Chi ha ammazzato Raymond Chandler? - La Dalia Blu
Coconino Press, in onore dei 50 anni di carriera di Filippo Scòzzari, ripropone l’adattamento a fumetti del 1982 de La Dalia Azzurra di Raymond Chandler in una preziosa versione “restaurata”
Una delle cose più detestabili di questo detestabile mondo è il timore reverenziale. Non negate, ci siamo passati tutti da quel “ommioddio, riuscirò mai a capire quest’opera di questo geniale autore adattata da quest’altro formidabile autore?!”, perché d’altronde Kubrick che rifà Nabokov, i Coen McCarthy: chi è che non rimarrebbe terrorizzato, all’ombra della statuaria imponenza di questi cervelli mostruosamente reticolari?
Li chiamano “maestri” mica per niente (mica per venderteli, soprattutto…).
Perciò, vuoi che la mano elegantissima di quellollà non elevi il tono sopraffino di quellaltrollì a suprema letteratura? E, soprattutto, vuoi tu – dimenticabile omuncolo – pretendere di rapportarti a cotanta magniloquenza sperando di uscirne con ancora tutti gli atomi congiunti?
Con il defilarsi delle religioni, la necessità umana di applicare il mito alla realtà è stata negli anni man mano dirottata verso altri lidi, andando non di meno a intaccare anche un ambiente già poco sano – ego, soldi, droghe – come quello dell’arte, e cadendo nella trappola che un certo David Foster Wallace nel ‘96 definì, con una flemma di 1400 pagine, Infinite Jest.
Il risultato di quell’Infinite Jest è ora la cultura dei culti, un campo di battaglia fra sette – vi ricordate? Monica, The Opening, Daniel Clowes? Questo è più recente di Wallace – che venerano, nella speranza di dimenticare il mondo su cui camminano, divinità che esistono invero solo allo stato umano, sempre ammesso che esistano. Il risultato è quanto di più sgradevole ci sia: una grande colpa di quest’epoca è stata quella di aver preteso che l’arte sia cosa divina.
“Guai a te se ti permetti di insinuare che Scorsese non è il migliore di sempre!” “Dannato sia chi non ha mai letto Kafka!” “Non ti sei mai fatto una sega sull’assolo di Time dei Pink Floyd!?” “Kojima? Dio.”
E in questa brodaglia annegano le ponderatissime – strano, considerato il personaggio – parole di Prince, quando diceva che nel funk non c’è niente di magico, solo manodopera. Perciò, Scorsese è il GOAT? Kafka è imprescindibile? I Pink Floyd fanno assoli da orgasmo? Bene, a tutto ciò c’è una via di scampo; è una formula magica ed è lunga, pensate, una sola parola: “sticazzi”.
Perché se il nome vale quanto l’opera, questa muore. E se ogni opera vale quanto un nome, che in quanto nome non è sindacabile, questo diventa sineddoche e tutto quello che sta in mezzo scompare. L’opera diventa fede, l’artista Dio. L’arte scompare.
Per questo chi vi scrive reputa grande artista chi ha la garra di infangarsi, strappare di dosso i ghingheri a un’opera e denudarne le cicatrici, i nei, i peli. A chi ha il coraggio di guardarla e dirle che è brutta e sgradevole, anche e soprattutto al netto del suo padrone. A chi ha la cazzimma di tirare fuori un revolver degno del più classico dei noir – siamo in tema, tanto – e farle esplodere le cervella.
Perché sì, per quanto prevedibile e poco scòzzariana, la parola esplodere è forse la più consona per parlare de La Dalia Blu. Perché sì, diciamocelo, La Dalia Azzurra, film sceneggiato dal “maestro” Chandler, è abbastanza una fetecchia. E perché sì, qui il buon Raymond ne esce ridotto come un panetto di burro usato per giocare a baseball.
Più che un grande autore di fumetti, Filippo Scòzzari sarebbe da considerare un grande “stritolatore”: animo insorto e incontenibile, è ed è stato creatore di un fumetto acrobatico e strafottente, dissacrante, destrutturante, forse l’unico di casa Frigidaire ad aver costruito e protratto nel tempo impalcature così ballerine e incandescenti come lo sono i suoi lavori, capsule a pressione sottomarina di logoramento lessicale e grammatico, trapestio di storie tutte storte e volti sozzi.
