Martin Mystère: Alfredo Castelli a confronto

Marco Machera fornisce una sua lettura delle storie del BVZM, tra passato e presente, in un omaggio al suo vulcanico e indimenticabile ideatore

Ho deciso di leggere, per la prima volta, la serie di Martin Mystère in ordine cronologico. L’occasione si è presentata con la nuova ristampa a cura di If Edizioni, che arricchisce ogni uscita con redazionali e approfondimenti specifici. In precedenza avevo letto solo dei numeri sparsi, comprati di tanto in tanto in edicola, quindi in un certo senso ho l’impressione di approcciarmi a un personaggio del tutto inedito. Perché il Martin Mystère dei classici “primi cento” (che a quel che si legge in giro sono sempre gli albi migliori, non importa quale sia la testata) è molto diverso dal Mystère post 1989. Segno di un’evoluzione graduale, come pure evidente, tanto del personaggio quanto del suo autore: il grande Alfredo Castelli, purtroppo scomparso in febbraio di quest’anno.

La cover del primo numero della riedizione integrale di Martin Mystère proposta da If Edizioni: uscite mensili che raccolgono due albi originali ciascuna.

Castelli non era certo tipo da adagiarsi sugli allori. Uomo di cultura, sempre coinvolto in numerose iniziative e sempre con quello spirito da studioso del fumetto che lo contraddistingueva, riversava l’irrequietezza creativa anche nella sua creatura più celebre, affinando la personalità del BVZM (il “Buon vecchio zio Marty”) e adattandola ai tempi, addirittura rivedendo alcuni passaggi delle vecchie storie per riconsegnarle in maniera più coerente ai lettori, nel nome di una continuity rigorosa.

Per il sottoscritto – anche per una semplice questione anagrafica –, “Il detective dell’impossibile” è sempre stato il cinquantenne compassato e logorroico degli anni Novanta e Duemila, più simile a un personaggio da fumetto d’autore e spostato sull’asse franco-belga; tuttavia, abbastanza popolare da poterlo apprezzare in un team-up televisivo con la conduttrice Syusy Blady (cercate Turisti per caso in Egitto su YouTube); oppure, quello della trasmissione televisiva immaginaria I Misteri di Mystère e che per un periodo ha abitato a Firenze ai margini di Piazza Santa Croce; o ancora, quello che ha affrontato il “Segreto di San Nicola” a Bari in uno storico albo gigante del 1995. Ma non è sempre stato così.

La cover di Il segreto di San Nicola, primo albo gigante di Martin Mystère.

Il Martin Mystère degli albi usciti nei primi anni Ottanta – l’inizio di una ventata di modernità nella proposta editoriale della Sergio Bonelli Editore, che di lì a poco avrebbe lanciato Dylan Dog, Nick Raider, Nathan Never – era più simile a un Indiana Jones con la Ferrari, avvezzo alla scazzottata e giramondo. Potremmo dire uno scavezzacollo alla Mister No (che Castelli riteneva il personaggio migliore della Bonelli, nonché quello che più si divertiva a sceneggiare), ma con l’animo del topo da biblioteca. E per nulla insensibile al fascino femminile, nonostante una relazione più o meno ufficiale con Diana Lombard, che nei primissimi albi è relegata al ruolo marginale di eterna fidanzata, gelosissima e dalla scenata facile. Martin era inoltre provvisto del proverbiale arci-nemico, Sergej Orloff; un personaggio che, nelle parole di Castelli, finì per ricalcare sempre di più un Gambadilegno di “topoliniana” memoria, e che di conseguenza è stato riconfigurato poco per volta, con sviluppi anche piuttosto inaspettati.

Disegni di Gaetano e Gaspare Cassaro (da Il mistero del Nuraghe, albo numero 34 della serie regolare di Martin Mystère).

Già queste poche righe dovrebbero farci capire quanto il personaggio di Mystère sia cambiato nel corso degli anni. Era diversa anche la scrittura. Le prime storie (perlomeno quelle che sono riuscito a leggere finora) erano tutte farina del sacco di Alfredo Castelli. Intendiamoci, gli elementi fondamentali c’erano già: gli approfonditi riferimenti storici e culturali, l’irresistibile mix di realtà e fantasia, il senso dell’avventura e della scoperta; ma anche i balloon pieni di parole, i dialoghi infiniti, le didascalie che talvolta occupavano metà delle vignette (i cosiddetti “spiegoni”, che per molti detrattori della serie sono stati il male assoluto e hanno avuto un effetto respingente).

