Maurizio Rosenzweig: i desideri, le sensazioni e le sindromi di un fumettista

Le soddisfazioni e le insidie di un percorso, raccontate da una voce che riesce a mantenere vivo il desiderio di sperimentare


Maurizio Rosenzweig è un fumettista difficilmente catalogabile, definito da Giorgio Cavazzano come uno "tra i più grandi anarchici-rivoluzionari della nona arte degli ultimi trent'anni".
Nato a Milano nel 1970, Rosenzweig ha collaborato con le maggiori case editrici italiane, tra cui Mondadori, Star Comics, DeAgostini, Panini, Rizzoli. Per Edizioni BD ha disegnato Pinocchio, su testi di Sandrone Dazieri, Laida Odius, su sceneggiatura di Andrea G. Pinketts e, come autore unico, la saga Davide Golia e Le avventure di Zigo Stella. È stato docente alla Scuola del Fumetto di Milano. Collabora con Bonelli e con gli editori americani Dark Horse Comics e Image Comics. Di recente è tornato in libreria come autore unico con La sindrome di Leonardo (Feltrinelli Comics), una riflessione sincera e agrodolce sulla creatività (ne abbiamo parlato qui).
Lo abbiamo intervistato per parlare di fumetti, dell'esigenza di narrare e di tanto altro.


Ciao, Maurizio. 
Dopo averti trovato, negli ultimi anni, tra le pagine di Dampyr, e mentre proseguivi la tua collaborazione con gli editori statunitensi Dark Horse e Image, giunge in libreria questa nuova pubblicazione come autore unico, a distanza di diversi anni da Zigo Stella. Quando hai iniziato a lavorare a La sindrome di Leonardo e come nasce l'esigenza di tornare al formato graphic novel?

Quella di raccontare storie mie è sempre stata un’esigenza primordiale. Da quando mio padre mi portava a casa i fumetti di Superman e io immaginavo fosse un mio personaggio trascinandolo in avventure che ritagliavo a mia misura. Leonardo arriva dopo tanti anni l’uscita di Zigo Stella (l’unico fumetto al Mondo che gira mentre lo leggi; e lo dico non per dire, perché lo fa davvero), un po’ perché lavorare per grosse case editrici mi aveva alquanto impigrito e reso pavido, e un po’ perché vivevo un periodo di cambiamenti grandi e stravolgenti e un personaggio come Davide Golia, che era strettamente autobiografico, era anche lui stato travolto dai cambiamenti del suo autore. Non riuscivo più a sentire la voce di Davide Golia. Era come esausto, nonostante di cose da raccontare ne avesse ancora non mi sentivo più il suo tramite. Chissà che in futuro non ne scriva ancora per lasciare qualcosa di me al mio bambino. Vedremo.

Lavorare a Zigo, invece, era stato recuperare lo spirito giocoso e sognante che avevo quando facevo i fumetti a 12 anni, e quel modo libero di raccontare forse (purtroppo?) era destinato ad essere un caso a sé stante. Dopo di lui ho iniziato a cercare storie che mi coinvolgessero, ma non le trovavo. Ne ho buttate via 7, forse 8. Era come se si svuotassero dal desiderio/bisogno di finirle.

A complicare il tutto c’è il fatto che sono uno scrittore molto emotivo, e per questo faccio fatica a mantenere la solidità narrativa che richiedono storie strutturate come quelle di genere, per intenderci. Ad esempio mi piacerebbe fare un fumetto giallo, ma non riesco ad avere il rigore necessario nella costruzione del mistero. Poi ci scappa sempre il barista Orso, o una ragazza strana che vola nella scena e sono tutte cose che minano una trama di un genere che invece deve essere precisa in modo chirurgico. Ma rimane il fatto che raccontare storie mie è sempre stata un’esigenza essenziale e strabordante. È anche il motivo per cui sono pochissime le storie scritte da altri che mi sia piaciuto disegnare. Forse due. Ed erano storie scritte da persone che avevano tutta la mia stima per quello che sapevo fermentava (e fermenta) nel loro cervello, inquieto e caotico come il mio.