Con un animo che oggi chiameremmo di “shit-poster”, nel suo schiaffeggiamento irriverente – tipico dello scanzonato autore negletto – del fumetto e delle leggi che lo regolano si possono trovare davvero tante, troppe soluzioni per incorporare in questa pasta pestifera il mondo là fuori, quello ponderato e gerarchico dei grandi “maestri” e delle loro opere divine. E un esempio perfetto di questa operazione d’inglobamento malsano è proprio – manco a dirlo – questo La Dalia Blu.
Via tutti quegli arzigogoli di prosa sì evocativa, va bene brillantemente descrittiva, certo raffinata, di un Raymond Chandler però anche fin troppo prolisso e inconcludente, e dentro le stilettate di «matite, chine, pennelli e pennarelli di scarsa qualità» che, rifocillate da un digitale che ha salvato dall’oblio le tavole originali, ora giocano con ombre tedesche e campi-controcampi di cera nella festa del cartooning scòzzariano, manipolano le sfumature con effetti di profondità che simulano un tandem tra grandangolo e teleobiettivo che ricorda – nell’uso della profondità di campo e di certe inquadrature sghembe – il miglior Orson Welles e il suo Quinlan.
E perché no, spingiamoci oltre: indiavolato, anzi, infernale, Scòzzari malmena con sadismo la sintassi, esilia la punteggiatura, rigonfia i balloon di quel rimbombo bianco che è lo spazio – perché, alla fine, i fumetti son sempre questione di spazio – per dettare il ritmo non più solo delle immagini, ma anche delle parole, sintagmi di conversazioni allucinante e sospese, come una vita appena uscita da un corpo, sulla coltre di fumo grigio che è questo fumetto.
Serrato in un calco da nove vignette per pagina rotto solo quando necessario, il ritmo qui certo è noir, ma non di meno non lo è. La “lentezza” non è quella contemplativa del romanzo in nero, è una lentezza di comprensione, traduzione, decrittazione dei tempi e degli spazi che Scòzzari detta come un demiurgo anfetaminico: la più grande bellezza de La Dalia Blu non è tanto il disegno, il dialogo o la storia; è il fumetto in quanto strumento di racconto.
Leggere La Dalia Blu è una grande lezione – e scalmanata, per carità! – di fumetto; leggere La Dalia Blu vuol dire capire perché un balloon in alto a destra in quella vignetta funziona meglio che di uno al centro, o perché qui e non lì c’è un balloon siamese con due teste e una coda anziché due staccati; è capire, in assenza di punteggiatura, quant’è lo spazio giusto per rendere il ritmo del dialogo, dove e perché inserire una onomatopea, o di quante vignette e spazio bianco, quanto “tempo-di-carta” serve a un’azione per realizzarsi nella consona forma di fumetto e non di romanzo adattato.
Ad avercene di lezioni così. Se ogni insegnante del mondo sapesse stritolare la propria materia come Scòzzari stritola i fumetti, probabilmente ora avremmo già colonizzato Plutone. Se ognuno di noi sapesse stritolare le opere che ama come Scòzzari ha stritolato Chandler, vivremmo in un’utopia dove non esiste timore reverenziale. Perché questo fumetto è un’opera d’amore, ma come in ogni buon noir, è un amore che cela scabrosità e violenza, morti silenziose sudacchianti di follia.
Datecene di più, di quest’arte sudicia e inopportuna. Uccidiamone di più, di Chandler e di maestri, accoltelliamoli alla schiena con altre 365 matite. Sporchiamo le tele, ungiamo le tavole digrignando i denti: niente è più glorioso di creare, e per farlo a dovere serve aver qualcosa da distruggere. Lasciamo che della prima mansione si occupino gli dèi.
Noi pensiamo alla seconda, restiamo umani; e immersi dentro ad «atmosfere fumose, cazzotti disperati, indagini straordinarie, passioni indecorose, anime perse ma con grandiose generosità insospettate», godiamoci l’ennesima, villana, brutta e cattiva, scòzzarata.
Perché in un mondo di Graphic Novel, io vorrei tanto essere un fumetto di Filippo Scòzzari.
Japo Corradini