La Compagnia dell'Indie special: Leocifero, tra lotta sociale e visioni post-apocalittiche

Intervista a Leonardo Campanelli, alias Leocifero, artista pugliese e attivista

Attivista, street artist, illustratore, autore di vignette e poesie a fumetti, Leonardo Campanelli, in arte Leocifero, è un artista pugliese classe ‘96, tra i membri della rivista Tarazine - Ancora Vivi. Il suo immaginario visivo affonda le radici in un territorio segnato dalla lotta sociale, attraversa corpi deformati, visioni post-apocalittiche, ironia tagliente e un forte senso politico. In questa intervista cercheremo di conoscerlo meglio.

Chi è Leocifero? Come ti presenteresti a qualcuno che non ha mai sentito parlare di te? 

Leocifero è un illustratore che viene dal mondo del graffitismo, ma che a un certo punto ha sentito la necessità di spingere oltre questa passione grafica perché aveva bisogno di esprimersi anche con parole che non fossero, diciamo, solo la ripetizione di un lettering, come avviene nel writing. Non mi sento un fumettista, però aggiungere la scrittura all’illustrazione tramite il mezzo di alcune frasi, ad esempio poesie o battute, mi ha permesso di unire, appunto, parola e immagine per creare un universo che mi spingesse un po’ più in là. 

Poi vengo dalla realtà di Taranto, in particolare di Statte, che è nella zona industriale, dove viene sacrificata anche una parte naturale. Quindi questa lotta intima che uno vive da quando è nato ti porta a sviluppare anche un senso sociale, politico, che va ad influenzare sicuramente l'estetica. Questo è il percorso che più mi definisce, cioè quello di utilizzare l'arte e il disegno per portare un messaggio. 

Cosa ti ha spinto a scegliere il disegno come forma principale di espressione narrativa e non, ad esempio, la scrittura?

Allora, il disegno viene, ovviamente, da una passione che ho sempre avuto. Viene dal writing, da tutto quel mondo urban. Però la mia necessità era quella di trasmettere dei messaggi che potessero essere recepiti nella maniera più immediata possibile. Ecco perché il disegno mi viene in aiuto nel momento in cui voglio inviare un messaggio che arrivi subito, sia esso uno sfogo o un messaggio di propaganda artistica. 

E quindi scrivere un manifesto, un romanzo, ma anche fare video, non sono mai stati il mio linguaggio, perché ho bisogno di qualcosa che sia il più immediato possibile, che passi da uno studio all'immagine e arrivi subito. Ecco perché non voglio essere mai troppo oscuro e voglio che ciò che dico sia comprensibile, affinché arrivi al maggior numero di persone. Voglio che traspaia un messaggio il più chiaro e diretto possibile. 

Quando è nato il tuo interesse per il fumetto? Ci sono autori oppure opere che ti hanno influenzato particolarmente? 

Anche il mio rapporto coi fumetti è nato passando dalla porta dell'illustrazione. Ricordo che da ragazzino leggevo spesso Stranalandia di Stefano Benni, un autore che mi piaceva una volta e che mi piace tuttora. Già vedere quel tipo di illustrazione legata a un testo mi accese qualcosa. I primi fumetti che iniziai a leggere erano quelli di mio padre, i Tex, i Mister No, gli Zagor… Però, diciamo, quella fu una... non si sviluppò mai davvero una passione. Quando sono diventato più grande, poi, mi sono avvicinato al fumetto più indie, più satirico, americano: Robert Crumb, Vaughn Bodē, che peraltro è un'icona del graffitismo, anche se involontariamente. Vedevo sempre questo Wizard che veniva fatto ad esempio sui treni, e mi chiedevo: ma cos'è? Quindi, univo le mie passioni tramite questo.

L’underground americano è stato poi il lasciapassare per appassionarmi alla scena italiana, che era quella de Il Male, di Cannibale, cioè della scena di Pazienza, Tamburini e tutto il resto. E quindi quella è diventata la mia dimensione. Soprattutto quella di Pazienza, perché vedevo in lui un artista che, oltre ad essere stupendo dal punto di vista grafico, è un poeta. Anch'io mi sentivo più un poeta che cercava di fornire delle immagini, ma rispetto a lui… lui era anche, ovviamente, un dio del disegno. Mi sentivo vicino a lui proprio per questa cosa, cioè portare il linguaggio poetico all'interno del fumetto per raccontare però drammi, attività politica, ecc.