Rimane il fatto che si impara sempre qualcosa da qualunque collaborazione. Nel bene e anche nel male.

Leonardo Levitsch è un fumettista che non pubblica da anni e lavora come insegnante di fumetto, con un'unica opera di successo, che risale a molti anni prima. Quanto di te c'è in questo personaggio e quanto invece hai riversato paure ed emozioni solo immaginate e non vissute?

Feltrinelli mi aveva chiesto qualcosa di autobiografico, ma che non fosse Davide Golia. Leonardo è una specie di imbuto che ho usato per travasare nelle pagine del libro cose mie, ma anche cose che ho raccolto negli anni ascoltando i miei amici e i miei colleghi.
Leonardo insegna e lavora per una casa editrice mainstream, ma il suo cuore d’autore è sepolto vivo in Topi, il suo graphic novel che ha avuto successo un po’ di anni prima di quando lo incontriamo noi. Se ci pensi ci sono alcuni autori che hanno un trascorso simile. Credo. Ma mentre lo scrivo non mi viene in mente nessuno. Vabbè.
Rimane il fatto che le sue ansie sono comuni a quelle di qualunque libero professionista.
Il Tempo che passa e non sentirsi mai all’altezza dell’idea che si ha di sé stessi. O che hanno gli altri e che non vuoi deludere.
Della mia vita c’è qualche viso e qualche pensiero, ma alla fine il libro è un calderone demoniaco ribollente di tante cose assieme tantochè alla fine non so più di chi siano le riflessioni e le paranoie di Leonardo. Non riesco più a collegarle a un viso o a un momento. Sono quelle di tutti.
D'altronde molte cose che penso di questo mestiere non ci sono e altre non le posso dire per il quieto vivere. Volevo che fosse un libro piacevole, intenso e non scomodo per nessuno. Tantomeno per me.
Vedi che con la vecchiaia arriva un po’ di saggezza? Va bene. Non è così per tutti. Allora diciamo che per me la vecchiaia è stata una bella maestra. Anche severa. Maledizione. Sexy e severa.

È necessario distaccarsi da ciò che si raffigura in un'opera di questo tipo o, al contrario, il distacco farebbe risultare tutto troppo artificioso e sarebbe controproducente?

Io credo che per storie simili, anche se diplomaticamente autobiografiche, tu debba essere coinvolto. Devi sporcarti un po’ e avere quel disagio sottile come quello che hai alle feste se sei te stesso nonostante la necessaria mascherata sociale. Poi devi avere qualcosa da metterci dentro di tuo e di vero. Ho letto libri autobiografici di autori che vedevi che al posto del sangue avevano della bambagia esistenziale. Che facevano racconti della loro vita come se avessero fatto il liceo di Wikipedia.
Secondo me devi avere anche un modo di raccontare che sia avvolgente, divertente, sincero ma non maleducato. E anche se è la tua vita, ci vuole che tu sia anche autoironico. E pensare che, come diceva Sorrentino, tutti hanno un po’ ragione e quello che vale per te non vale per gli altri. Avere uno sguardo esterno a te stesso e anche farti mettere alla berlina dalla tua autocritica. Avere delle opinioni non personali su te stesso è difficile, ma non impossibile.

A cosa si riferisce la "sindrome di Leonardo" del titolo? La vedi come una sorta di sindrome di Stoccolma, per cui ci si innamora del lavoro che ci rende schiavi? O è più una sindrome che colpisce chi viene costretto dalla propria fantasia (e dai personaggi che inventa) a continuare a dare una forma tangibile a ciò che ha dentro?

