Letture seriali speciale: Magico Vento
L'Uomo Strano di Gianfranco Manfredi
«La lunga esperienza maturata sul campo mi ha reso più cauto, più scettico di quanto non fossi molti anni fa, senza però togliermi la voglia di affrontare ancora una volta il giudizio del grande pubblico. In un momento in cui il mondo dei Fumetti è particolamente avaro di novità, a causa del difficile periodo che sta vivendo, ho voluto lanciare un messaggio di fiducia e di ottimismo, realizzando il progetto sul quale stavamo lavorando da quasi due anni. Un soggettista di talento, Gianfranco Manfredi, già noto ai lettori di Nick Raider e Dylan Dog, e una squadra composta dai migliori disegnatori italiani (ma, come vedrete sfogliando l'abo che avete tra le mani, c'è anche un "Grande di Spagna", José Ortiz) hanno dato vita a un protagonista, Magico Vento, che personalmente mi sembra degno di affiancare gli altri personaggi della nostra Casa Editrice ai quali avete concesso il vostro favore. Le sue avventure avranno come sfondo un universo di frontiera davvero inconsueto, in cui si incontreranno sia i temi epici e movimentati del western tradizionale siale le cupe e inquietanti atmosfere dell'horror. Insomma, sono pronto a scommettere che Magico Vento riuscirà a divertirvi e sorprendervi!»
Con queste parole, Sergio Bonelli introduceva i lettori al primo numero di Magico Vento, datato 20 Giugno 1997, intitolato Fort Ghost e dall'allora modico prezzo di 3000 lire.
Come lo stesso editore faceva notare in coda a quell'albo, nel mitico "Giornale" promozionale che sarebbe stato soppiantato nel tempo dalle "Preview" online, erano passati ben sei anni dall'ultimo nuovo personaggio introdotto nel roster della Casa Editrice di Via Buonarroti, ossia Nathan Never.
Erano anni complicati per il fumetto, e certe scommesse editoriali erano, con quello stile che da sempre sembrava contraddistinguere la Bonelli, mosse sia dallo spirito dei tempi, sia dalla volontà precisa di esplorare, con giudizio, nuovi territori, nuovi generi e, in questo caso, particolari commistioni: non a caso Magico Vento veniva presentato come "Western Horror", andando così ad abbracciare, idealmente, il mondo dei "pezzi da novanta" come Tex e Zagor, e quello più indefinibile, ma di successo, di Dylan Dog che, negli anni di maggior fulgore mediatico, di epigoni concorrenti ne aveva generati sin troppi.
E proprio sulle pagine di uno di quei "bonellidi" che affollavano le edicole nei primi Anni '90, cercando di replicare il successo dell'Indagatore, aveva fatto il suo debutto nel mondo delle nuvolette parlanti Gianfranco Mandredi, nome che si era sin lì contraddistinto per il suo essere straordinariamente poliedrico: sceneggiatore di cinema, scrittore di romanzi, cantautore, attore, critico musicale, autore televisivo e teatrale.
Un "multiforme ingegno", lo si potrebbe più o meno propriamente definire, che per l'allora Editoriale Dardo creò Gordon Link (mentre a definire graficamente il personaggio, sulle fattezze di Kyle MacLachlan, fu Raffaele Della Monica): nata come soggetto per una serie televisiva poi mai realizzata, raccontava di un ex poliziotto che si occupa di indagini paranormali, con la sua squadra di "Acchiappafantasmi", e difatti la serie, sulla falsariga di Ghostbusters, mischiava ectoplasmi e commedia, per una lettura che voleva prendere le giuste distanze da DYD.
Ebbe un discreto riscontro di pubblico, poi la Dardo fallì all'improvviso, e la serie chiuse così i battenti dopo una ventina di numeri, tra albi regolari e speciali vari.
Bonelli, che per i talenti aveva da sempre "l'occhio lungo", non rimase indifferente alla bravura di Manfredi come narratore anche di storie a fumetti, e gli propose di salire a bordo proprio affrontando sia l'inquilino di Craven Road che Nick Raider, sino alla creazione di un personaggio tutto suo. E qui arriviamo al 1997 e, appunto, al primo numero di Magico Vento, questo "Western Horror" dalle particolari atmosfere e un protagonista che stavolta prendeva i suoi romantici connotati dal Daniel Day-Lewis de L'Ultimo dei Mohicani.
