Monica – Di nome, di fatto

L’errore di dare alla propria vita il proprio nome


Nessun posto è come casa, nessun altro è come mamma e papà. Ma d’altronde quel soffitto della cameretta che ormai sappiamo a memoria non può coprire il cielo in eterno, e prima o poi tocca spingere alla bell’e meglio un po’ di ciarpami dentro lo zaino e uscire da quel mondo, costruirsene uno proprio.

Eppure non ci liberiamo mai di casa, non c’è viaggio dell’eroe o struttura in tre atti che tenga (neanche in cinque, e non fate gli spocchiosi). È come un filamento genetico, no? Una precondizione sistemica, una legittimazione all’uso della parola “io”, che se da un lato cerchiamo di ignorare spaventati dalla sua iniqua casualità, nascosti dietro sempre del nuovo ciarpame che il nostro povero zaino deve ingollarsi pur di proteggerci dalla coscienza – silenziata – di essere nulla nel nulla, dall’altro ci preoccupiamo di tenere ad una distanza utile per un “riacchiappo dell’ultimo minuto”, di farne un’ombra filiforme e velata che cammina il nostro stesso asfalto perché, puta caso che scappi una crisi esistenziale della domenica o che lo zaino saturo di cianfrusaglie infine si rompa, sappiamo esservici l’unica verità della nostra esistenza, pur al netto dei continui tentativi di cercarla altrove: “E ti vengo a cercare […] perché ho bisogno della tua presenza, per capire meglio la mia essenza”, cantava Battiato.


Se però questa sindrome di Stoccolma verso l’etimo è una costante insindacabile dell’umanità, l’individuazione dello stesso non è sempre stata regolata da eguali dinamiche: secoli fa la vita aveva delle sembianze così rettilinee da essere percorribile a ritroso con facilità. Da ormai un’ottantina d’anni, invece, le cose sono “leggermente” cambiate: guerre – moltissime, proteste generazionali, liberazioni etniche e di genere, ramificazioni mediali, trasformazioni industriali, digitalizzazioni… il Novecento è chiamato “secolo breve” mica per niente. Sono successe troppe cose, tutto ed il contrario di tutto; oggi il fenomeno è amplificato, succedono ancora più cose in sempre meno tempo: il circondario in cui viviamo muta così brutalmente che stazionare la propria identità in un singolo loco non solo è una scommessa persa in partenza, ma non è probabilmente neanche più pensabile.

È un bel casino allora cercare sé stessi se si è stati attraversati da tutte queste magagne. È un bel casino essere Monica, figlia indesiderata di una lussuria esplosa dalla castrazione della guerra, progenie della controrivoluzione ma cresciuta nei suoi echi sempre più standardizzati, scivolata fra le mani di un padre artista, poi di un altro provincialotto, poi ancora di un ex soldato, infine nell’abbraccio di un nonno-padre. Tutto mentre mamma cercava un qualcosa che probabilmente non ha mai inquadrato neanche lei, incapace di capire cosa essere.

Ecco, la vera difficoltà: prima era già deciso a monte chi fossimo, ora tocca farlo da soli. Cosa siamo? Non puoi chiamarla libertà finché non rischi di sbucciarti le ginocchia, certo, ma ora la morale si è moltiplicata in infiniti specchi così come l’estasi professionale al punto che ogni passo è un 50-e-50 fra paradiso od oblio, il prezzo per il possesso della propria franchigia è incalcolabilmente alto tanto quanto basso.