Ti avrei fatto proprio una domanda specifica su Pazienza, perché hai anche illustrato un santino a lui dedicato. A quale delle sue opere sei più affezionato?

Ti direi Gli ultimi giorni di Pompeo, che è stato quello che più mi ha scosso. Anche per la modalità, per come concepisco io il disegno, il fumetto. Non sono mai stato affezionato al fumetto di supereroi americano e a quella estetica perfetta dei corpi. Vedere un fumetto come Pompeo composto anche da fogli strappati, da post-it, da immagini che sono state unite… Mi sono accorto che non c'era quella ricerca di perfezione. Questo per me diventa un grido anche nel medium in sé per sé. Quindi per me è stata una rivoluzione vedere un dramma raccontato in questa maniera, un’espressione veramente artistica che non mira alla perfezione per raccontare qualcosa. Per me tutto ciò è diventato il mio paradigma a livello fumettistico: raccontare qualcosa di vero in maniera vera. 

Effettivamente potrebbe essere quasi un paradosso raccontare un dramma caotico con un disegno perfetto.

Eh, esatto. Poi magari c'è qualcuno che ha questa tecnica e me la fa apprezzare. Per esempio, ci sono dei mangaka che riescono a consolidare questo tipo di estetica in una, tra virgolette, perfezione, e riescono a mettere questo caos in una tavola, che però è ricchissima e mi arriva così.

Ma per mia inclinazione, anche un disegno un po' più abbozzato, ma con una frase che mi taglia a metà, è diventato... Mi sembrava quello che volevo fare, che mi identifica.

Hai già accennato qualcosa prima, però volevo comunque farti una domanda sulle tue radici, perché il legame con Statte e Taranto è molto presente nel tuo lavoro. Cosa significa per te appartenere a una comunità che lotta quotidianamente per i propri diritti e per preservare il proprio territorio?

Allora, ovviamente chi nasce dalle nostre parti nasce già con una lotta ereditata. E quindi, senza voler andare a scomodare le situazioni anche gravissime che ci sono altrove, è come nascere in una zona di guerra, dove però c'è una guerra già consolidata e di cui alcuni si sono anestetizzati. E quindi è come se vivessi sotto le bombe e fosse normale.

Mi viene in mente un aneddoto che successe a me e a un mio amico dei Tamburi (quartiere di Taranto a ridosso dell’ex Ilva, ndr). Lui era con la sua ragazza e… insomma sentiva un rumore di sottofondo. “Cos'è questo rumore? Voi non lo sentite?”, diceva. E noi non capivamo di che cosa stesse parlando. Poi, in silenzio, cercammo di concentrarci su questo brusio di sottofondo. D’un tratto, ci accorgemmo che quello era il rumore della fabbrica. E forse noi non lo avevamo mai sentito. 

Questo ti fa capire come siamo così abituati a questo da non sentire quello che c'è. Anche a livello uditivo, anche a livello sensoriale. E tu ti ribelli perché non è possibile vivere sotto questo ricatto, che è un ricatto di salute, ambientale, ma anche sociale, perché consuma tutto il resto della comunità e impedisce che ci siano degli slanci di altro tipo. 

Da questo poi nasce l’ispirazione artistica. Io potevo pure tenere separate le due cose, continuando a fare writing, continuando a fare un tipo di illustrazione che fosse avulsa da questo. Però io… Io credo che ognuno ha i suoi mezzi. Io so disegnare e lo metto a disposizione. È per questo che poi, all'interno dei movimenti, all'interno dell'attivismo in generale, sono diventato una dei grafici ufficiali della scena tarantina. Proprio perché serviva un'immagine estetica immediata per far veicolare dei messaggi, come dicevo prima.

Ecco perché quando ti trovi in mezzo a una lotta che senti tua, ognuno deve mettere secondo me ciò che ha a disposizione. Poi da questo, ovviamente, io magari passo mesi senza pubblicare qualcosa di “ufficiale”, senza fare nulla. Ma perché secondo me questo tipo di arte va anche studiato e viene da uno studio che è al di là di quello artistico.

Ecco perché quando devo fare qualcosa devo essere un rappresentante di quello che dico, non solo un mezzo grafico. Tutto ciò mi ha portato a essere prima un attivista, e magari dopo un artista. 

