Showcase: Manhunter di Goodwin e Simonson

Un esperimento diventato un classico senza tempo

Oggi Giovanni Campodonico, nome che se frequentate queste pagine già conoscete per la rubrica Essentials e per i contributi ad Alice, inaugura Showcase, una nuova rubrica aperiodica dove parla di esperimenti strani, di fumetti di cui difficilmente leggereste altrove. Leggere per credere!

Uno dei miei giochi preferiti quando avevo diciassette anni e giravo fiere del fumetto - comprando quasi esclusivamente quello che trovavo negli scatoloni “Tutto ad un euro” mettendo assieme una collezione piuttosto bizzarra fatta di pezzi più che di interi - era leggere la rubrica della posta di vent'anni prima, e vedere quanto quelle persone, che come me stavano leggendo quelle storie, avessero azzeccato il futuro. Ogni tanto ero parecchio sorpreso non solo da quante cose sapessero quei lettori rispetto a me, peraltro senza avere il vantaggio di poter trovare cose su internet, a volte invece ero sbigottito dalla percezione che avevano di certi concetti che io invece affrontavo in maniera diversissima.
Ad esempio, pensare che Batman non fosse proprio una gran cosa, fu una delle notizie che più mi sconvolse, e così dopo anni di ricerche capii che sì, per anni, Batman era di certo un personaggio di punta, ma c'erano state molte volte in cui il crociato mantellato o le testate a lui dedicate erano andate molto vicino all'essere cancellate, come ad esempio nella prima metà degli anni 70.

A quell'epoca, Detective Comics, testata su cui Batman fece la sua prima apparizione, era un antologico (altro argomento molto discusso nel mondo fumetto, o almeno nella bolla fatta da me e dalle lettere) con un sacco di pagine, una storia principale di Bruce Wayne, qualche ristampa, e alcune storie chiamate “Backup” che occupavano circa 7/8 pagine.

Questo era un po' lo standard, dopotutto Detective Comics era iniziata proprio così, come un contenitore di avventure a tema poliziesco, che per caso aveva trovato fortuna nella creatura di Milton Finger con un nome creato da Robert Kahn.

L'editore Carmine Infantino deciderà così di dare Detective in mano ad un uomo la cui fama era quella di essere “L'uomo più gentile dei comics”, un editor la cui visione cambierà il volto dell'industria per anni, tale Archie Goodwin, che, trovatosi con la patata bollente di dover tenere alta una testata ammiraglia in cattive acque, si metterà a pensare.

Con Batman si poteva fare poco. Il personaggio aveva comunque un suo stile ormai ben delineato, e Goodwin non aveva piacere a fare “quegli stunt come l'abbandonare il costume, uccidere un comprimario che servono solo a vendere più copie” come raccontò poi in seguito, e quindi decise che il lavoro andava fatto sulle Backup.
Da sempre appassionato dei personaggi minori, Archie graviterà attorno al personaggio di Paul Kirk, un cacciatore datosi al vigilantismo per poter cacciare “la presa più pericolosa, l'uomo!”, una creazione di Joe Simon e Jack “King” Kirby che aveva incontrato proprio leggendo delle ristampe nelle backup di un'altra serie. Brutta bestia l'ironia.

Alla ricerca di un disegnatore, dopo aver visto le sue grandi abilità nelle storie fantascientifiche, e il suo lavoro straordinario in altri generi, Goodwin virerà così su un giovane chiamato Walter Simonson, e il processo potè finalmente iniziare.

L'idea alla base della storia era molto semplice: l'Interpol è sulle tracce del misterioso Manhunter, un vigilante che si muove attorno al mondo seminando una scia di violenza e distruzione, ma forse neanche l'Interpol sa quanto il mondo sia davvero in pericolo, e la sua unica speranza di salvezza sia proprio Manhunter.
Ora, che otto pagine siano poche, mi sembra che sia chiaro per tutti, quindi Goodwin e Simonson da principio decideranno di lavorare alla serie con il famoso “Metodo Marvel”: Goodwin scriveva un'idea di sceneggiatura, Simonson la disegnava, e poi Goodwin arrivava sulle pagine finite per aggiungere dialoghi e didascalie.

Ma già nel processo di creazione del personaggio c'era un intoppo. Goodwin si era appassionato di fumetti giapponesi, e voleva che lo stile di questo nuovo personaggio non solo riflettesse l'azione vorticosa di alcune storie di ninja che aveva letto, voleva anche che Manhunter fosse completamente diverso da Batman, sia come modi sia come aspetto.
Se il Cavaliere Oscuro era vestito di nero, Manhunter doveva indossare colori primari, doveva avere armi letali, doveva sparare ai suoi nemici, e Simonson prenderà in parola queste indicazioni creando un qualcosa di assolutamente strabiliante, e forse uno dei costumi meno pratici da indossare nella storia del fumetto americano.