Forse la Sindrome di Leonardo è la necessità dell’essere umano di raccontare storie.
Dalle pitture rupestri ai diari di viaggio ai post su Instagram, forse il bisogno di comunicare passa da tutto quello che abbiamo a disposizione per comunicarci verso l’esterno della nostra caverna. È anche vero che per alcuni l’assenza di storie non è assolutamente un problema. Ho molti colleghi che non hanno nessun desiderio di raccontare storie loro. E forse la loro Sindrome di Leonardo non è così acuta e disperante. Per altri il proprio immaginario è come una pentola a pressione che se non sfogasse li farebbe esplodere come una supernova. Io non so chi sia meglio o chi stia peggio. A me piacciono di più i secondi perché mi sembra siano creatori di mondi non solo estetici ma anche letterari; forse li preferisco solo perché li sento più simili a me.


Tornando alla Sindrome di Leonardo come tutte le sindromi ha dei corollari: la paura di fallire, la paura di non avere il tempo per fare tutto quello che vorresti fare, il timore di non poter sostenere i propri zenith qualitativi. E, come dicevo prima, la paura di disattendere le aspettative di un mondo di cui fai parte anche se fai finta che non sia così.
La Sindrome di Leonardo potrebbe averla chiunque pensi e rischi e viva con la propria testa.

Quanto coraggio ci vuole per affrontare una pagina bianca?

Non lo so in senso generale perché conosco disegnatori per i quali è facilissimo tutto.
Io mi sento le vertigini. È lo spazio vuoto più pericoloso che io conosca. Mi sembra sia come nuotare in alto mare la notte. Non sai che cosa arrivi e che male ti possa fare.
Ogni ombra è mortale. Hai la schiena curva dai complessi di inferiorità verso chiunque faccia un lavoro “serio” e ogni pensiero che fai è intrecciato alla psicosi.
Se tutti quelli che fanno i brillanti su Facebook su quanto sia facile e splendente fare questo mestiere fossero sinceri, allora sarebbe un mestiere portato avanti da folli sociopatici. Fanno finta. Disegnare è personale e se non sei scemo, è un casino.
Deve essere faticoso e spaventoso.
Altrimenti non lo fai al tuo massimo. O semplicemente per te è facile davvero e tutto quello che ho scritto vale solo per me. Maledizione.


Ai disegni hai avuto modo di esprimerti con grande varietà in questo volume, con un approccio che sembra affermare il desiderio costante di sperimentare. Quanto è importante per te non adagiarsi su uno stile già codificato?

Fermo restando che fare i fumetti sia applicare dei codici comuni a tutti, il fumetto è anche un linguaggio e come tutti i linguaggi deve evolvere. Progredire fuori dal tuo tavolo, editorialmente parlando, ma anche nella tua testa. Deve essere una ricerca continua.
Mi rendo conto che non sia facile mettersi sempre in discussione. Perché significa anche non sentirsi mai al sicuro. Mai tranquilli.
Su quelle pagine cercavo di raccontare anche gli stati d’animo di Leonardo. I disegni non finiti, le pagine strappate. E poi dopo anni a sentire parlare di coerenza e stantii paletti grafici e di composizione, ho pensato che se non avessi usato quelle pagine per respirare e divertirmi avrei perso una bella occasione di recuperare la mia idea di fumetto.
Stili diversi comunicano sensazioni diverse. È un dialogo con il lettore, non con te stesso. Gli devi dare l’amore che senti tu, la forza di quello che vuoi dirgli. Perché senza di lui quel libro non esisterebbe. Devi dargli quello che hai. Come un musicista a un concerto.

Pazienza diceva se piangi tu il lettore piangerà, se ridi il lettore riderà.
Gli editor americani ti dicono se ti diverti tu a disegnare la pagina anche il lettore si divertirà. È così.

Nell'opera sono presenti omaggi a maestri della nona arte come Alex Raymond, Jack Kirby, Will Eisner e Art Spiegelman. Cosa ha rappresentato per te confrontarti con questi "mostri sacri"?

