Caparezza - Le due orbite della mia vita: il fumetto e la musica
Gli abbiamo chiesto di raccontarci il viaggio che lo ha portato alla realizzazione della sceneggiatura, cosa rappresentino oggi per lui i comics e, ovviamente, di cosa parla il suo primo fumetto edito da Sergio Bonelli Editore.
Orbit Orbit è un progetto che si muove su due binari: musica e fumetto, realtà e fantasia, terra e spazio, estetiche passate ma futuristiche. Per realizzarlo, Caparezza ha collaborato con nove artisti diversi e altrettanto numerosi sono gli strumenti all’interno del disco.
Lavorare a un progetto così ambizioso non poteva essere facile, “ma quando mi arrivavano queste tavole mi ricaricavo. Come sempre, al mio fianco c’era questo mondo a tenermi per mano”, ci ha raccontato.
Nel 2021 partecipi a Lucca Comics & Games per la prima volta, presentando il tuo disco Exuvia, con copertina variant di Simone Bianchi. Nel 2025, quattro anni dopo, sei di nuovo ospite in fiera, ma questa volta, oltre al disco, presenti un fumetto ad esso collegato, chiamato Orbit Orbit. Cosa ti ha spinto a cimentarti con la sceneggiatura di un fumetto?
Caparezza: Mi hanno spinto due cose. Partiamo da quella peggiore, nel senso che a un certo punto non riuscivo più a incanalare la mia energia creativa nella musica. Non ci riuscivo per i miei problemi, che ormai sono noti, di udito; perché avevo (e ho) l’acufene e a cui si è aggiunta l'ipoacusia. Quindi vivo da un po’ con gli apparecchi acustici, per me l’approccio alla musica era diventato di altra natura, una natura più dolorosa. Quindi, come sempre accade, anche se mi sono sentito perso per un bel po’ di tempo, a un certo punto è arrivata la salvezza tramite la mia altra passione, che è il fumetto. In realtà è stata la mia prima passione, perché da piccolo volevo fare questo di mestiere; è scritto da tutte le biografie, a volte mi chiedevo come mai ci fosse scritto “Da piccolo voleva fare il fumettista” come se fosse un’informazione importante per un cantante. Be', adesso è giustificata, forse l’ho fatto per giustificare queste biografie che giravano in rete (risata). Comunque, dopo questo periodo buio e il mio riavvicinamento, ho cominciato veramente a fissarmi col fumetto. Farlo riemergere dalla coltre dalla quale era sommerso (cioè la musica, che lo aveva messo un po’ in penombra). Da lì ho studiato sceneggiatura del fumetto e ho pensato inizialmente di aprire una casa editrice, poi mi hanno dissuaso proprio dal farlo (risata) e ho pensato: "vabbè, cominciamo facendo questo esperimento, facciamo un fumetto tutto mio". E non avevo pensato alla musica, pensavo semplicemente ad aprire un filone narrativo a tavole. Dopodiché, da cosa nasce cosa, avevo suddiviso il fumetto in quattordici capitoli e ho pensato che in Giappone ci sono alcuni manga che escono con le colonne sonore. Abbiamo avuto anche esempi in Italia, l’ultimo che ricordo è Kronet di Davide Bart Salvemini, uscito per Eris Edizioni. E quindi avevo pensato a qualcosa del genere, dopo però ogni capitolo mi suggeriva un ampliamento del tema che stavo affrontando e quindi avrei rischiato di mettere un sacco di postille scritte dietro ogni capitolo. Perciò ho detto: vabbè facciamo cosi, mettiamo il testo su queste basi ed è nato un disco... tra l’altro verbosissimo (risata). Diciamo che, come sempre accade, i linguaggi si contaminano, ed è quello che è accaduto.
Hai dichiarato che nel 2021 stavi vivendo un periodo difficile a livello emotivo e che hai tratto forza proprio dalla fiera. In che modo il mondo dei comics ti ha aiutato a canalizzare l’energia sulla creatività?