Monica nasce nell’America degli anni Sessanta, quella dell’omicidio di Kennedy, quella del Vietnam e delle proteste sessantottine; quella della cultura hippie, che esplode come sfogo di quei bambini, ormai cresciuti, verso i loro padri, figli di una guerra mondiale che li aveva bollati drasticamente senza che questi se ne fossero del tutto resi conto. Ma, come un capriccio fanciullesco, anche il movimento hippie (e tutte le idee controrivoluzionarie che questo ha portato con sé) è andato a disperdersi nel suo stesso disordine, quel trambusto identitario che pian piano ha afflitto tutti noi abitanti di questo strambo luogo chiamato – con poca fantasia – Terra, dando il là ad un leitmotiv che a cascata si è ripetuto per tutti gli anni a seguire quando, comunitariamente, abbiamo cercato di contrastare un sistema ingiusto ed ingiustamente ubiquo (almeno negli ideali di protesta): il fallimento dell’”hippiesmo” e delle sue certezze nei confronti delle tentazioni borghesi, probabilmente, è stato l’evento di crisi comunitaria più importante del mondo recente, il primo momento in cui lo sguardo non ha più saputo dove rivolgersi. Origina forse da qui la prima vera frantumazione dell’individualità, il “non so più cosa essere perché posso essere ogni cosa”?

Daniel Clowes ci dice di sì, ed in tal senso usa il movimento dei figli dei fiori ed il suo naufragio come metafora del mondo in cui viviamo oggi: gli ideali sessantottini si sono dispersi nel pulviscolo delle loro utopie prive di pragmatismo, generando così molti casi di iperboli estremiste che hanno portato alla nascita di culti e sette, l’esatto opposto di ciò che il movimento avrebbe dovuto/voluto rappresentare.


Questo non a caso si lega alla storia di Monica che, dopo essere cresciuta con i nonni ed essere sopravvissuta ad un incidente che l’ha tenuta in coma per diverso tempo, e dopo essersi realizzata come imprenditrice di successo rendendo il proprio negozio di candele – ereditato da mamma Penny – un vero brand, arriva al punto di non riuscire più a farsi bastare ciò che è, per capire ciò che è: inizia così un viaggio all’indietro nella sua vita cercando risposte sui suoi genitori, sull’assurdità di certi vissuti inspiegabili e speciali (parola scelta non casualmente, ma ci arriveremo).

Per farlo si troverà a dover entrare a far parte di una setta che, a suo tempo, ebbe il suo buon numero di adepti e soprattutto si intrecciò con Penny, da quel momento scomparsa: The Way, un conglomerato di follie complottiste, evangelismi pseudo-intellettualoidi e aspirazioni apocalittiche, la cui vacuità è evidente riflesso della condizione in cui oggi, come sessant’anni fa, versiamo tutti noi, alla ricerca di ideali che – in quanto nostri – esaltiamo come unica verità, distorcendo la realtà ben più strutturata della vita fino all’estremo del rituale, e generando una forma mentis oppressiva (usando un eufemismo) che non può essere in alcun modo criticata in quanto nostra.

Attraversando l’assurdità della setta – e venendone peraltro momentaneamente plagiata, Monica riesce pian piano a mettere a fuoco il suo passato, i suoi episodi (cinque, dei nove che compongono il fumetto), ed a ricollegare i puntini fino al quasi-completamento della (sua) storia, scoprendo infine che molto di quello che nella sua solitudine si era raccontata, molti di quelli che erano ricordi di vissuti straordinari ed indecifrabili, in realtà potrebbero essere fallaci, plagiati dalla prospettiva: forse, tutta quella gigantesca narrazione che ha accompagnato la sua vita era solo narrazione, e la sua vita… beh, solo vita.


Monica ha dovuto attraversare tutti i suoi giorni per arrivare a discernere fra vita e racconto della stessa: è la questione dell’inizio, la consapevolezza che ognuno di noi ha della propria origine e che si impunta a nascondere dietro ciarpame – narrazione, racconto, prosa – che è polvere sulle cornee, una continua rinnegazione di un’oggettività insindacabile: nonostante quel che ci raccontiamo, non siamo niente di speciale. Siamo figli del nulla, nel caso ci muoviamo e tutto ci appare speciale solo perché il nostro sguardo rende ogni cosa personale, e perciò vitale: auto-narrazione. È una legge della fisica, al pari de “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” …ma attenzione! Proprio perché nulla si crea o distrugge e tutto si trasforma, vuol dire che tutto è un contiguo di tutto, siamo fatti della stessa materia che componeva quegli anfibi primordiali che strisciavano sgangheri sulla terra mentre delle zampe gli crescevano, delle stesse particelle del vapore dei primi treni, o di quelle dei baffi di Chuck Berry.