Da appassionato della collana e dell’autore Castelli, devo ammettere che anch'io, con alcuni di questi primissimi episodi, ho fatto leggermente fatica. Inoltre, il rischio delle collane dall’impostazione realistica è quello di invecchiare precocemente: ho l’impressione che certi vecchi albi risultino per forza di cose più datati di altri. Una sensazione che non ho mai avvertito con le storie del Mystère più maturo, le quali – nonostante il DNA condiviso con le prime uscite – mi sono sempre sembrate dense e appassionanti, e soprattutto senza tempo, probabilmente in virtù di un diverso tipo di impianto grafico e narrativo, meno ascrivibile a un retaggio da fumetto anni Settanta.

Difatti, è proprio in quella decade che Castelli inventa il personaggio, e con qualche differenza: fino a poco prima dell’uscita del numero inaugurale (Gli uomini in nero, aprile 1982) il nome della testata avrebbe dovuto essere Doc Robinson, e l’ambientazione sarebbe stata londinese invece che newyorchese.

Una tavola tratta dalla versione “Doc Robinson” del primo numero, Gli uomini in nero (1982), prima che l’ambientazione venisse spostata a New York e il personaggio prendesse il nome di Martin Mystére. Disegni di Giancarlo Alessandrini.

La cover del numero celebrativo per i trent'anni di Martin Mystère, che conteneva in appendice il primo numero della serie in versione "Doc Robinson" (vedi anche qui).

Inoltre, le storie erano state pensate per una foliazione di 64 pagine. Poi il passaggio definitivo a Bonelli (all’epoca chiamata ancora Daim Press) e di conseguenza alle classiche 96 pagine bonelliane. Gli aggiustamenti effettuati in corso d’opera finirono inevitabilmente per caratterizzare le prime uscite, ma va detto che è normale: tutti i nuovi personaggi passano per delle fasi di assestamento più o meno lunghe.

La cosa mi è parsa più che mai evidente quando, giorni fa, ho deciso di condurre una ricerca personale sugli albi di Martin Mystère inerenti all’ambito musicale o, più generalmente, al suono e all’acustica (ma su questo ci vorrebbe un approfondimento a parte). Perciò mi sono concesso una breve pausa dalla lettura dei classici e ho rispolverato un numero della bistrattata serie bimestrale, comprendente gli episodi che vanno dal 279 al 374, usciti nel periodo compreso tra maggio 2005 e aprile 2021. L’albo in questione è Voci dal passato (numero 325, febbraio/marzo 2013). Compiere questo improvviso balzo temporale è stato interessante per diversi motivi: intanto, senza volerlo, ho ripescato una storia scritta proprio da Alfredo Castelli (per i suggestivi disegni di Giulio Camagni), che nel tempo aveva diradato i suoi contributi diretti; e l’episodio, per certi avvenimenti legati al passato di Martin, si ricollega all’albo Incontri ravvicinati, il numero 27 del 1984, che ho letto solo di recente. Bingo!

La cover di Giancarlo Alessandrini per Incontri ravvicinati, il numero 27 di Martin Mystère del 1984.

Il raffronto involontario tra il Castelli degli anni Ottanta e quello dei Duemila ha confermato le impressioni ricavate finora dalla lettura cronologica. Quella di Voci dal passato è, per il sottoscritto, una storia davvero ben congegnata, in cui ritroviamo tutte le caratteristiche base del personaggio. Il quale, tuttavia, ha ormai affrontato il processo evolutivo deciso dal suo autore. Difatti, anche il lato emotivo del nostro beniamino ha ben altro spessore rispetto al passato. Mi è sembrato di riuscire a empatizzare meglio con il BVZM: non è più una specie di super uomo che passa con disinvoltura dai libri all’azione. Piuttosto, ha anche lui le sue fragilità, i suoi dubbi. Una caratteristica, questa, che aveva iniziato a palesarsi in albi eccellenti come Il flauto di pan (numero 39), una storia dalla forte impronta ecologica in cui Martin si confronta con la meschinità e il bigottismo dell’uomo rimanendone spiazzato, o il successivo La reincarnazione di Annabelle Lee, in cui ancora una volta la dimensione umana del personaggio è ben in evidenza.