Caparezza: Devo dire che questa cosa è iniziata proprio a Lucca nel 2021, quando ero nel pieno del mio sconvolgimento emotivo. Perché poi ho dovuto fare la promozione di Exuvia con la testa veramente altrove. Il paradosso di vivere le cose che scrivi: mi sentivo veramente perso in quel bosco. Però nei giorni a Lucca, nel ritrovare il contatto con la mia passione primaria, ho cominciato a sorridere, in qualche modo queste nubi si sono diradate in quei giorni di firmacopie con Simone (Bianchi, n.d.r.), è stato una specie di antidoto. Secondo me, il mio amore per il fumetto ha ovviamente una natura infantile, viene dall’infanzia (come quasi tutti quelli che operano nel mondo del fumetto e che amano il fumetto; poi c’è tutta un’altra categoria di disegnatori che lo hanno scoperto dopo e hanno fatto cose meravigliose). Molto spesso, nella mia vita, mi sono accorto che quando ho dei problemi di origine emotiva, mi rifugio nei ricordi infantili. Comincio a rifissarmi con le cose che mi facevano stare bene quando ero piccolo. Infatti anche il disco, musicalmente, prende da quel periodo lì, da quando io leggevo fumetti e cioè la fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta; precisamente dal calderone della space music, quella dei gruppi che si travestivano, quando si esibivano. Si travestivano da alieni, astronauti, robot. C’è un pezzo nel disco dove c’è un sample dei Rockets, che sono stati molto carini a concedermelo. Ci sono tante suggestioni sonore, prese in prestito da gruppi più o meno conosciuti di quell’epoca, dai Kraftwerk alle produzioni elettroniche di Moroder (come per esempio nel singolo Io sono il viaggio, che nella mia testa è un mix di The NeverEnding Story e I Feel Love di Donna Summer). Insomma, mi sono divertito a traghettare il mondo della mia infanzia nel mondo contemporaneo, creando una specie di ibrido che non segue nulla, se non l’istinto, il mio istinto.
Cosa ti ha spinto a perseguire questa tua passione per la nona arte proprio ora, in questo momento della tua carriera? C’era qualcosa che la musica non ti permetteva più di dire e che hai sentito il bisogno di mettere in una vignetta?
Caparezza: No non è tanto che non mi permettesse di dirlo, era perché non riuscivo a farlo. Non perché la musica abbia dei limiti, io mi sono sempre espresso tranquillamente con la musica. Ma l’espressione attraverso il fumetto è completamente diversa. Ha dei punti in contatto, che sono in questo fumetto, per esempio il fumetto ha vari ambienti, ci sono degli ambienti che hanno un ritmo rapido e degli ambienti che hanno un ritmo dilatato, è proprio pensata questa cosa qui. L’ho pensato un po’ come si struttura un disco, diciamo così. Ci sono delle vignette che ritornano identiche, che possono un po’ essere i ritornelli; per non far perdere il filo del discorso (ricordiamoci che è accaduto questo). Io l’ho composto pensando alla musica, la cosa incredibile è che sono due “orbite”, attorno alla mia vita, che si compensano. Orbit Orbit ha veramente due binari che si compensano; per esempio il fumetto è molto più scanzonato del disco, il disco va più in profondità rispetto a certi contraltari ironici che sono presenti all’interno del fumetto. Perché il fumetto volevo che somigliasse alle cose che leggevo quando ero piccolo, quindi va un po’ in quella direzione. Quando lo si scorre lo si capisce subito, il riferimento non sono le vignette esplosive, contemporanee, la sperimentazione della tavola. Mi sono fissato con quell’epoca lì e dovevo portarla avanti. E poi c’è questa roba che succede (che l’ho sentita dire da chi sceneggia, disegna): mentre con la musica puoi avere le briglie (almeno nel mio caso) e portarla dove vuoi, nel fumetto mi è accaduto l’esatto opposto. Cioè sono partito da un’idea, con dei personaggi che man mano hanno fatto di testa loro, ed è una cosa che ho sempre sentito dire, ma non avevo mai sperimentato. Questa cosa è sorprendente perché vuol dire creare una storia che hai in testa, ma con delle direzioni che cambiano man mano che scrivi.
Di cosa parla il fumetto Orbit Orbit?