L’esistenza è un andirivieni perpetuo, un traffico che neanche Roma all’ora di punta: come infiniti altri, noi siamo solo un minuscolo ingranaggio disperso dentro una meccanica divina, ma proprio per questo ognuno di noi è cruciale: togline uno, salta tutto.


Ovviamente, il problema non è tanto dirlo, né scoprirlo. È capirlo. Non con le parole, ma con la pelle. Percettivamente, sensorialmente. È per questo, probabilmente, che ancora oggi, nonostante la crescente sfiducia, l’idea di un Dio non è del tutto rinnegabile: perché non siamo – com’è prevedibile che non saremo mai – in grado di uscire dalla nostra prospettiva, dal racconto che facciamo di noi stessi: che la vita sia allora una continua lotta fra vissuto e narrato? Leggendo questo fumetto potremmo dire di sì, e difatti non è un caso che Monica sia tanto il nome del personaggio, quanto quello del fumetto che lo racconta.

Probabilmente, il più grandioso uso di eponimia da parecchio tempo, e scusate se mi concedo a ‘sti commenti dall’assolutismo un po’ becero.

Ma d’altronde si parla di Daniel Clowes e ad ogni nuovo fumetto è una sorpresa, un brio che penso galvanizzerebbe anche il più nichilista dei nichilisti. Ancora una volta, a sessant’anni suonati, l’autore di Oakland torna sul campo e spazza via tutto, ancora una volta si conferma come uno dei più lucidi osservatori del mondo passato, presente e futuro.


E a questo giro si presenta con un fumetto che ha tutta l’aria di essere una summa, un fumetto che prende da tutta la mitologia dell’autore estraendone la periferia ed il provincialismo di Ghost World, la narrazione ad intervista di The Death-Ray, il viaggio grottesco e lynchano di Come un guanto di velluto forgiato nel ferro, i sentori apocalittici di David Boring o gli sbalzi temporali di Patience, riorganizzandoli in un’estetica che – vista dalla prospettiva della sua carriera – assume un’aria “retrò”, emanando quel carattere illustrativo proprio dei suoi primi lavori su Eightball che riverbera tanto sulla diegesi e sui suoi soliti disegni sinceramente diretti, veri, quanto – soprattutto – sull’extra-diegesi, trasformando dei frontespizi in veri e propri momenti, cruciali per altro, della storia, dentro cui si muove un centone di personaggi-burattini alternati sul proscenio del racconto nella loro solitudine (gli ormai classici “clowesian loners”) per andare a riflettere sul concetto di io, sulla rappresentazione del sé, sulla fallacia della memoria, sulla bontà dei sentimenti o sulla complessità dell’interazione umana, sempre in accompagnamento di un grottesco – e per questo tremendamente oculato – resoconto dei grandi cambiamenti sociali degli ultimi sessant’anni e della loro insania e ciclica contradditorietà.

Monica è un fumetto grandioso (ma va?), perfettamente congegnato secondo i meccanismi cervellotici della narrativa di Clowes e quindi inevitabilmente spiazzante. Ma più di ogni altra cosa, Monica è un fumetto di un’umanità destabilizzante, commovente, che emerge paradossalmente tramite la causticità di uno sguardo che racconta miseria e solitudine, disperazione e pazzia, e che tramite l’intimità del suo racconto rapisce con istrionica sincerità lo sguardo del lettore, rendendo universali anche i più semplici momenti di boriosa quotidianità.
Insomma, ci è toccato aspettare sette anni ma alla fine Daniel Clowes è tornato.

E come al solito, ci ha umiliati tutti.

Japo Corradini




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