Mi ci confronto ogni giorno. Come con Buzzelli, Blutch e Toth. E poi chiunque abbia trovato soluzioni che diventano lezioni di disegno. E questa cosa la trovo anche in autori giovani e contemporanei, non solo fra le pagine delle enciclopedie sui fumetti.
Questo lavoro si arricchisce dell’esperienza dei colleghi; quelli storici che hanno fatto la storia di questo media e che sono fondamentali, ma anche di quelli arrivano dopo di te. Che hanno forse uno sguardo inedito su quello che è il tuo carico culturale, che a volte è un macigno che ti fiacca le gambe e che ti rallenta fino a fermarti mentre il Mondo è sempre in corsa. Credo che per fare i fumetti li devi guardare tutti.
Quelli dei Maestri (li chiamo così per capirci, ma è un temine che mi fa sempre un po’ paura), ma anche quelli che escono domani. Non solo quelli che reputi belli, ma anche quelli che non hanno i margini rassicuranti di quello che ti piace. E fare lo sforzo di capirli.
Perché i gusti sono questione di cultura. Più cose sai e più cose apprezzi. Le emozioni non sono discutibili. Ma i gusti sì. Non bisogna confondere i gusti con le emozioni. Sono cose diverse. A me emozionano i film di Superargo anche se non sono belli. Per capirci.
I gusti devono passare fra i denti della cultura. Altrimenti sono pozzi in cui sparisci.


Accanto all'esperienza da fumettista, hai abbinato per anni quella come insegnante in una Scuola di fumetto. È, come la descrivi, un'esperienza in cui, col tempo, l'entusiasmo è stato soppiantato dai timori?

Ho insegnato per 15 anni. Ma l’ultimo anno non ce la facevo più. Un po’ per stanchezza. Un po’ perché il fumetto stava cambiando troppo, e al di là di spiegare le basi, cosa che puoi risolvere in poche ore di insegnamento, il resto stava cambiando in modo troppo veloce e per me difficile da assimilare. Vedevo i ragazzi cambiare. In peggio per certe cose, ma in meglio per altre. Erano loro che mi spiegavano certe meraviglie che io nemmeno sapevo esistessero. E io non mi sentivo più di poterli accompagnare. Ma era giusto così.
Non avevo paura di quello che stava succedendo, ma ne avevo rispetto. E per onestà verso quei ragazzi dovevo lasciare che imparassero dal loro Tempo, non dal mio. È anche giusto che un ragazzo sappia chi sia Pratt, ma se vuole disegnare Deadpool, che gli frega di capire come e perché Pratt faceva il mare con delle macchie di china?! Che sono bellissime e geniali, ma lui che se ne fa? I ragazzi vanno incuriositi, non indottrinati. Gli devi fare vedere tutto quello che ha fatto la storia, ma poi diventa il loro lavoro. La loro vita. Le scuole di fumetto più efficaci, se vedi, sono quelle che insegnano un mestiere in modo onesto e moderno. Poi se un ragazzo vuole scoprire gente come Jacovitti o Battaglia, può farlo. Ma non sono dogmi. Non devono esserlo.
Ecco. Io non la penso così. Io credo che se vuoi fare il fumetto d’autore non puoi non leggere Pompeo e se vuoi fare i fumetti d’avventura non puoi non leggere Corto Maltese.
Per quello non potevo più insegnare. Non riuscivo più a capire da che parte stare dell’insegnamento.
Hanno tutti un po’ ragione.


Chiudiamo con una domanda (in parte) extrafumettistica: cosa stai leggendo, ascoltando, guardando in questo periodo?

Sto leggendo vecchi fumetti Marvel degli anni ’80. Come Howard il Papero di Gerber o il ciclo delle avventure della Cosa (Ben Grimm) scritto da Grenwuald. Sono piene di idee e di tutto quello che ha fatto bella la Marvel. Poi sto rileggendo Calvino e qualche autore contemporaneo. Musica sono sempre sui Kiss e gli Iron Maiden. Cose più “attuali” non mi sembrano poi così attuali. Preferisco Guccini a molte delle robe che sento in giro. E poi Grignani e Vecchioni.
Accetto sempre consigli, comunque. Anche lì sono molto curioso. Anche se il metal per me è Casa. E a casa ci devi tornare.

Grazie, Maurizio. E buon ritorno a casa.  

Giuseppe Lamola

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