Ne sarebbe seguita un'avventura editoriale lunga 130 numeri, più uno Speciale finale, che riuscì a concludere degnamente la sua corsa nonostante il cambio di periodicità (dopo il #100, la serie passò da mensile a bimestrale, con albi da 132 pagine).
Una saga che si rivelò lunghissima, appassionata e appassionante, che ebbe il suo massimo picco (in quella che è una serie dalla qualità sempre sostenuta) nei cinque episodi dedicati alle Guerre Indiane, e che poteva vantare un suo piccolo, personale record, a testimonianza dell'ispirazione, artistica e narrativa, del suo ideatore: a parte un pugno di numeri, firmati da Tito Faraci e Renato Queirolo allo scopo di fargli "riprendere fiato", tutte le sceneggiature di Magico Vento furono, infatti, scritte dal solo Manfredi, per una maxi-narrazione che seppe evolvere, senza rimanere incatenata al concetto di "mistero del mese".
Ma torniamo a quel primo numero, a quel Fort Ghost disegnato da Ortiz nel quale facevamo la conoscenza di Ned Ellis, un ex Soldato Blu passato dalla parte degli indiani e diventato addirittura uno sciamano. Un uomo con il dono della visione, a cui il passato risulta precluso da una scheggia di metallo che gli è rimasta conficcata nel cranio, dopo l'esplosione di un treno blindato. Sarà Cavallo Zoppo, un "uomo della medicina", a portarlo in salvo, istruendolo alle arti della magia indiana.
Uno spirito inquieto, un guerriero, un bianco che i suoi simili vedono come un "rinnegato", mentre per chi lo ha accolto è un Uomo Strano, con indosso una giacca di daino di fattura indiana e dei pantaloni militari, a simboleggiare quell'incrocio di culture che lo contraddistingue, quel passato che non vuole nascondere, e quel presente che affronta seguendo con rispetto i dettami e le tradizioni di quel popolo adottivo.
Al suo fianco, Willy Richards detto Poe, perché assomiglia come una goccia d'acqua al celebre Edgar Allan. Una scelta che, come racconterà successivamente lo stesso Manfredi, nacque nel tentativo ideale di sanare "una vecchia ferita", ovvero la rivalità storica tra James Fenimore Cooper (l'autore de L'Ultimo dei Mohicani) e Poe: i due scrittori avevano due modi diversi d'intendere la letteratura americana.
Magico Vento è, in un certo qual modo, proprio il confluire della Frontiera di Cooper con il mistero, l'orrore e l'inquietudine di Poe.
Qui torniamo a quel "Western Horror", in qualche modo appropriato e il suo contrario, perché al di là dell'efficace strillone, a vederla in senso stretto, la componente "mostruosa" in MV è in realtà relegata ad una ventina di numeri. A predominare è il Lato Oscuro della Frontiera, caratterizzato in assassini spietati, pazzi sanguinari, fanatici, occultisti e stregoni. E spietati uomini d'affari: come quello che sarà il villain principale della serie, Howard Hogan, che fa il suo debutto proprio in quel primo numero (a testimonianza ulteriore delle profonde basi su cui MV poggiava, costruite con meticolosa precisione, oltre che ricerca) e sarà una "costante" lungo la saga, anche e soprattutto quando la Storia, quella con la S maiuscola, deciderà di avere il sopravvento come tematica principale.
Non che sia mai davvero mancata, in Magico Vento, inteso come testata e come personaggio: a rendere un autentico gioiello questo fumetto è sempre stata la profonda conoscenza dell'epopea del West da parte di Manfredi, uomo di cultura, vorace nel dedicarsi allo studio delle tradizioni e delle vicissitudini dei nativi americani.
Sempre trovando quel fragile equilibrio tra la deriva enciclopedica e la narrazione, coniugando creatività ed essenzialità, quel dono della sintesi che rende la Nona Arte una delle forme di intrattenimento più popolari e al contempo affascinanti.
