Il colore delle cose – Essere o non essere (un fumetto), questo è il dilemma
Un giorno
lessi un fumetto e, come d’incanto, scoprii che il tempo non esiste
Da quando Il colore delle cose è uscito in Italia, sempre più voci nel mondo della critica si sono imbarcate nell’impresa di tentare di definire l’operato dell’esordiente illustratore ginevrino Martin Panchaud come autore di fumetti. Sono stati chiamati in causa i nomi più eminenti e disparati della galassia della cosiddetta “arte sequenziale”, tutti secondo uno comun denominatore ben chiaro: lo spazio.
Se su alcuni non
sono del tutto allineato – come Nick Sousanis o Marc-Antoine Mathieu,
la cui indagine spaziale segue dei principi più distanti da questo fumetto,
che esaltano la polidimensionalità e la flessione delle possibilità ambientali
per come le intendiamo sensorialmente nella vita di tutti i giorni – o Nick
Drnaso – autore di un fumetto anch’esso fortemente spaziale ma sempre secondo
canoni altri, incentrato molto sul concetto di messinscena plastica e
proscenica (recuperatevi il suo ultimo lavoro, Corso di Recitazione, uno
dei fumetti più belli del 2023), su altri invece non si può che essere
d’accordo, come nel caso del sommo Chris Ware, la cui vicinanza a questo
fumetto appare non solo stilisticamente ma anche narrativamente, laddove il suo
strambo Jimmy Corrigan – ed i suoi problemi paterni – hanno molto a che
vedere con il nostro Simon, un quattordicenne sovrappeso e bullizzato in
ogni possibile modo, e suo padre Dan, che non penso possa vantare la
targa di padre dell’anno appesa in camera.
Ciò che però mi ha colpito di questi affascinanti approfondimenti dentro il mondo del fumetto è proprio il fatto che siano principalmente orientati al fumetto in sé: Il colore delle cose è sì un fumetto, ha delle pagine e delle vignette, ma – secondo il modesto parere del sottoscritto – gode di una natura molto meno autoctona di quanto non si pensi.
Ma andiamo con ordine. Di cosa parla questo fumetto?
Il colore delle cose racconta, con un’indole estremamente
illustrativa, la storia di Simon, il classico “sfigato” del quartiere, solo e
non amato da nessuno se non dalla madre, che nel tentativo di risollevarsi dal
degrado in cui vive segue il consiglio di una cartomante e scommette tutti i
soldi che riesce a racimolare su una corsa di cavalli, vincendo la modica cifra
di 16 milioni di sterline. Questa inattesa vittoria, inevitabilmente, porterà
ad una serie di conseguenze che lo condurranno attraverso una storia da più di
200 pagine (vi ricordo: è un esordio) che, spaziando fra drama, crime e
commedia grottesca, porterà il giovane Simon a ripensare le sue aspettative sul
mondo e sulle persone.
Ma a prescindere da una storia comunque ben scritta e
strutturata, e da dei personaggi magari leggermente macchiettistici ma
sicuramente veri ed umani, ciò che ha reso questo fumetto così degno di
attenzioni è appunto la sua rappresentazione grafica della vicenda.
Panchaud, essendo in primis un illustratore, costruisce
visivamente la vicenda secondo i canoni estetici del graphic design e
dell’infografica, raccontando paesaggi e personaggi (non persone ma puntini)
con un accento sintetico e minimale, che estremizza la filosofia dello stile ligne
claire hergeiano – per cui è meritevole di rappresentazione solo quella
parte di mondo utile all’avanzamento del racconto, e insieme con un’indole
sintetista che riporta alla mente le parole di Maurice Denis, quando
diceva che: “è bene rammentare che un’immagine, prima di essere […] una
qualsiasi scena aneddotica, è essenzialmente una superfice piana ricoperta
di colori ed assemblata in un certo ordine”. Non a caso, Il colore
delle cose: prendendo in prestito le parole dei colleghi de Lo Spazio Bianco,
anziché le sembianze di narratore «Panchaud assume piuttosto il ruolo di
organizzatore di contenuti».