L’importante è il messaggio, che deve passare da me. Io non devo essere solo un filtro estetico. Rispetto anche quel tipo di arte in altre persone. La capisco. Però, nel nostro contesto, e per quello che voglio fare io, l'arte fine a sé stessa è solo una pugnetta estetica. E non è quello che voglio fare.

Ecco perché c'è bisogno di studiare, perché se vuoi essere un artista impegnato non puoi solo proporre qualcosa che sia gradevole e che ti rapisca visivamente, secondo me. 

Proprio legato a questo volevo farti una domanda sull’associazione “Gambe di Mazinga” che hai aiutato a creare. Si tratta di un'associazione per la promozione sociale, culturale, artistica e territoriale di Statte. Volevo chiederti da dove deriva il nome e poi se ci vuoi raccontare qualcos'altro a riguardo.

Allora, “Gambe di Mazinga” è una APS che abbiamo fondato da un anno e qualcosa ormai e che nasce da un processo di comitati di aggregazione volontaria che durava da cinque o sei anni. Nasce quindi all'interno di un gruppo di amici, ma la scintilla si è accesa quando ci siamo uniti ad altre realtà per creare, appunto, uno spazio come questo, che si inserisce in quelle lotte di cui parlavamo prima. 

Statte ovviamente non è solo industria, non è solo quello che si sente nella cronaca generale. È un posto ricco di parchi naturali e di gravine, che però paradossalmente sono bloccati e non usufruiti della popolazione. 

Nel parco antistante la gravina c'è una torre piezometrica dell'acquedotto. Queste “gambe di Mazinga”, come venivano chiamate dai nostri genitori, rappresentano uno spazio frequentato da generazioni, che però era sempre in mano ai privati pur essendo all'interno di un parco pubblico.

Il nome, ovviamente, fa riferimento all’anime, ma noi lo abbiamo ereditato, così come abbiamo ereditato il legame con un luogo che è un posto di pace che dà un punto di vista diverso su tutto quello che abbiamo. Cioè una natura perfetta, in contrapposizione con la zona industriale che si vede oltre gli alberi. Per noi, questo significa riconnettersi a qualcosa di cui vogliono privarti. 

Statte faceva parte di Taranto, giusto? 

Sì, prima era una periferia, una borgata, come possono essere le più famose Tamburi o Paolo VI. Poi, tramite un referendum, si decise di renderla comune autonomo, anche contro quel tipo di marginalizzazione che soffrono magari delle comunità che sono al lato e che non fanno parte del centro. Noi veniamo dalla parte sacrificata di Taranto e della costa ionica. 

E comunque, dicevo, ci siamo ripresi piano piano quel posto che, pur essendo stupendo, era un posto di abbandono, dove ci si andava a drogare, dove c’era degrado. Abbiamo creato un evento chiamato “Pulizza Mazinga” per ripulirlo, anno dopo anno, che comprendeva una parte artistica che consisteva in un’agenda di graffiti. Quindi, unire l'arte alla cura del territorio diventa una cura della comunità, perché poi quel posto è diventato di nuovo il posto di tutti, dove tutti potevano andare. 

Attualmente è stato chiuso di nuovo, a testimonianza del fatto che le battaglie non finiscono mai. Ora ci stiamo adoperando perché sia aperto e sia a disposizione di tutta la comunità.

Ritornando un po' al fumetto e all'illustrazione, ti volevo chiedere: dal tuo punto di vista, come cambia il tuo stile nel tempo? Hai consapevolezze nuove rispetto agli inizi?

Allora, all'inizio il mio stile, come dicevo, veniva un po' dai puppet e dai graffiti, quindi uno stile che era più sul cartoonesco, che però non mi rispecchiava al cento per cento. Quindi ho iniziato a graffiarlo sempre di più, a distorcerlo, e volontariamente è diventato, magari, una ricerca dei corpi un po' più distorti, delle facce brutte… Su questo mi accosto un po’ al manicheismo, quel movimento che ricerca la faccia brutta, che però, in realtà, è la faccia vera che vivo quotidianamente. Quindi, ecco, sempre per allontanarmi da quella perfezione che io non ho mai vissuto nella mia realtà, volevo restituire qualcosa che fosse il più reale possibile, e che potrebbe sembrare una distorsione per altri. Per cui con il tempo ho cercato di spingere su questo.