Disegni di Giulio Camagni (da Voci dal passato, numero 325 della serie regolare).

Tornando al “presente”, l’espediente narrativo di Voci dal passato si fonda su un senso di profonda nostalgia che travolge Martin, quando viene mysteriosamente in possesso di un cd contenente alcune vecchie registrazioni audio del padre Mark Mystère, deceduto in circostanze ambigue molti anni prima. Che in questo albo il detective dell’impossibile si ritrovi a fare un viaggio all’indietro nel tempo è stata un’altra bizzarra coincidenza nel contesto delle mie riletture, quasi un avvenimento metafisico nel quale mi sono posto al centro degli eventi raccontati, senza parteciparvi attivamente ma osservando dalla distanza. Il racconto è avvincente, tiene incollati alle pagine nonostante la proverbiale ricchezza dei testi; ma la tensione è ben calibrata, cresce un po’ alla volta finché anche noi ci ritroviamo preda dell’ossessione sul filo della malinconia e dei ricordi che attanaglia Martin – il quale si concede anche un inseguimento in auto e una breve scazzottata, come ai vecchi tempi. Ma il tutto si rivela funzionale alla storia, e i tanti dialoghi e i rimandi a personalità ed eventi storici (il personaggio chiave del racconto è il poliedrico Athanasius Kircher, filosofo e studioso del XVII secolo), fungono da rampa di lancio per gli sviluppi fantasiosi della vicenda.

Il caro Java è la solita spalla leale, ma ridimensionata e resa più “realistica”, pur nella sua unicità di uomo di Neanderthal trapiantato nel XXI secolo (nei primi albi incarnava quasi una forza sovraumana, in grado di contrastare qualsiasi insidia o sgominare intere bande di criminali, e succedeva sovente che fosse lui a cavare via dai guai l’amico professore; troppo supereroistico, forse). Diana è infine divenuta la moglie di Mystère e ha acquisito una sua dignità: un altro elemento, questo, molto interessante nel contesto dell’evoluzione di Martin, che quasi da subito si è distaccato dal cliché di “uomo fascinoso e donnaiolo”, tanto in voga nelle serie a fumetti e non solo. Sempre nell’ottica dei collegamenti con il passato (attenzione: spoiler alert), nell’episodio in questione ritroviamo il topos narrativo per cui “l’oggetto del mistero” viene distrutto: un altro aspetto delle prime storie che finì per indispettire Castelli, soprattutto quando c’erano di mezzo basi atlantidee (il mito di Atlantide è stato un altro tema ricorrente della collana, soprattutto agli inizi) che saltavano in aria senza lasciare traccia; una soluzione che, per sua stessa ammissione, finì per rivelarsi piuttosto banale e sbrigativa. Ma nel caso di Voci dal passato mi è sembrato qualcosa di meno plateale del solito, nonché un epilogo plausibile nel quadro degli eventi narrati.

La cover di Giancarlo Alessandrini per Voci dal passato, Martin Mystère numero 325.

Insomma, pur mantenendo una linea editoriale ben precisa, priva di particolari stravolgimenti – anche dopo la scomparsa di Castelli e grazie al lavoro di validi sceneggiatori (come Adriano Barone, che di recente ha curato un nuovo crossover tra Martin e Nathan Never, o Francesco Matteuzzi e Giovanni Eccher, tra gli altri) nonché alla cura del fidato Carlo Recagno –, Martin Mystère si è evoluto. Oserei dire in meglio. Forse è il caso di non essere prevenuti, di ignorare chi la reputa da sempre una testata noiosa (eccovi un altro spoiler: non è vero) e fare un tentativo, lasciandosi ammaliare da un mystero che da più di quarant’anni trova il modo di rigenerarsi. Speriamo ancora per molto.

Marco Machera

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