Manhunter indossava una semitunica, con degli stivali con la quale sarebbe stato impossibile camminare, con delle lunghe maniche svolazzanti dentro la quale nascondeva le sue armi, e indossava una maschera che non avrebbe celato l'identità di nessuno.

Eppure, la coppia si era così divertita a lavorare assieme, che già dal numero due decideranno di abbandonare l'idea di fare le cose separatamente, passando a discutere la trama in ogni dettaglio in coppia, diventando così per davvero co-autori della storia. E qua mi si potrebbe chiedere perché io abbia usato la parola intoppo, e sebbene si potesse pensare fosse un fallito tentativo di suonare sarcastico in forma scritta, una sfida pressoché impossibile, il problema era che sia Goodwin che Simonson si divertivano troppo a fare Manhunter, più di quanto di divertissero a fare i loro lavori “principali”, creando alcune difficoltà lavorative, legate anche a problemi personali di ambo gli autori.

Lo stesso, su Detective Comics 437 del 1973 farà la prima apparizione il primo episodio di questa idea balzana... e le vendite della serie resteranno più o meno le stesse.

Sarebbe bello dire che la coppia di autori avesse salvato la patria, ma il grande pubblico non sembrava superpreso da questa nuova storia, eppure la nicchia di chi ci aveva messo le mani sopra notava che c'era qualcosa di strano.
Dicevamo che otto pagine sono poche, e Simonson non voleva sprecare nessun centimetro quadrato della pagina: con uno stile tagliente e dinamico, con delle composizioni della tavola completamente irregolari, Simonson ti prendeva per mano durante ogni pagina e poi ti lanciava con forza come se fossi senza peso da una vignetta all'altra, ma tu l'impatto lo sentivi. Lo sentivi perché Simonson trasmette un'energia potentissima in ogni vignetta in ogni sezione, e anche le pagine meno esperte, quelle che hanno ancora dell'acerbo, serbano dentro di loro tutto il potenziale di quello che Walt riuscirà poi a fare negli anni.
L'essere costretto a dover fare molto con poco fa sì che Simonson riesca ogni volta a sorprenderti con l'uso sapiente della regia della tavola. Ogni volta che decide di prendersi più spazio sai che dovrai prenderti anche tu del tempo per respirare, e capire bene cosa hai di fronte.

Il tutto, in un'alternanza clamorosa di realismo e follia, di una pistola mauser così vera che sembra saltare fuori dalla pagina, e colori sgargianti che ti fanno dire “Magari no”.

Si potrebbe dire che tutto ovviamente culmina nel finale, una storia di lunghezza classica, un crossover con Batman che permette finalmente al disegnatore di sfoggiare tutti i suoi muscoli e di dare sfogo a tutti i trucchi che ha imparato nei numeri precedenti, ma se chiedete a me, nulla, e dico nulla batte Detective Comics 441, La Cattedrale del pericolo, dove Simonson fa il giocoliere fra tre punti di vista diversi della stessa azione: quello del nostro eroe, quello di un bambino turista, e il nostro di lettori. Una lezione magistrale di come si faccia il fumetto d'azione.
E Goodwin fa l'impossibile, non solo tiene il passo con un genio indiscusso del medium, ma riesce in un momento dove la parola d'ordine del fumetto era “verboso” a distillare al meglio le parole, i sentimenti. A tratteggiare un uomo alla ricerca di se stesso, una tigre in gabbia pronta a balzare fuori, ma soprattutto a creare una storia che è comprensibile da chiunque.

Certo, siamo nel 1973 (e finiremo del 1974 dopo 7 avventure), è ovvio che i dialoghi siano un po' datati, e che quando dico non siano verbosi intendo per gli standard dell'epoca, ma la storia è talmente asciutta, talmente distillata da essere pura. Pura avventura, pura azione, che ti spiega tutto quello che devi sapere,senza aver letto due pagine di qualunque fumetto DC della storia.

Certo, bisognerebbe avere un'idea di chi sia Batman prima di iniziarla, ma è molto più facile rispetto a boh, conoscere l'onomatopea distintiva del supereroe Atom (che è Klik-Klik, se siete curiosi).