Ora voglio lavorare su una semplificazione di quello che è il mio stile, perché mi piacerebbe fare un salto nel fumetto vero e proprio, per creare delle storie che siano sempre più lunghe e che siano non troppo pesanti a livello contenutistico-estetico, per lasciare spazio alla fruizione della storia. Quindi, magari, fare un fumetto che sia solo di illustrazione con poche parti scritte sarebbe bellissimo, ma non risponde a quello che vorrei fare. Sto cercando di evolvermi in questo, di capire come semplificare senza perdere quello che può essere la mia identità.

Intendi anche come ritmo di narrazione? 

Sì, e anche come ritmo di disegno. Voglio che arrivi un disegno che non sia per forza ultra dettagliato a livello di estetica dei personaggi. Vorrei cercare una forma semplificata, che poi è il processo che accomuna sicuramente tutti i fumettisti quando creano un certo tipo di narrazione. 

Se non sbaglio c'è una vignetta di Tuono Pettinato che parla proprio di questo, di come si passa dal creare uno stile proprio per poi “retrocedere” a uno stile più semplificato. Che magari sembra più naif, ma che, in realtà, ha uno studio dietro che è immane. È una cosa che apprezzo molto, anche in tanti fumettisti.

Mi ricollego a quello che dicevi riguardo il rapporto che hai con la realtà. Ho notato che anche nelle tue vignette più visionarie e astratte si percepisce una forte connessione con ciò che ti circonda. Come mai questo legame è così importante nel tuo modo di raccontare?

Deriva dal fatto che non voglio essere criptico. Voglio che le persone capiscano chiaramente il mio messaggio, anche quando, magari, vorrei fare qualcosa di un po' più oscuro, che possa colpire una nicchia. Diciamo che ho sempre questo fine, magari pure per un concetto più politico che ho dell'arte. Penso che l’arte debba essere per tutti, alla portata della comprensione di tutti, che non è un termine assoluto che io ricerco nell'arte altrui, assolutamente. Anzi, a me piace che ci siano delle zone d'ombra da scoprire. Però, quando hai la necessità che un messaggio arrivi prima, ad esempio qualcosa di più intimo come la salute mentale oppure uno sfogo personale, hai bisogno che venga recepito fuori, perché può essere un grido d'aiuto, come anche una fune che lanci a qualcuno. Quindi, se sei troppo criptico, non si capisce qual è il messaggio, non si capisce cosa vuoi fare o qual è la finalità, ecco.

Quindi, io cerco di lottare contro delle pugnette filosofico-artistiche che piacciano solo a me e che non arrivino agli altri. Poi, se le mie vignette piacciono anche perché uno le può interpretare come vuole, va benissimo. Io però voglio che quello che dico sia chiaro, come quando si pronuncia un discorso. Non voglio che ci sia troppo spazio all'interpretazione personale. Poi, ovviamente, ognuno ci si rivede e ognuno si rispecchia in modo diverso. Però io voglio che le cose siano il più dirette possibile.

Quindi astrazione, ma fino a un certo punto. 

Sì, l’astrazione è sempre metaforica. Quello che deformo per me è semplicemente un comunicare tramite l'estetica un messaggio caratteriale che, se usassi un altro tipo di linguaggio come la narrazione, dovrei giustificare, ad esempio, con un capitolo di descrizione. Quindi, magari, quel muscolo spostato, quell’osso che si vede di più, quel naso grosso, adunco, mi servono anche a dare una forma a ciò che spiego in un'immagine. Per cui ho bisogno di poche parole per dare un contesto generale. 

Hai partecipato alla campagna per la difesa del fiume Tara, minacciato dall’inquinamento delle aziende che operano sul territorio (ex Ilva, in primis). Come si intrecciano arte e attivismo nel tuo percorso?