Caparezza: Orbit Orbit è una storia difficile da sintetizzare, ma ci provo: è una duplice storia, che possiamo dividere in piano reale e piano fantastico. Nel piano reale io sono quello che sono nella realtà, cioè un cantante. Mi ritrovo nel backstage di un tour estivo dove i camerini spesso sono ricavati all’interno delle roulotte (in questo caso Airstream, perché un po’ ricorda una navicella spaziale, soprattutto quella di Dan Dare, mi ricordava la Anastasia di Dan Dare). Io sono in uno stato confusionale, tutti sanno che sono un cantante quindi vedo la mia faccia in giro su poster, gente che si riferisce a me come se fossi un cantante, ma io non so di esserlo. Ed è lo stesso stato confusionale che ho provato nei tempi di Exuvia. Dopodiché mi chiudo dentro la roulotte e svengo, da qui in avanti nasce, si dipana, la storia fantastica, science fiction perché, nel mondo della fantasia, questa roulotte diventa un’astronave, io da cantante mi trasformo in cosmonauta, senza avere la minima idea di essere un cantante. Le due storie proseguono, influenzandosi a vicenda. Quello che accade sul piano reale, arriverà sul piano astrale. Quindi, per farti un esempio, se dentro la roulotte ho il cellulare che vibra, si scatena un terremoto sul pianeta. Alla fine i due personaggi ritornano un unico personaggio con una consapevolezza in più, che non vi spoilero, che è esattamente quello che è successo nella mia vita. E, tra l’altro, questa avventura nasce dal fatto che un’idea (le idee hanno una forma in questo fumetto, sono come degli spiriti in cerca di corpo) mi convince a darle un corpo e ovviamente è l’idea di Orbit Orbit; alla fine viene sviluppato tutto questo lavoro. Va da sé che il padre di tutta questa avventura è Leiji Matsumoto, che è il mio mangaka preferito, e l’opera di evidente riferimento è Galaxy Express 999.
Hai dichiarato che è stato il fumetto ad accendere la miccia per il nuovo album. C’è un brano che, secondo te, rappresenta in modo particolare l’anima del fumetto?
Caparezza: Si, c’è un brano che si chiama A comics book saved my life che parla delle tre volte in cui il fumetto mi ha lanciato una ciambella di salvataggio, che sono quando mi ha permesso di scoprire che esistevano linguaggi creativi e appassionarmi alla creatività e all’arte. Quando mi ha fatto scoprire la musica, perché ho scoperto la musica, un po’ come tutti, dalle sigle dei cartoni animati, ma anche da quei famosi gruppi da cui poi sono andato a pescare, che sembravano eroi del fumetto. Io mi ricordo, c’era il 45 giri di una copertina dei Droids, che si chiamava (Do You Have) The Force (una roba del genere). Sulla copertina c’erano dei supereroi che avevano inventato loro e ovviamente non trovavo il corrispettivo in edicola; per dirvi che tipo di imprinting ha su di me la musica, è quasi più performance. Infatti chi viene ai miei concerti se ne accorge, cioè non è solo esibizione, è proprio una performance con oggetti. Il mio concerto è molto fumettoso, da sempre. La terza volta è stata questa, e forse è stata la più evidente.
Per questo debutto ti sei affidato a un editore storico come Sergio Bonelli. Come è nata questa collaborazione e come ti sei trovato a lavorare con la loro redazione?
Caparezza: Io avevo fatto un giro delle sette chiese quando volevo aprire la casa editrice, in quei famosi giorni in cui tutti mi dicevano di non farlo. Ero rimasto colpitissimo da Bonelli, innanzitutto per la loro gentilezza, il loro approccio a questo cantante che arriva e vuole aprirsi la casa editrice di fumetto (risata). E in più ero rimasto colpito (ma veramente colpito) e lo sono ancora dalla casa editrice che è una casa, è proprio una casa, cioè è proprio dove viveva Bonelli. Alle pareti ci sono tante di quelle tavole, disegni che non sono soltanto di artisti bonelliani, c’è anche Giorgio Rebuffi e Manara per dirti; sinceramente ho pagato biglietti per musei che hanno molto meno. Loro incarnano il fumetto secondo me. Entrando in altre case editrici (non le ho fatte tutte ovviamente) spesso ho avuto l’impressione dell’ufficio. Lì invece ho l’impressione di catapultarmi nel mondo del fumetto, quindi la loro carineria, abbinata a questa suggestione, mi ha fatto capire che non poteva che non essere Bonelli la mia scelta.
Per realizzare il fumetto hai collaborato con nove artisti diversi. Mentre scrivevi la sceneggiatura, avevi già in mente degli illustratori specifici a cui assegnare determinate parti del racconto? Che rapporto professionale si è instaurato tra di voi?