Le avventure di Manhunter diventano un miscuglio fra una missione da eroe ed una ricerca di senso dell'esistenza. Goodwin riesce ad inserirvi dentro il bello della letteratura pulp anni 50, il gusto dello strano del supereroe anni 60 e quell'introspezione anni 70 che rendono tutto molto più della somma delle sue parti, facendo di questa storia un classico senza tempo.
Il tutto, in molte meno pagine di quante ne potreste immaginare.
Certo, i paletti non piacciono a nessuno, ma per usare una frase fatta che avrete sentito fino alla nausea, a volte è proprio dai limiti che nascono le più belle idee creative.

Goodwin e Simonson hanno messo tutto loro stessi in questo progetto, perché fondamentalmente ci avevano messo sopra il cuore, era un progetto divertente, che voleva solo lanciare un messaggio.
E non è forse questa, la ricetta perfetta dell'arte?
Sono d'accordo, sembra una banalità, sembra troppo semplice, ma bisogna leggere questo fumetto per capire di cosa parlo.

Perché quella simbiosi lavorativa, quella comunione d'intenti, quel perfetto equilibrio fra storia e disegni, che di solito si trova di più nelle opere fatte da uno solo, qui brilla con una rarissima intensità.

Simonson stesso dirà più volte che in tanti anni di carriera non gli era più capitato di ritrovare un rapporto lavorativo così affiatato. E, fidatemi, questo si vede.

Anche se nella prima edizione della storia le sfortune non erano ancora finite, e ci fu un piccolo problema con le scorte della carta, costringendo la DC a pubblicare i suoi fumetti usando materiali piuttosto scadenti, e questo impediva ai disegni di Simonson (colorati in originale da un certo Klaus Janson, forse lo avete sentito nominare qualche volta, giusto perchè è una leggenda) di spiccare come avrebbero dovuto, e anche il lettering (fatto da Alan Kuppenberg, Joe Letterese e Ben Oda) non rendeva particolarmente.
Fatto sta che la nicchia che aveva notato la bellezza di queste storie divenne sempre più grande, e Manhunter vinse un sacco di premi nella sua esistenza, e venne poi ristampato integralmente con carta migliore, con grande soddisfazione di tutti.

Anni dopo, sul finire degli anni 90, Archie e Walt si incontrarono di nuovo negli studi della DC Comics. Si voleva fare una nuova ristampa di Manhunter, e Archie aveva una mezza idea di come raccontare un qualcosa che avesse lo spirito della serie, ma che non inficiasse il finale che avevano pensato assieme.

Walt inizierà a tirare giù due idee e due schizzi, ma nel frattempo Archie morirà, a causa di un cancro che lo affliggeva da anni.
Come ultimo omaggio, Simonson finirà l'ultima storia di Manhunter, lasciandola completamente muta, senza le parole di Archie, in un ultimo, rispettoso saluto, basandosi sulle idee che si erano scambiati mesi prima.
Quando si parla di “gemme nascoste” nel mondo dei fumetti, di solito ci si trova davanti un numero limitato di opzioni: un qualcosa che nascosto non è, un qualcosa di illeggibile che però era molto bello quando avevamo 12 anni, un qualcosa di palesemente dimenticato dal tempo per gioco, e Manhunter di Goodwin e Simonson.

Un qualcosa che, senza altri tentativi brutti di sarcasmo (ma non vi posso promettere che non ci riproverò in futuro) è la definizione di bellezza poco ricordata.

Un albo che riesce a connettere mondi diversi, crearne di nuovi, creando un ponte verso un modo di fare fumetti unico.
Se si parla di supereroi, inteso come ciclo lungo di avventure, immagino che Manhunter non possa essere un campione di categoria, non si può neanche dire sia una graphic novel, né il miglior fumetto americano di sempre, ma se si parla di produzione DC Comics, Manhunter è sicuramente sul podio.
Certo, perché, volente o nolente, ha influenzato l'evoluzione del fare fumetto, perché ha aperto la strada a tante altre proprietà facendo fare strada ai suoi autori, che sono poi andati creare cose come un ciclo di Thor che probabilmente è il più grande ciclo di supereroi, e a lanciare Starman che è forse l'esempio più risplendente del fatto che si possa fare fumetto indipendente anche nel mondo del mainstream, ma tutto questo non è nulla, di fronte al grande segreto di Manhunter.
Manhunter è uno dei fumetti più belli sulla piazza, perché è cresciuto assieme ai suoi autori, ha tenuto i piedi ben piantati nel suo centro, e ha sparato un colpo verso il futuro. E anche a distanza di anni, se lo leggerete, quel colpo vi prenderà al cuore.

Giovanni Campodonico 

Post più popolari