Allora, per dare un contesto, inizio col dire che il Tara è un fiumiciattolo che spezza la zona industriale di Taranto e che sembra sorgere quasi come una contrapposizione naturale a tutto il brutto che c’è intorno: i monopoli industriali, l'Ilva e tutto il resto. Che cosa comporta questo? Comporta che chi è stato privato della fruizione delle spiagge, perché sono state mangiate dalle industrie, è stato privato anche di un legame con la propria natura. Il fiume Tara è come noi, cioè qualcosa che resiste a tutto questo contesto, ed è uno spazio di comunità unico nel nostro territorio, perché lì si incontrano più comunità provenienti da varie parti della provincia che normalmente sono molto nuclearizzate. Presso il Tara, invece, si ritrovano generazioni diverse, varie estrazioni sociali, varie provenienze che convivono perfettamente attorno a questo posto naturale. Quindi, dal punto di vista antropologico, il Tara è una risorsa infinita, che è legata anche a un'eredità generazionale che passa, a livello affettivo, dai nonni che portavano i nipoti, che a loro volta portavano i loro figli, come è successo a noi… Insomma questo luogo è un vincolo generazionale.

Cosa sta succedendo ora? Il fiume Tara già nel corso della sua vita moderna è stato vessato

dall'industrializzazione. Ne venne deviato prima il corso, modificando il tratto della foce per far posto al monopolio settoriale. Poi le sue acque iniziarono ad essere prelevate in maniera massiccia e usate per il raffreddamento degli impianti dell'ex-Ilva. Ora, invece, c'è il progetto a cui ci siamo opposti che è quello del dissalatore sul fiume Tara. 

Perché questa opposizione a un dissalatore che in teoria dovrebbe dare acqua potabile alla popolazione? Il fatto è che noi siamo un territorio che è sempre vessato e in cui il suolo è utilizzato in maniera esponenziale. Siamo pieni di invasi mai utilizzati, di misure alternative che avrebbero portato a non andare a intaccare ulteriormente un rivoletto d'acqua che può essere messo a rischio da questo prelievo ulteriore proprio perché ha un ecosistema molto fragile, sia per la zona in cui si trova sia per la sua vegetazione e fauna. 

Quindi andare a fare un altro prelievo, andare a costruire un'altra opera energivora quando già c'erano delle soluzioni che vengono adottate in maniera un po’ oscura… Ad esempio, ci sono delle perdite nella rete idrica pugliese che vanno fino al 40%, non vengono utilizzati gli invasi e viene sprecato l’80% dell'acqua piovana. A fronte di tutti questi sprechi, la lotta contro il dissalatore è semplicemente una lotta contro delle politiche che non tengono conto delle risorse naturali che già abbiamo in maniera utile, ma che puntano a costruire nuove opere che vengono giustificate dalla presenza di altre opere. Tutto ciò significa un allontanamento ulteriore dalla natura e dai nostri spazi. 

Ovviamente la lotta non è contro l'acqua potabile che viene prelevata. La lotta è contro un modus operandi che propone come alternative delle cose inutili e che non tende a migliorare le opzioni che già c'erano e che sarebbero meno invasive per un territorio che già è completamente invaso. Quindi questo è il contesto della nostra realtà. 

Come dicevamo prima, il mezzo che ho è quello grafico, che ho messo a disposizione per creare un'estetica della comunicazione del movimento di difesa tramite vignette e grafici, che servono a richiamare le persone. Alla base, quindi, c’è sempre l'idea del disegno e dell'arte che serve come “chiamata alle armi". Ovviamente nel senso più vero e non violento possibile, però che faccia capire alla popolazione che c'è bisogno di fare qualcosa. Quindi magari una grafica di un certo tipo aiuta anche varie generazioni ad avere un colpo d'occhio e ad interessarsi all’argomento. Io credo molto in questo tipo di visione anche a livello sociale e politico, della comunicazione fatta in maniera che attiri le persone non ingannandole, ma facendo loro vedere e capire.  

Anche l'arte è un tassello fondamentale per una rinascita a Taranto, e credo che questo tipo di sensibilità può portare le persone a unirsi a queste lotte.

Noto anche che i tuoi lavori contengono spesso una critica esplicita al potere ai padroni. Da dove nasce questa urgenza politica?

Ovviamente quando si viene da un tipo di background sociale che è quello dei perdenti, dei dimenticati, di chi appartiene agli ultimi strati, si sviluppa, secondo me in maniera naturale, un certo tipo di visione del mondo anche in funzione di quello che si è vissuto. 

All'inizio il writing mi sembrava un escamotage per fuggire da questo. Alla fine il writing che cos'è? È affermare il proprio nome in un contesto in cui ti viene vietato e tu stai obbligando la tua presenza. È sicuramente qualcosa di egoriferito, però ha del filosofico nel senso che ti permette di affermare la tua presenza in un mondo che ti vuole silenziare. 