Potendo contare su un parco disegnatori di assoluto prim'ordine, di veri maestri della matita: se infatti quella di Manfredi è praticamente l'unica firma alla voce "Soggetto e Sceneggiatura", in quella "Disegni" si sono succeduti, con risultati splendidi in termini di composizione, ritmo e "regia" (sempre nei confini della gabbia bonelliana) nomi come Pasquale Frisenda, Corrado Mastantuono, il già citato Ortiz, Ivo Milazzo, Goran Parlov, Stefano Biglia, Giuseppe Barbati, Bruno Ramella, Eugenio Sicomoro, Corrado Roi, Luigi Piccatto e Darko Perovic (ne sto dimenticando, non volutamente, tanti altri sicuramente, e chiedo scusa ad ognuno di loro).
Magico Vento è stato la dimostrazione che il Western non è un genere che si limita alle sparatorie e ai saloon, ai duelli a mezzogiorno e al mito del "buon selvaggio", quegli stessi canoni che, dopo averne segnato il successo, secondo molti sono anche i motivi per cui il pubblico ha via via perso interesse. Non è assolutamente vero, perché il Western sa e può essere creta narrativa, riuscendo anche a spaziare e trovare nuove ragioni d'essere (anche attuali, penso a Yellowstone).
Lo capì il cinema, quando decise, negli Anni '60 e '70, di dare maggior risalto ai nativi, mettendo gli sconfitti al centro della trama (con titoli epocali come Un Uomo Chiamato Cavallo e Piccolo Grande Uomo), dando loro spazio e rilevanza, allontanandoli dallo stereotipo fatto di "Augh" e verbi all'infinito in cui li si era voluti prima relegare. Lezioni che poi torneranno alla ribalta con titoli come Balla coi Lupi, che segnerà l'inizio della fascinazione di Kevin Costner per il Western, e il già citato Ultimo dei Mohicani.
Non ci fu magari un ritorno in pompa magna del genere, come si auspicava a Hollywood, ma il plauso per quelle singole storie dimostrava che c'era attenzione da parte del pubblico, specialmente per un West che sapesse essere romantico, non più incasellato in buoni e cattivi, desideroso di conoscerne anche lati meno luminosi, da entrambe le parti.
Questo Manfredi riuscì a tenerlo ben presente, sempre nell'ottica di quel rispetto per una cultura così lontana dalla nostra, sempre senza la presunzione di salire in cattedra come esperto, ma studiando con attenzione come parlare e presentare l'argomento, sia nelle sue accezioni fantastiche e leggendarie che in quelle più umane.
La Frontiera di Magico Vento parla attraverso i suoi protagonisti, uomini e anche donne (lo scrittore, a più riprese, dichiarò il suo stupore nello scoprire quanto larga fosse la fetta di lettrici della testata, a dimostrazione di quanta bontà fosse nascosta nel suo lavoro, capace di superare un altro stereotipo, che il pubblico femminile non sia attirato dal Western), con i loro sentimenti, le loro contraddizioni, presentando bianchi e indiani, in egual misura, come coraggiosi e vigliacchi, forti e deboli, spietati e mossi da umana compassione.
Persone vive, reali, con una loro sensibilità, la stessa che ha reso Ned e Poe così vividi nella mente dei lettori, mossi da psicologie, pensieri e turbamenti, a cui i disegnatori davano forma, attraverso i tratti, i gesti e le inquadrature, per una lettura sempre insolita, sempre assolutamente affascinante, dove i dialoghi fiume sapevano quando lasciare spazio e "l'ultima parola" alla forma espressiva più potente, quella del silenzio.
Manfredi in questo ha sempre dimostrato una sensibilità "moderna", capace di garantire la fedeltà dei lettori, attirati dall'Horror, intrigati dalla cornice Western, ma conquistati da personaggi mai monoespressivi, quanto pronti a saltare dalla pagina e puntare al cuore.
