Visioni seriali: Black Panther - Wakanda Forever

Le cinque fasi del lutto in versione MCU

Dire Addio nel Wakanda, (Mai) Per Sempre.

Perché affrontare un lutto significa anche accettare nel proprio cuore l'immortalità del ricordo e al tempo stesso andare avanti, con quella inesorabile forza che solo la vita possiede.

Ci sono due Black Panther - Wakanda Forever: uno, scritto da Ryan Coogler prima del 28 Agosto 2020, e che non conosceremo mai, in cui Re T'Challa si ritrova ad affrontare sfide e dilemmi all'ombra del Blip che lo ha visto scomparire negli ultimi Avengers.

L'altro, realizzato con la mente percorsa da mille insidie, in cui il Wakanda, il cast e noi pubblico dobbiamo venire a patti con la morte di Chadwick Boseman, e che è il film ora nelle sale, un lungo, articolato, non privo di spettacolo, saluto ad una persona di straordinario talento prima, e supereroe dopo.

È impossibile, infatti, scindere le due cose, guardando questo film complesso, che con rara delicatezza evita di scadere in facili retoriche da lacrima scontata, e cerca invece di rendere omaggio nel modo migliore, di definire, per gli spettatori e i personaggi, una delicata catarsi, che possa infine concludersi con un voltare pagina, ma sempre con profondo rispetto.

Complicato, realizzare questa pellicola. Perché il primo Black Panther è stato un fenomeno di costume, che ha reso Boseman una star e il suo volto inscindibile con quello del personaggio, incarnandone appieno i valori, il carisma e la potenza del messaggio sociale.

Poi la notizia, terribile quanto sorprendente, della morte, la scoperta della malattia di cui soffriva e di cui praticamente nessuno sapeva, un evento che ha colpito, ai quattro angoli del globo, chi lo ammirava come collega, come attore e come amico.

E quel Wakanda Forever a risuonare come ultimo saluto. Ma non abbastanza.

Non certo da fermare l'enome macchina produttiva del MCU, che di fronte alla possibilità di un recasting (o altre soluzioni più creative) si è subito detta contraria, ma non a ritornare ancora in quella nazione, non nel lasciare quel caso mediatico da Oscar un assolo.

Poster di Matt Ferguson.

Ma, appunto, Chadwick era T'Challa, era Black Panther anche fuori da set, unione di eroe ed interprete assoluta, e questo è uno scoglio che vale una montagna.

Così Coogler, riprendendo alcune idee generali già introdotte nella prima stesura (d'altronde, il Marvel Cinematic Universe ne fa un vanto di essere ormai un'enorme trama interconnessa dalle lunghe ramificazioni), fa l'unica cosa sensata per la storia e per sé come creativo: lascia che sia il cuore a lasciar correre le dita sulla tastiera del laptop, scrivendo una tesa versione da cinecomic delle universali cinque fasi del lutto.

Questo è il nucleo principale di Wakanda Forever: mostrare, partendo da uno straordinario - per messa in scena ed emozione - funerale, tutti quei sentimenti che la scomparsa di una persona cara scatena in noi.

È questo corto circuito tra realtà e finzione a dare al film la sua caratura vincente, a lasciare una forte impronta in questa altalenante Fase 4, in cui la sperimentazione di cose nuove (alcune riuscite, altre meno), l'ha fatta da padrone e che vede in questo film un altro esempio.

C'è lo spettacolo da blockbuster, c'è quell'Universe della U di MCU che continua a muovere i suoi ingranaggi, sia dal lato "spionistico" (come nel primo film, rappresentato da Martin Freeman e un altro personaggio che non voglio spoilerare) sia da quello più articolato e fantapolitico (e qui veniamo alla questione Namor e compagnia mutante, ma ci arrivo subito).

C'è tutto questo, ma c'è sopratutto il coraggio di versare lacrime vere, sentite, che attraversano lo schermo e fanno diventare lucidi anche gli occhi più cinici, regalando un'ombra scura e drammatica ad un carrozzone mediatico spesso pure troppo colorato e chiassoso.

Il cast dice di star salutando Re T'Challa, ma in cuor loro e nostro, stiamo dando il vero e ultimo saluto a Chadwick Boseman, un addio, dopo due lunghi anni di cordoglio.

È questo moto ondoso di sensazioni, da pelle d'oca per quanto visivamente imponenti (apro e chiudo subito la parentesi: anche stavolta, non mi stupirebbero eventuali vittorie ai già citati Oscar per costumi e scenografie, in particolare, ancora una volta, il lavoro di Ruth E. Carter è magnificente, fondato su un'unione impeccabile tra stile e folclore), a rendere Wakanda Forever il sequel non necessario ma di cui avevamo bisogno, forse non solo come Marvel Fan.

Una nazione in lutto, quindi, quella che ritroviamo in apertura del film. Una nazione su cui molti vorrebbero mettere le loro avide mani per via del solito, ricco Vibranio, approfittando della profonda debolezza di un paese che per due volte ha visto scomparire il suo sovrano, prima per uno schiocco di dita, poi definitivamente.

A questo punto, entra in scena Namor, o meglio il Namor del MCU, che non è quello dei fumetti, o meglio lo è nelle sue caratteristiche migliori, ma di sicuro non in quelle filologiche e per buona e massima parte quest'ennesima versione/variante del personaggio creato nel 1939 da Bill Everett funziona, ha un suo personale senso all'interno di quello specchio distorto che sono le rappresentazioni degli eroi Marvel sul grande schermo.