Quindi quello è un primo passaggio fondamentale. Poi però hai bisogno di andare oltre, per non essere una presenza segreta. Io voglio affermare la mia presenza e la mia idea anche quando è scomoda e quando dà fastidio. E quindi, dato che il sistema di comunicazione è dei padroni, o di chi ha i mezzi economici per controllarlo, come da noi, utilizzare dei mezzi alternativi significa far sentire la propria voce per non essere invisibili. È una lotta per levarsi un cappio dal collo e gridare. 

Nel mio caso, il disegno diventa un grido dove ci dovrebbe essere il silenzio. E in questo ci vedo una lotta contro chi gestisce e controlla questo tipo di narrazione. Più vuoi silenziarmi e più troverò una maniera alternativa per comunicare. Se prima era il writing, ora è il disegno, unito anche a un attivismo un po' più strutturato.

E, spesso, quando i padroni vincono, si arriva ad una sorta di apocalissi. Infatti l'immaginario post-apocalittico ricorre spesso nei tuoi disegni. Cosa ti affascina di questo genere e come lo hai reinterpretato attraverso la tua esperienza? 

Allora, secondo me c'è un legame interessante che unisce il Giappone e Taranto. Tempo fa lessi un articolo sull’autore di Akira, Katsuhiro Otomo, che mi fece brillare gli occhi. Si parlava di come l'estetica post-apocalittica fosse stata segnata in Giappone dalla paura del nucleare e da tutto quello che hanno vissuto a livello sociale. Questa estetica, in realtà, è molto legata anche a Taranto proprio per l'impatto sulla vita e sulla morte che ha tutto il comparto industriale. Intendo anche a livello estetico.

Crescere tra ciminiere, tra altiforni, tra ingranaggi, ti porta a vivere quel richiamo estetico, cyberpunk, come se fosse un mondo distorto ma in cui in realtà viviamo. Quindi si può dire che noi stiamo vivendo la nostra apocalissi proprio in questo momento. 

Noto che tanti artisti, anche senza influenzarsi l'uno con l'altro, provano una fascinazione per l'apocalisse, per questa estetica un po' rarefatta. A livello cinematografico, ad esempio, mi viene in mente un film con Alessandro Borghi che si chiama Mondocane in cui si dipinge Taranto con un'estetica puramente post-apocalittica. 

Ripeto, è la realtà che viviamo, per cui secondo me c'è un collegamento naturale con quell’estetica. Anzi, è stata quasi lei a insediarsi da sola nei miei disegni, proprio perché vivo tra l'acciaio, tra l'inquinamento, in una terra rarefatta e desertificata in certe zone. Non si tratta di deformazione della realtà: è una realtà in cui già vivo. Non è un vezzo estetico. 

Visto che hai citato Mondocane, so che hai realizzato una serie di vignette anche su un altro film girato a Taranto, cioè Palazzina Laf.

Sì. Palazzina Laf, film di Michele Riondino, il suo debutto alla regia, per me è un film molto importante, anche molto bello a livello di narrazione cinematografica. Mi è piaciuto molto perché accende una luce su quella che è la questione del mobbing che avviene dentro alla fabbrica. Non si parla solo di salute, di inquinamento, ma anche di salute mentale e di quella strategia, appunto, dei padroni, per silenziare chi denuncia, chi si oppone. Ciò è un must nella storia di Taranto. Quindi, Riondino parla del caso della Palazzina Laf, che è una palazzina di confino per i lavoratori Ilva del tempo, che fu il primo caso certificato di mobbing nazionale, se non sbaglio.

E quindi dedicammo al film un disegno che parlava di una scena dove appunto il protagonista, interpretato da Riondino, parlando con un altro personaggio, rifletteva su come l'acciaio prodotto nell'Ilva in realtà non fosse prodotto per noi, ma servisse ad altro. Ora sentiamo parlare di acciaio utilizzato per le armi, nel prossimo futuro, o per tutta altra destinazione. Quindi quello che si produce a Taranto fa arricchire altri, mentre a noi lascia solo la morte. 