Caparezza: Non avevo in mente dei disegnatori specifici, ma avevo in mente lo stile. Come dicevo prima, doveva assomigliare alle cose che leggevo e poi volevo che fosse, tutto sommato, in linea chiara. Quindi pensavo a Moebius, anche se quando ti ispiri a Moebius finisci per lo scimmiottarlo ovviamente. E quindi ho cercato di dare, anche grazie a Matteo Stefanelli che mi ha aiutato nella gestione di tutto questo, come strada maestra Moebius e la linea chiara; anche se dentro ci sono evidenti riferimenti a Bonvi (che è il motivo per cui mi sono innamorato del fumetto). Dopo, la cosa si è evoluta perché in realtà c’era anche la necessità di finirlo questo fumetto ed erano 182 pagine (mi sembra) di tavole. Quindi il tempo non era dalla nostra parte, per questo dividere la storia per ambienti (affidandoli a vari disegnatori) ci ha aiutato. Difatti ci sono nove disegnatori, compreso Matteo De Longis che si è occupato della copertina e di tutte le grafiche interne. Ma non si sente tutta questa differenza, nel senso che il passaggio non è traumatico da un disegnatore all’altro. C’è Gerasi che è di stampo più bonelliano, che io tra l’altro seguo con Eternity, che è una delle serie che mi piacciono di più. C’è Yi Yang che è fuori dai canoni di questo tipo di fumetto, fa un meta-fumetto all’interno. C’è La Came... io sono innamorato di Malanotte come graphic novel, lo trovo molto poetico. Trovo che Laura quando si occupa di immagini grottesche, un po’ inquietanti riesce a fare delle tavole veramente spettacolari. Ma sono veramente contento di ogni disegnatore, c’è Torti che fa tutta la parte dello spazio. È stato sorprendente ricevere queste tavole, veramente. Poi il disco era veramente difficile da portare avanti, molto faticoso perché pieno zeppo di strumenti, ma quando mi arrivavano queste tavole mi ricaricavo. Come sempre, al mio fianco c’era questo mondo a tenermi per mano.
Sia la musica che il fumetto sono linguaggi che seguono un proprio ritmo. Con Orbit Orbit sei riuscito a trovare un punto di contatto tra strofa e vignetta? Qual è stata la sfida più grande nel passare dalla metrica del testo musicale alla gabbia bonelliana?
Caparezza: Per quanto riguarda il disco, non mi sono fatto il problema di farlo assomigliare al fumetto. Io ho citato, qualche tempo fa, Razzi Amari di Disegni e Caviglia, perché era un musical a fumetti. Per cui partiva la canzone e tutto il testo era all’interno dei balloon. In questo caso no, i testi sono un ampliamento del discorso che ho iniziato nel capitolo del fumetto. Quindi sono andato a scrivere autonomamente, però ci sono tantissimi riferimenti a elementi del fumetto. C’è una canzone che si chiama Darktar che è uno dei personaggi. Quindi lo puoi ascoltare senza leggerti il fumetto, ma quando poi lo vedi riprodotto si allarga la visuale. C’è un pezzo che si chiama Pathosfera dove vengono riprese le onomatopee ossessive di quel capitolo lì (perché sono gli urti degli asteroidi sull’astronave). Ci sono citazioni di fumetti in ogni pezzo. Ci sono riferimenti audio a effetti del fumetto, per esempio: a un certo punto c’è una caverna in cui si sente il gorgoglio di bolle di pece, questo gorgoglio si sente nella canzone di riferimento. Ci sono dei legami forti, che però non sono legami di metrica o di scrittura, sono proprio rimandi.
Nel testo del singolo Io sono il viaggio si trovano riferimenti espliciti a tre fumetti: Arzach di Moebius, Corto Maltese di Hugo Pratt e Aldobrando di Gipi e Luigi Critone. Cosa rappresentano per te queste tre opere e come le colleghi al tema del viaggio?
Caparezza: In ogni canzone i riferimenti sono funzionali, nel senso che sono tutti e tre dei viaggi, un viaggio interiore, marinaresco e romantico forse, perché Corto Maltese viene identificato come un personaggio romantico, ma in realtà è anche un bastardello. E poi c’è Arzach che è il mio preferito in questo caso, nel senso che è il più attinente; è un viaggio nello spazio, non si sa dove vada questo pterosauro. Poi ci sono altri fumetti che vengono citati perché mi servono per quella rima, non perché nel contesto voglio spiegare la sensazione del brano, ma perché mi servono per una rima. A un certo punto, nel primo pezzo (che si chiama Fluttuo, orbito) dico “Ribalto Difool che nell’Incal cade nel pozzo”, lo ribalto perché in realtà Difool sta precipitando, ma io sto ascendendo e sotto si sente l’urlo della vignetta. Mi serviva per raccontare quella strofa lì, non la sensazione. È tutto un po’ così questo album, cioè si aprono porte continuamente... vignette (risata).
Intervista a cura di Wendy Costantini, Giuseppe Lamola e Mattia Mirarco, con il contributo di Giosuè Spedicato.
Si ringrazia Caparezza e il suo staff.
 