Difatti, ogni ambiente è sezionato geometricamente secondo la sua
funzionalità narrativa, ogni colore corrisponde ad un personaggio ed alla sua natura
emotiva (il verde acido – guarda caso – di papà Dan, il rosso passionale dato a
Lorna perché vista dagli occhi invaghiti di Simon, che è invece di un
arancio senape che non si spiega, visto il verde acqua di mamma Daisy –
ma anche per questo, tranquilli, c’è una risposta), i balloon diventano legende
ed il tutto si organizza secondo un macro-schema concettuale che si
trasforma in racconto giustapponendosi sul letto bianco della pagina, talvolta
frammentario talvolta fluido come un piano sequenza, i cui intervalli variabili
e schematici sono ciò che più efficacemente detta il ritmo – un ritmo
chirurgico, operatorio – della narrazione (d’altronde, è il bianco il colore che
contiene in sé tutti gli altri).
O meglio, non solo. Ma il vero perché sta nel fatto che la
spazializzazione del tempo e quindi del racconto avviene attraverso oggetti
fermi, ideali, in un certo senso teorici che, immobili, mutano forma e
mutandosi generano movimento narrativo: un singolo oggetto non incarna
un frangente, un frame che è quello della sua visualizzazione, ma un intero
movimento, potenzialmente illimitato (una torta che si mangia, un bicchiere
che si svuota, una radio che trasmette musica). E questa è sì una possibilità
che offerta solo da un certo tipo di arti figurative, come il fumetto appunto,
ma che trae le sue radici filosofiche da mondi ben più ampi.
Perché lo spazio è ormai da decadi una questione della
(meta)moderna narrativa, probabilmente dai tempi di quel capolavoro che è Città
di Vetro di Paul Auster (non a caso poi adattato a fumetto dal
grande David Mazzucchelli), che è fra i primi ad elaborare il racconto
come una forma di interpretazione dello spazio. Ma non è da escludere
dall’equazione anche il linguaggio del cinema: viene in mente quella sigaretta,
sul finale di Milano Calibro 9, che si consuma immobile ed inesorabile.
O anche il teatro di Robert Wilson, che ha da anni elaborato un’opera
che guarda alla fisicità dello spazio ed alla forza scenografica come mezzi per
permettere allo spettatore di esperienziare la narrazione ed il suo scorrere.
Ed in ultima istanza, c’è anche un gusto videoludico che emerge
dall’impostazione degli ambienti, rigorosamente mostrati dall’alto, squadrati: ambienti
fortemente “ambientali”, sezioni di spazio, proprio come quelli che ci si
trovava ad attraversare nei vecchi videogiochi.
Insomma, Il colore delle cose prende tutti questi retaggi e li assorbe in un’unica entità: un fumetto originale, imprevedibile e immagino anche imprevisto, dall’evidente carisma e identità. Uno dei migliori titoli del 2023, non c’è che dire. I miei dubbi, piuttosto, sono se allinearmi o meno con chi lo racconta come un nuovo modo per guardare al fumetto, uno spartiacque, un portatore di nuovi pattern, perché, come abbiamo visto, di antenati ce n’è a iosa.
Ma forse il punto è proprio questo: dev’essere per forza “nuovo”? Cos’è davvero “nuovo”?
Il colore delle cose è un fumetto potente e riconoscibile, con un qualcosa da raccontare forte tanto quanto lo è il modo in cui lo fa; e, soprattutto, è un fumetto consapevole della sua natura di fumetto, cosciente ed insieme capace di renderci coscienti di che cosa stiamo impugnando quando lo leggiamo. E questo, almeno per quanto riguarda il sottoscritto, vale più di qualsiasi altro “nuovo” racconto.
Ma d’altronde, come diceva un uomo famoso, “il medium è il messaggio”, no?
Japo Corradini