Il Sub-Mariner nell'incarnazione di Tenoch Huerta è anche qui, prima di tutto, un protettore della sua gente (che sta affrontando un attacco simile a quello riservato dai potenti della Terra ai nostri beniamini), che non sono Atlantidei ma il popolo di Talokan, fittizio quanto il Wakanda e come questo dominato da una particolare visione folcloristica, nello specifico quella azteca e mesoamericana. E che, ripeto, ha un suo particolare valore identitario, come a voler conferire anche alle popolazioni latine il loro personale simbolo supereroistico.

Quindi ecco che Huerta, alette ai piedi e gene mutante (X-Concetto che piano piano inizia a farsi largo sempre più), accoglie le istante migliori del Namor fumettistico, quel misto tra arroganza e reggenza, tra calcolo diplomatico e impulsività battagliera che da sempre lo contraddistinguono, e che si riassumono nel lapidario "Imperius Rex".

La pellicola ne riscrive le origini (un "sacrilegio" ideato anche per evitare possibili confronti e commenti del pubblico più generalista con Aquaman), ma ne mantiene l'essenza, che poi è ciò che conta (e poteva andarci peggio, lo sapete meglio di me).

Quindi il lutto, quindi Namor, quindi un Wakanda che ha bisogno di una nuova Pantera, direi che la carne al fuoco è abbastanza, ed invece, come quel pizzico di sale che insaporisce questo piatto luculliano di argomenti, ecco pure Ironheart. Ovvero Riri Williams, con l'introduzione di un personaggio che riesce praticamente da subito a creare un forte appeal col pubblico (merito anche della sua interprete, una deliziosa Dominique Thorne) e a far ben sperare per il prossimo spiegone... volevo dire, serie televisiva made in Marvel Studios per Disney+, in arrivo prossimamente.

Quindi ognuno di loro, in guise più o meno spettacolari, passa a pagare pegno, sia emotivamente che narrativamente, permettendo al film di avere un peso specifico che non sia solo quello della durata, anch'essa imponente: 160 minuti, mai veramente sentiti (ma immagino dipenda anche da spettatore a spettatore) e di cui avrei forse evitato qualche excursus di troppo, anche se immagino che per taluni siano stati logicamente ben graditi.

Senza dimenticare una regola chiave: questo è prima di tutto un blockbuster.

Portato in scena con dovuti modi e oserei dire, anche una certa eleganza, ma senza rinnegare scene spettacolose, combattimenti ad alto tasso di adrenalina visiva ed effettoni speciali. Che ci sono, e che, per ragioni un poco strane, cadono nei momenti meno prevedibili, ma che quando devono colpire davvero la retina, lo fanno molto bene, superando ancora una volta il fronte unito della prima fila nerd e andando a coivolgere quanto più ampio, variopinto e variegato pubblico possibile. Sopratutto, lo spero, femminile. Possiede questo forte potere, Wakanda Forever.

Che non è da confondere con il "Girl Power" di quella scena in Endgame, ma una fiera, forte, ben scritta e recitata presenza femminile, a cui la Regina Ramonda di una intensa Angela Bassett dona carattere fiero, che di riflesso abbraccia tutte le donne coinvolte.

Come la Okoye di Danai Gurira, o la tosta ed energica new entry Aneka di Michaela Coel.

E poi lei, la Shuri di Letitia Wright, in quella che è forse una delle migliori prove della sua carriera, che intraprende un "Cammino dell'Eroe" doloroso ma importante, una crescita, semplice sulla carta, come il concetto che porta in scena, ma impreziosito da una performance attoriale da vera protagonista, un valore aggiunto che piacevolmente stupisce.

Questo secondo Black Panther chiude un capitolo, chiude una Fase dove il circo Marvel, superato quello zenith multimiliardario che sappiamo, aveva bisogno di scrivere nuove regole, presentare nuovi volti, trovare il modo di andare avanti.

E anche in questa prospettiva, si percepisce una catarsi, nelle idee, e nel tono di un'opera fortemente adulta, ma senza dimenticare quel bagliore di infinita fantasia che da sempre i comics racchiudono, e che ogni volta proporre su schermo è croce e delizia.

A questo punto, per potermi dilungare oltre, dovrei cadere nella facile trappola dello spoiler, dell'analisi minuziosa di questo e quel momento e dettaglio, ma sarebbe anche negarvi il piacere di andare al cinema (perché è lì che va visto, non su piattaforma).

Per chi invece ricerca determinati appigli fumettistici, posso solo notare che il film non pesca da nulla di specifico, prende un po' qui e un po' lì da questa o quella particolare storia, riformulando il tutto in una trama personale e fortemente cinematica.

Ma se devo suggerire qualcosa da leggere, se si vuole passare in fumetteria dopo la visione, vi rimando a due produzioni in particolare: il Black Panther di Ta-Nehisi Coates e la Shuri di Nnedi Okorafor.

Andando a chiudere, penso che, insieme alla Follia Raimica di Doctor Strange e il suo Multiverse of Madness, Wakanda Forever sia una delle note più felici risuonate dai Marvel Studios nell'ultimo periodo, e so riconoscere l'ironia di accostare la parola "felici" ad un film che parla di cordoglio.

Ma le lacrime, si sa, vanno dove vogliono loro, e spesso possono accompagnare il sorriso di una nuova alba, di un avvenire che verrà, e che si tinge di speranza e vitalità accesa.

O come quello di un commosso spettatore, al riaccendersi delle luci in sala.

Il Nerdastro

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