In questi termini, importante fu anche la decisione di chiudere al momento giusto, prima che MV perdesse la sua spinta drammatica, finendo per relegarsi ad una "repetita (poco) iuvant" di situazioni già affrontate, solo per il gusto di mandare in edicola l'albo ogni due mesi, e soprattutto deludere quello "zoccolo duro" che l'aveva sostenuto sino lì.
Anni dopo, Magico Vento sarebbe approdato anche in America per la Epicenter Comics (come Magic Wind) e in altri paesi esteri, mentre qui da noi Panini Comics tentò la via della ristampa a colori, con scarsi risultati (si fermò a una ventina di numeri, se non erro).
Ma, proprio come accade ai personaggi migliori che ti prendono, appunto, al cuore, Ned e Poe rimanevano saldi nei pensieri degli aficionados, che chiedevano a gran voce sui social un loro ritorno, sinché, in due occasioni, Manfredi non trovò la giusta idea per accontentarli.
Due miniserie, Il Ritorno e Guerre Apache, sette albi in tutto, per quella che possiamo definire come una "coda" dell'epilogo, con la rara capacità di non depotenziare il finale originale, ma semplicemente di accompagnarlo, ritrovando vecchi amici per un saluto.
Nel mentre, Manfredi sarebbe approdato anche su Tex, avrebbe scritto Volto Nascosto e Shanghai Devil, ideato Adam Wild, sempre sotto il segno dell'Avventura "di una volta" e, ancora con la Storia come musa, dato vita a Cani Sciolti per l'etichetta Audace della SBE.
Quella stessa casa editrice che, fomentata dal riscontro per MV, avrebbe continuato ad esplorare nuovi confini e scommettere su personaggi complessi e variegati: subito dopo sarebbero infatti arrivati nelle edicole Napoleone, Brendon, Julia, Jonathan Steele, Gea e Dampyr, in quello che si può ben definire un periodo di ispirato "furore" creativo (anche per questo ho voluto iniziare con quella lunga citazione di Sergio Bonelli).
Lo so, ci ho girato attorno più che abbastanza: questo lungo pezzo nasce all'ombra della morte di Gianfranco Manfredi, lo scorso 24 Gennaio.
Morte che mi ha colpito, non lo nego, e che con queste righe voglio incanalare nel ricordo di lui come autore, attraverso quello che è stato il suo personaggio migliore, quello che più di altri ha contribuito a formarmi come lettore, non solo di bonelli(di).
Perché Magico Vento ha segnato una stagione meravigliosa per il Fumetto Italiano, ha saputo aprire strade, consolidare talenti al tavolo da disegno e consegnarne altri all'attenzione dei lettori.
È stato il frutto di una mente eccezionalmente creativa, che sapeva divulgare quanto intrattenere, affrontare la Storia quanto trovare in essa pieghe nascoste per raccontare storie dalla "s" minuscola, ma dalle emozioni poderose.
Una volontà, quella di raccontare, che lo avrebbe visto nuovamente ritornare ad un vecchio amore, Dylan Dog, come di recente ne ha dato testimonianza la stessa curatrice della testata Barbara Baraldi. Storie che leggeremo, quando saranno pubblicate, con un pizzico di tristezza in più.
Perché, per un grande scrittore, il testamento migliore sono le sue parole, i concetti che hanno saputo veicolare, le sensazioni che hanno saputo trasmettere, siano prosa, dialoghi di una sceneggiatura, versi di una canzone o racchiuse dentro un balloon. E Gianfranco Manfredi ha saputo fare di questo la propria Arte.
Anche io, qui in chiusura, non posso che salutarlo con quel "Mitakuye Oyasin", che in lingua Lakota significa "Siamo tutti fratelli", e che era il rituale saluto con cui Manfredi chiudeva la famosa Posta di Poe, la rubrica della corrispondenza coi lettori di Magico Vento.
Due parole, scelte con cura, e che, in qualche modo, ci facevano sentire come parte di quel mondo, come se l'autore ci permettesse, mese dopo mese, di instaurare un rapporto che andasse oltre la semplice lettura dell'albo.
Anche per questo, mi sento di usare anch'io una parola, forte e sentita, nella sua banale semplicità: Grazie.