi, contestualizzata, rimane un fulgido esempio di come la creatività e la volontà di regalare spettacolo fossero uno sprone per ideare soluzioni visive d'impatto. Penso alla scena dell'esperimento coi fulmini, a quella del mulino sul finale o ancora al design stesso della Creatura.

La testa piatta, gli occhi cadaverici (per Karloff la parte più dura da sopportare di quel pesante trucco), gli elettrodi sul collo: se dico "Mostro di Frankenstein", sono convinto che praticamente per chiunque, sia la prima immagine che balza alla mente, iconica a dir poco.

Come già per Dracula, anche nel caso del Frankenstein fumetto si tratta di una sfida non da poco proprio per questo: saper trovare una chiave di lettura particolare per raccontare, ancora una volta e mai abbastanza, una storia che teoricamente conosciamo a menadito, senza snaturarla, ma sapendo come ripresentarla al pubblico moderno, di ben altro gusto e palato, magari dandole quei brividi e quel ritmo che l'originale ha nei decenni perso.

Una sfida che anche nel caso di Mike Walsh possiamo dire decisamente vinta, soprattutto perchè l'autore sceglie di introdurre, nella dinamica della storia, un piccolo Deus Ex Machina, e per piccolo intendo proprio che è un bambino. Nel film originale non c'è, ma solo, è questo che vuole dirci il fumettista, perché non lo vediamo, nascosto dietro una lapide o un angolo buio della torre, mentre assiste, impotente, al procedere degli eventi.

Chi è?, direte voi. Si tratta del figlio di un uomo che, nella morte, ha la sfortuna di incappare in Henry e Fritz, che ne trafugano il corpo. Paul, questo è il suo nome, ha appena perso il padre, ma sarebbe meglio dire che ha perso tutto. Non ha altri al mondo, e mentre è lì che piange il genitore che l'ha lasciato orfano, sente qualcun altro nel cimitero.

Guarda con occhi spaventati quei due uomini portare via suo padre, e così decide di seguirli. Non capisce tutti quei discorsi da adulti, ma una cosa gli sembra chiara: quelle del mostro, sono le mani di suo padre, e Henry Frankenstein deve pagare per quello che ha fatto...

Walsh si è riguardato il film originale, e ha deciso di giocarsi una piccola licenza poetica molto particolare: entrambe le opere iniziano idealmente allo stesso modo, con Frankenstein e il suo gobbo assistente che disseppelliscono un cadavere. Ma non lo stesso. Questo in particolare, infatti, è quello da cui il Mad Doctor prende le mani, forti, di un uomo che in vita era un poliziotto, per continuare a dare forma alla sua Creatura.

Così il fumettista riesce ad ottenere un doppio risultato: giustificare il piccolo co-protagonista occulto della sua versione della storia, e al tempo stesso innestare nella narrazione un doppio binario, che gli permette di impostare il racconto su vari piani temporali, alle volte saltando indietro per meglio evidenziare alcuni passaggi.

Basti vedere, nel flusso di lettura e degli eventi, quando Walsh decide di inserire la celebre scena del "Cervello Abnorme" (la stessa che poi verrà parodiata anche in Frankenstein Junior): non all'inizio, come nel film, bensì più avanti, ad opera già compiuta dal Dottore, con la sua creazione ormai viva e vigile, come a giustificarne le azioni istintive che avrà.

Ma non si limita solo al cervello e alle mani, no: in un modo ancora più ardito - che non mi spingo a svelare, però - l'autore si concede persino di dare una logica al cuore del Mostro e spiegare, con una sequenza che chiude un macabro cerchio, da dove viene uno dei momenti più emozionanti dell'originale filmico, la scena al matrimonio di Henry con la bella Elizabeth (interpretata da Mae Clarke).

Insomma, Walsh "ha fatto i compiti", rendendo il suo Frankenstein perfettamente fruibile come opera a sé, con il piccolo Paul e il suo candore di bambino sfortunato il tramite tra noi lettori e la follia che sembra essersi impossessata di Henry, della malvagità bieca di Fritz e della bontà d'animo della dolce Elizabeth, qui con un ruolo più marcato rispetto al film.

Non mancano brivido e terrore, e a quelli ci pensa l'altro importante talento dell'autore, quello al tavolo da disegno: inquadrature, ombre, ritmo. I volti che sono ricalchi di quelli "originali" cinematografici e quelli pensati per il fumetto, in entrambi i casi l'artista lavora su espressioni ed emozioni, le carica di forza e chiaroscuri, di ossessione e dolenza, di lacrime e sgomento, dando ad ognuno un nuovo livello di interpretazione, persino allo stesso Mostro.

Interessante notare il contorto parallelo tra la fanciullezza sconvolta di Paul, quella sua rabbia ed impotenza di bambino, contro il carattere ingenuo del Mostro, anch'esso poco più di un bimbo che si muove con passo stentato nel mondo, un mondo che può essere dolce come un fiore gettato sull'acqua o crudele come una folla armata di forconi, ma in questo caso la sua rabbia e le sue azioni sono tutt'altro che impotenti.

Tutto concorre ad una lettura che sa essere affascinante, mai eccessivamente gratuita nella violenza (seppur ben presente), ma sempre pensata per intrigare e dare nuovo "colore" per quel pubblico attuale ormai avvezzo a ben altro orrore. E se parliamo di colore, ci pensa Toni-Marie Griffin a fornire a Frankenstein una tavolozza che sancisce un confine netto tra il bianco e nero del Cinema e le quasi infinite possibilità che offre la cromia nel Fumetto.

Si passa da toni violacei a quelli blu e verdi, sempre con un'impronta sfumata per ciascuna particolare scena in cui quei colori sono utilizzati, per meglio accrescere il sentimento da trasmettere, che sia tensione o inquietudine, dramma oppure note di poesia.

Il tema rimane il medesimo, seppur distillato attraverso altri alambicchi: la vita e la morte, quella scintilla che ci definisce come esseri, e che si può spegnere lasciandoci senza risposte. Non importa se a porsi quelle domande sia un eminente scienziato o un bambino.

"Due grandi misteri della creazione", per l'appunto.

Ancora una volta, quell'"Universal" di "Universal Monsters" si tinge di un carattere davvero Universale, perché, come per Dracula, anche la storia del Mostro di Frankenstein è un Mito che ha saputo travalicare, diventando icona, dalla carta alla celluloide e nuovamente carta, come in questo preciso caso.

Il prossimo appuntamento, in questo senso, sarà più sfumato e sfuggente, non meno affascinante però: quello con la Creatura della Laguna Nera!

Il Nerdastro

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