La considerazione che i personaggi del film facevano è “Ti sei mai chiesto perché accanto all’Ilva non c’è neanche una fabbrica di forchette?” Perché l'acciaio che facciamo qui non serve per noi, serve per altri. Quindi questa è una domanda che fa riflettere sulla destinazione dell’acciaio, ma anche su come si viene alienati dal proprio processo lavorativo, perché il nostro lavoro serve a qualcosa che è al di fuori di noi. Tutto ciò dice tanto sulla narrazione a livello nazionale che considera l’acciaio come se fosse vitale per noi, mentre in realtà porta solo morte. E questo è un paradosso interessante, secondo me.

Nelle tue vignette compari spesso come protagonista. Quanto è importante per te inserire elementi autobiografici in ciò che racconti? E poi volevo anche chiederti dell'umorismo amaro che utilizzi di frequente.

Allora, l'elemento autobiografico esplicito fa parte di quel tipo di evoluzione che cerco di avere nel mio stile. Prima, con il writing, era come se avessi una doppia identità, di cui una è nascosta. Si tratta di un linguaggio molto più interno, che colpisce una nicchia. Iniziare a parlare di certi temi è stato un passo avanti, ma la vera evoluzione c’è stata quando mi sono messo in prima persona a livello grafico, che secondo me è un ulteriore passo avanti verso quella verità che cerco. 

Quando mi rappresento, non creo un personaggio che sia altro da me. Leocifero e Leo sono completamente sovrapponibili. Infatti, Leocifero è un nome che allunga quello che è la mia realtà di persona. Chi mi conosce sa che io ho un certo tipo di ironia, un certo tipo di approccio alla vita, e quindi il mio personaggio è in realtà la mia persona trasposta a livello grafico. Proprio per quella voglia che ho di essere il più trasparente possibile, anche per chi mi ascolta. Perché magari vedendo questo sforzo di sincerità è possibile avvicinarsi sempre di più a quello che dico. Ma non in maniera propagandistica, cioè di voler far avvicinare gli altri a tutti i costi a un’idea. Si tratta di far vedere la purezza dietro quello che penso. Non c'è un messaggio che vada al di là di quello che è il mio vissuto, il mio studio, il mio pensiero, che non si presta ad altro se non a una richiesta di avvicinamento a determinati temi. 

L'umorismo, invece, deriva da un'altra cifra, che è tipicamente tarantina. Come esiste il british humor, esiste secondo me una cosa che ho codificato, che è la “stomacarìa” tarantina. Il termine deriva ovviamente da “stomachevole”, che però a Taranto si declina in maniera diversa. 

Cos'è la “stomacarìa”? È lo scherzo, lo scherno, la satira, che gioca sempre sul filo del rasoio, che potrebbe diventare troppo esagerata o crudele da un lato, oppure troppo fruibile, simpatica, anche un po’ naif, dall’altro. Si tratta di muoversi tra quello che è concesso dire o fare e quello che non è concesso, e si usa per fare ironia su temi anche importanti. 

La “stomacarìa” è, secondo me, un meccanismo di coping che abbiamo a Taranto, cioè di trattare la realtà in maniera quasi beffarda, come se fosse un'arma da usare contro questa realtà che magari ti vorrebbe grigio e affranto. Ovviamente, tu non è che stai negando questo grigiore che c'è fuori, ma è come se la tua risata di scherno di fronte a questa realtà fosse un meccanismo per controbattere. Quindi l'umorismo, che fa parte anche della mia persona, è amaro perché è il contesto stesso ad esserlo. 

Certo. E poi, oltre all’arma dell'umorismo, utilizzi anche la poesia. Infatti nella tua bio di Instagram c'è scritto che alcuni tuoi lavori sono “poesie al retrogusto veleno”. Cosa intendi con questa espressione? 

Il mio percorso artistico è sempre stato influenzato dal mio percorso di studi, che è quello letterario. Infatti non ho mai seguito dei corsi d'arte più strutturati. Sono un autodidatta, e si vede: ho uno stile molto naif, impreciso, sporco, che ovviamente non ha quel tipo di velleità tecnica a cui magari potrei ambire. Questo perché ho portato avanti anche un altro tipo di studio che è quello letterario, delle lingue, che peraltro fa parte anche del lavoro come insegnante che sto cercando di portare avanti e che mi lega alla passione per la parola scritta. 

