ENTRA. Sfogliandoci

Entrare nel mondo interiore dei personaggi: come aprire una porta, come sfogliare una pagina


“Un mondo nato dall’arte, per questo artificiale
In fondo un mondo virtuoso, forse per questo virtuale”

Tutto è comunicazione. Senza questo assunto non si va da nessuna parte.

Certo, poi “c’è modo e modo”, come mi rimproverano sempre gli amici quando inizio a torturali con i miei “no, ma devi guardare questo!” e “no, guarda, se non hai letto quello…” vari, portandoli allo stremo in un vortice di martellamento dei cosiddetti che alla lunga riconosco suoni, inconsapevolmente - provo a giustificarmi -, spocchioso. Davvero, non è volontario. Non lo dico solo per non farmi odiare da chi legge… o se non altro, non solo.

È con in testa questo piccolo ragionamento (dato il caldo, i medici sconsigliano riflessioni oltre le cinque/sei parole al giorno) che mi siedo davanti al pc per scrivere di fumetti, e penso di essere molto fortunato.

Poi però penso che scrivere di pensare di essere molto fortunato è un po’ barare perché, ammesso che l’abbia sinceramente pensato, se il pensiero è liminale, la scrittura è un atto, avrei di certo potuto risparmiarmelo in quanto presupposto di intenzioni. E da cosa sono guidate queste intenzioni? 

Da quell’entità misteriosa e perpetua che il linguaggio del 2023 ha esasperato quasi allo stesso livello del povero “brainstorming” o del malconcio e prosciugato “storytelling”, e che chiamiamo performance (mi scuso sinceramente con la parola, ma dovrò abusarne anche io per l’economia dell’arringa).

Eccolo quindi, il punto focale del mio discorso, del discorso del fumetto di cui andrò a parlare, dei discorsi tutti: l’atto di performare. Parafrasando Fleabag: “performance is everything”, perché per quanto romantica possa essere l’idea del “sii te stess* a prescindere da tutto”, la realtà dei fatti è che - letteralmente - ogni singolo frangente della nostra vita interazionale richiede una performance contestuale.

E ok, bello essere sé stessi, ma dubito che ad una cena con i parenti della mia ragazza sia gradita la mia versione mutanda-divano-rutto libero, così come intuisco che la mia versione business man (posto che non esiste) possa stonare al secondo compleanno della mia cuginetta (ma tanto non esiste neanche lei, perciò il problema non si pone).

Abbiamo nei secoli costruito un’impalcatura di regole non scritte di prestanza fisico-verbale dalle dimensioni sempre più imbarazzanti, basandoci su presupposti di facciata, bozze di quei modi e modi poi consolidati come “sacri comandamenti della quieta convivenza” (se fossimo in un fumetto avrei disegnato un librone che scende dal cielo mentre una folla ammaliata alza le mani in segno di beata devozione… che fregatura, le parole!) che oggi veneriamo senza porci questione alcuna.

Ma questi “sacri comandamenti” sono figli di quelle stesse visioni parziali, interazioni artefatte (performance!), che pongono soltanto limiti di indagine crescentemente restrittivi: continuiamo a inventare nuovi strumenti per comunicare, ma ciò comporta anche supplementi di regole e quindi di limitazioni.

Le combinazioni di lettere consentite sono con il tempo diventate sempre meno, ma le situazioni nelle quali usarle si sono moltiplicate; oggi quelli che usano “storytelling” almeno una volta al giorno sono considerati (giustamente) alla stregua dei serial killer o dei politici corrotti, ma non è colpa loro: è che sembra non esserci più altro modo per dirlo. E da lì il passo è breve al non aver più niente da dire.

In questo consiste la storia di Nick, un vignettista che – ve la faccio brevissima – lavorando sempre da casa cerca disperatamente un’interazione umana che vada oltre il canonico convenevole che due persone poco in confidenza (e non solo, in realtà) si presume debbano scambiarsi.

