Lo schermo bianco, da un disegno alla realtà
C’è un’intervista di Paul Karasik a Daniel Clowes dove i due dibattono riguardo uno dei maggiori capolavori dell’autore americano, David Boring, e dove, dopo poche battute, prende luogo uno scambio intorno al tema del “raccontare una storia a fumetti che sia possibile solo a fumetti”: David Boring ne è un perfetto esempio in effetti; tutti i fumetti di Chris Ware un altro, o anche Entra. di Will McPhail, per rimanere su un qualcosa di più recente (il motivo, però, dovrete andare a scoprirlo voi: non otterrete altre informazioni da noi).
E se c’è una costante di cui dovremmo tener tutti conto quando valutiamo un’opera, è quella del suo rapporto con il mezzo di appartenenza (non si parla solo di fumetti, ma di ogni forma d’arte e di comunicazione), sul come riesca o meno a sfruttare la sua natura e le regole che la governano per portare avanti una narrazione.
Ora, Lo schermo bianco. Come dicono in America: “I didn’t see it coming”. Riconosco subito le mie colpe, e ammetto che non conoscevo Enrico Pinto, né avevo idea che stesse uscendo un suo fumetto. Non sapevo neanche la sinossi, niente. Ho avuto l’impulso di leggerlo solo dopo averne visto i disegni, e comunque non mi sarei aspettato di vedere quello che ho visto. Perché, riallacciandomi al discorso di cui sopra, leggendo la prima pagina le parole di Karasik mi sono esplose in testa come la bomba che dà il là a tutta la vicenda: questa storia è un fumetto. E soltanto questo può essere, dal momento che tutto quel che avviene, avviene in funzione del disegno.
È dal disegno che tutto prende luogo, è il disegno che permette alla storia di avanzare, tutto ruota intorno ad esso. Perché un conto è leggere un fumetto che, inevitabilmente, necessita di un disegno per prender vita; un altro è però avere quello stesso disegno come motore diegetico del racconto, vederlo prender forma “in diretta” con il protagonista.
Un disegno, nello specifico, cui Salvo – architetto italiano in pianta stabile a Parigi e protagonista della nostra storia – necessita per capire il mondo circostante, per affondarsi nei dettagli di tutte quelle curiosità umane proprie dei volti ritratti durante la monotonia dei viaggi in metropolitana; volti che avvengono su carta come moti sempre più significanti, moti spazializzanti che trovano via via il loro senso occupando il terreno bianco della carta: un po’ la stessa cosa avviene quando si costruisce un palazzo (non a caso è lo stesso Salvo, ad inizio storia, a dirci che «disegnare le persone è un po’ come disegnare gli edifici»).
Tramite questo incipit, il fumetto – come conseguenza del disegno – assume un valore superiore a quello di semplice mezzo narrativo: diventa uno strumento d’indagine più potente dell’occhio umano, più potente della percezione razionalizzata della realtà. Diventa reale. Un modo per scovare, indovinare, dettagli cruciali e altrimenti invisibili, perduti nella frenesia quotidiana: un riflesso, una vera e propria estensione fisica dello sguardo, come direbbe il guru dei media McLuhan, padre della famosa frase “il medium è il messaggio”, che meglio che a questo fumetto non potrebbe abbinarsi.
E a proposito di frasi, ce n’è una che ricorre per tutto il racconto: “Cos’è più reale? Quello che vedi o quello che senti?”.
Viene effettivamente da chiedersi se queste pagine, noi che leggiamo, le stiamo vedendo o sentendo. Anche perché è difficile non sentire, non farsi coinvolgere dal tratto di Pinto, talvolta isterico, talvolta voluttuoso; un tratto passivo-aggressivo, presente assente, capace di passare da dei neri grevissimi e frustrati ad altri di un’umanità commovente, giocando con i vuoti del bianco che a ben guardare vuoti non sono mai: un tratto che svuota ma che in tal modo riempie, potremmo dire, e che nella sua natura “ghirigorica” inevitabilmente ricorda le nevrosi grafiche di Gipi, ma che non per questo è privo di una sua identità forte e riconoscibile, anzi: nessuno si indignerebbe se ora si affermasse che Pinto è nel suo disegno già iconico.
È allora facile farsi guidare attraverso questi spazi bellissimi, arricchiti da intuizioni architettoniche che contornano una storia che qualcuno ha definito futuribile, ma che a parer di chi scrive è quanto più presente, attuale, tastabile nel quotidiano e che, tenendo in primo piano un rapporto di coppia tanto ambiguo quanto spacca-cuori fra il nostro Salvo e l’amata Sistine, ci introduce ad una Parigi divisa fra la xenofobia e l’anarchia, una Parigi sull’orlo di esplodere dove la retorica politica del più becero conservatorismo di destra – fregio di difendere un Paese assaltato dall’immigrazione e una tradizione sull’orlo della sparizione – si scontra violentemente con dei reazionari e sospetti moti di protesta guidati da un solo nome: “Lo Schermo Bianco”.
Nome che si rifà ovviamente agli schermi dei cellulari, quegli schermi dove sempre più sembra avvenire la vera vita degli ultimi anni, dove sembrano davvero prender forma i grandi cambiamenti politici e sociali, che sempre di più siamo abituati ad abitare e che in un certo senso questo fumetto cortocircuita con il concetto di vignetta, e quindi con quello di spazio: cos’è, dov’è che abitiamo veramente?
Ed è forse qui l’unico vero intoppo di questa opera prima, il gioco con la virtualità, l’indugio sullo schermo e sul concetto di schermo, il focus sull’elemento tecnologico che talvolta si perde e strania da una narrazione altrimenti inattaccabile, e che sembra non trovare fino in fondo la combinazione giusta per addentrarsi nel tema e analizzarlo nella sua grande, grandissima complessità, lasciando quindi che rimanga solo un elemento di superficie. Ma, per l’appunto, siamo davanti ad un esordio, e sfido chiunque a colpire nel segno con così tanto acume, così tanta consapevolezza e freschezza tanto nel discorso che si vuol fare, quanto nell’uso del mezzo per raccontare, pubblicando per la prima volta una storia autoctona, peraltro dalla lunghezza di quasi 350 pagine. Che, non sto neanche a dirvelo, si sfogliano che è una meraviglia.
In conclusione, Lo schermo bianco è un grandissimo fumetto, sia per il discorso che fa, sia – e soprattutto – per come lo fa. Un plauso ad Enrico Pinto che ha fatto sold out a Lucca, ed un plauso anche a Coconino che, come al solito, sforna una perla dietro l’altra, e che continua ad investire sia su certe voci d’autore d’importanza cruciale che su nuovi giovani autori sempre con pari bilanciamento, garantendo una qualità editoriale che in pochi, pochissimi possono vantare.
Il consiglio perciò è quello di non farsi scappare questa perla di fumetto: andate a comprarlo e leggetelo, o sentitelo, o vedetelo, o fate vobis, l’importante è che lo abbiate, e che come chi scrive vi demoralizziate pensando al tempo che probabilmente passerà prima che Pinto sforni qualcosa di nuovo.
Japo Corradini