La poesia è come il disegno, secondo me, ovvero un’immagine, una diapositiva, anche sintetica, di concetti enormi che possono arrivare con poche parole a fare breccia nelle persone. Io dò lo stesso potere del disegno alla poesia, perché mi permette di esprimere un pensiero all'interno di parole che spingono il linguaggio al di là di quello quotidiano, donandogli una forza maggiore. Poi, abbinare ai versi una veste grafica per me è importantissimo. Molto spesso scrivo una poesia, un pensiero poetico, a cui poi abbino un disegno. Non avviene mai il contrario. Non è mai l'estetica che richiama il verso, ma sempre il contrario.

Ok, quindi si può parlare quasi di poesie grafiche.

Sì, esatto. 

Rimaniamo in ambito fumetto. Ti volevo chiedere come è nata l'esperienza della rivista Tarazine - Ancora vivi, quali sono i suoi obiettivi e qual è la visione che la guida.

Allora, Tarazine è una fanzine di controcultura che è nata ormai un po' di anni fa a Taranto, fondata da Luca Verardi e Giacomo Guarini, due dei miei amici più cari. Il contesto era quello del percorso politico e attivistico che portò al 4 maggio di Taranto di qualche anno fa, una grande manifestazione sotto l'Ilva. Io entrai in un secondo momento rispetto alla fondazione.

Tarazine nasce, quindi, da un sottobosco molto politico. Declinava, però, questo impegno non in una maniera, come posso dire… da giornale classico, ma aveva una veste controculturale. Quindi si parlava di autori e di storie nascoste, e il mezzo era quello del fumetto, della poesia, degli articoli in stile gonzo. E ognuno di noi portava il suo. Io penso che all'interno del Tarazine ci siano alcuni degli artisti più forti che conosco tuttora. 

Anche se adesso il progetto Tarazine è in stallo per una serie di ragioni, penso che le persone al suo interno, che sono ancora vive nel contesto dell’attivismo e dell’arte a Taranto, siano veramente tra i miei più grandi spunti. Quella rivista per me rappresenta veramente un vincolo ancora più forte della mia terra, ma soprattutto una fonte di ispirazione enorme.

Molto spesso ci troviamo a lavorare con persone che non condividono con noi valori o altro, e va benissimo. Però lì sembrava proprio di sentirsi spinti dalla forza e dalla bravura degli altri. Penso a Lorenzo Monfredi, Luca Verardi, Giacomo Guarini. Insomma, ognuno di noi aveva il suo modo di esprimersi, e secondo me lo faceva nella maniera più forte al momento.

Quindi, dopo vari tentativi falliti, perché come ogni cosa bella c’è una fine, che in realtà non è mai stata annunciata, ci piacerebbe ritornare con un numero che riporti il Tarazine nella circolazione underground, visto anche l'impatto che ha avuto in quel periodo a Taranto. Vogliamo far capire che c'era il famoso grido di cui parlavo prima, e che quindi esiste una narrazione che va oltre quella dominante.

L’ultima domanda che ti vorrei fare è sul futuro, sui nuovi progetti che hai in mente. Cosa pensi che ti serva, a livello sia personale che professionale, per realizzare un fumetto più strutturato? 

Credo che il limite più grosso che ho ora sia il tempo. Ho già delle storie pronte che aspettano di essere sviluppate a livello grafico. Anche a livello dialogico sono scritte. Però, vivendo in un’epoca di tumulti, soprattutto a Taranto, capisco che la mia chiamata alle armi serve a questo, e quindi serve quel tipo di estetica di cui parlavo prima, anche per contrastare una narrazione che già c'è. Quindi mi concentro molto sul rispondere a questo tramite la mia arte, la mia satira e la mia presenza nelle piazze. 

Mi auguro di trovare un periodo di pace mentale per poter mettere al primo posto la mia voglia di fare una storia un po' più corposa, che in realtà poi affonda molto le radici in quello che abbiamo detto fino ad ora e che ha solo bisogno di essere un po' curata. 

Mi ci devo dedicare con la giusta attenzione. Non mi piace il pensiero di dover cominciare qualcosa di così importante senza dargli la giusta centralità. Quindi adesso sto aspettando questo, un momento di pace all'interno della guerra. Che poi magari non ci sarà mai, quindi dovrò disegnare su dei post-it e delle pagine strappate, come faceva Pazienza.

Perfetto, sei stato chiarissimo. Grazie mille, Leo, per questa intervista.

Grazie a te. 

Intervista a cura di Mattia Mirarco

Link per approfondire:

Leocifero

Gambe di Mazinga

Tarazine

Difesa del fiume Tara

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