Nick è il riflesso dei milioni di individui metropolitani atomizzati nella frenesia cittadina della vita moderna, puntini emotivamente sordomuti seppur socialmente attivi: “è tutta qui l’interazione umana?”, si chiede il protagonista quando prova a guardare oltre la sua soglia emozionale (auto)imposta. In Entra. tutti si conoscono ma nessuno conosce nessun altro, ognuno ha un suo modo per sottrarsi all’intimità a causa di un performing self dal recinto apparentemente invalicabile: ciò che abbiamo dentro appare, più che privato di un accesso, non meritevole di essere accessibile, socialmente superfluo.

Fortunatamente, alla lunga Nick coglie la necessità di entrare dentro a chi ha intorno. Il problema però a quel punto è: come si scardina questo cancellone?

Qui arriva in soccorso la magia del fumetto.

Sentendo l’intervista con Will McPhail (autore di questo fumetto) durante l’ultimo Salone del Libro, ricordo di aver udito il leggendario Igort dire all’incirca: “mi piace quello che fa’ con il fumetto”, riferendosi al diretto interessato, parole che ho interpretato come una presa di consapevolezza di essere davanti ad un qualcosa di fresco, slanciato, rinvigorente: nuovo, nella sua vitalità.

Ebbene, Entra. è, nella sua narrazione, proprio quello; apologia del fumetto, inno ad un’arte di rado resa così indispensabile per raccontare una storia: sfogliandone le pagine, sembra proprio che questo racconto sia possibile soltanto a fumetti. Ogni tavola è una masterclass sulla nona arte nell’uso dei suoi codici: l’alternarsi dei dialoghi fa pendant con quello delle vignette, il cui montaggio segue i picchi emotivi della narrazione, con maglie fitte e stringenti quando la scena è pubblica ed artefatta - performativa, appunto - che farciscono lo spazio fintanto che i contorni neri non flirtino fra loro, soffocando la vignetta e meta-raccontando la frenesia e l’ansia sottese alle recite sociali cui ci sottoponiamo.

Quando però la scena si fa più intima, ecco il respiro. Le vignette si allargano, si allontanano; la scala dei campi cede a quella dei piani, dei primi e primissimi, tramite cui leggere i volti e gli sguardi di chi è in campo, il ritmo si dilata, spesso accompagnato dall’eloquente silenzio di un tempo che si ferma. Lasciate che scorra fino ad ingolfarsi, perdetevi in quelle vignette: potrete sentirne l’acusma.

Tutto è accompagnato da un uso magistrale del bianco, che permea le pagine oltre la normale abitudine rendendole così gigantesche; un bianco espressivo poiché del tutto muto, desolante, che contorna gli acquerelli di un mondo scolorito dall’empatia dimenticata, di cui talvolta alcuni frammenti vignettati emergono e galleggiano soli soletti in questo oceano di latte silenzioso e straniante. 

Il solo modo per sconfiggere il frastuono di questo mare tacito è il colore, i suoi picchi d’intensità: è il mondo interno che sfonda la parete della monocromia (o monotonia) dell’esterno, la verità insita nell’individuo e nascosta dalla performance che si spalanca allo sguardo come un arcobaleno. È qui che il fumetto scardina il cancellone di cui si parlava prima: entrare nel mondo interno dei personaggi è come aprire una porta, un movimento fisico vero e proprio, che muove attorno ad un perno di un oggetto rettangolare il cui ruolo è occultare ciò che gli sta oltre fintanto che non viene mosso.

Pensandoci, il movimento che compie una porta che si apre è lo stesso di una pagina sfogliata: solo sfogliando possiamo accedere al mondo nascosto dentro Entra., e solo un fumetto può concederci tale lusso. 

*vecchio trucco di sceneggiatura: se hai una tavola in grado di colpire l’occhio del lettore, mettila su pagina pari cosicché sia sempre necessario sfogliare per vederla, poiché ogni fumetto inizia su pagina dispari, ossia la pagina di destra.*

Anche noi che leggiamo siamo così parte di un fumetto che pulsa: un racconto dalla sincerità disarmante, perfettamente in bilico fra dramma e commedia, il cui tandem raccoglie gli insegnamenti del secondo e più maturo Will Eisner, con personaggi dallo stile grafico e dalle mimiche molto vicine a Contratto con Dio ed ai racconti di New York, e li getta nella mischia insieme ad una riflessività silenziosa e spaziale alla Here di Richard McGuire e ad una giocosa curiosità verso il mondo figlia dei migliori momenti di Calvin & Hobbes (di cui l’autore è un fan sfegatato), entrambe nomi provenienti dall’universo delle strisce, che guarda caso è anche lo stesso d’origine di McPhail, vignettista del New Yorker.

Non mancano neanche degli echi del cinema di Woody Allen, sia in quella comicità agrodolce ed autoreferenziale fatta di personaggi pensosi e idiosincratici, sia nella riproposizione su carta di quel trademark del regista che è la carrellata laterale ad accompagnare la camminata dei suoi flaneur, in una versione che palesa la natura da vignettista dell’autore scozzese e che ne esalta il potenziale, dove l’urbanistica diviene un conglomerato di condensati sociali al limite della perfidia, vetrine (letteralmente e metaforicamente) con il solo fine di risucchiare ogni passante limitrofo: attraverso la ciclicità della gag, ogni coffee shop, ogni bar che Nick visita sembra solo un rivenditore di emozioni (ab)usate, una riproposizione sterile di stereotipi ed immagini culturalmente parassitarie che, tramite font presunti accattivanti e beceri claim dalla ricercatezza ostentata (qui vien fuori anche una lucidità tipografica tutt’altro che scontata: “…merda, un’insegna in helvetica?”), si umiliano oltre il ridicolo pur di attirare l’attenzione del passante attraverso lo sfoggio plastico di un mood – come diremmo noi Gen Z – che è per l’appunto niente più che mera vetrina, convenevole che sfiora soltanto la superficie.

Il mondo di Nick è così un mondo sterilizzato dove nessuno ricorda più (o vuole ricordare) la complessa stratificazione della natura umana, ed è un mondo terribilmente simile al nostro: il gioco delle formalità è un gioco pericoloso, ci dice McPhail, laddove un eccesso di performance può da un momento all’altro privarci della possibilità di scoprire tutto ciò che ancora non sappiamo di chi abbiamo intorno. 

E potremmo stupirci di quanto ci sia di nascosto dentro ognuno di noi. 

Basta recitare. Guardatevi negli occhi, oltre gli occhi.


Bello questo finale eh? Drammatico ma non troppo, pomposo il giusto con quel pizzico di rammaricata riflessività che fa sempre colpo.

Vorrei dire che non ho performato anche durante la scrittura, ma sarebbe mentire spudoratamente: dovevo parlare di un fumetto incredibile e volevo farlo a dovere, con un lessico consono e uno stile che fosse adiacente a quello della storia; senza dimenticare che dovevo lasciar trapelare una mia dignità “autoriale” nelle parole che uso per rendermi credibile come recensore, evitando però al contempo che questo risultasse plateale per non inficiare sulla qualità della scrittura.

Capiamoci, sono stato sincero nel dirvi quello che penso, certo, ma non lo sono stato nel come l’ho fatto: chi è che nel linguaggio di tutti i giorni usa espressioni tipo: “verità insita nell’individuo”?

Nessuno, mi auguro.

Il dover recensire un’opera mi pone in automatico in una condizione performativa: è ciò che devo fare, e ciò che voi altri vi aspettate. Non si scappa, è il fondamento della nostra società. Ho provato ad aprirmi sinceramente durante il mio discorso ma l’ho fatto in maniera velata - perché fa sinceramente paura -, nascondendomi dietro ai formalismi dell’elaborazione critica.

Giuro che sono lì dentro, fra qualche parola dalla lunghezza immotivata e qualche battuta che nella mia testa suonava sicuramente più divertente che nella vostra: venite a trovarmi, l’ingresso è nascosto all’ombra di una delle tante “e” sparse per il testo. Quaggiù è pieno di colori, alcuni di questi neanche sapevo esistessero. 

Molto meglio che là fuori.

Japo Corradini

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