Visioni seriali: Doctor Strange nel Multiverso della Follia

Un film di Sam Raimi, per davvero


Studio di Sam Raimi.
Un telefono squilla, tra una riproduzione della maschera di Green Goblin e la replica della motosega di Ash Williams.
"Sì, pronto?"
"Mr. Raimi, Sam... Sono Kevin Feige, dai Marvel Studios. Spero ti ricordi di me."
"Certo che mi ricordo, ci siamo conosciuti sul set dei miei Spider-Man, sempre a confabulare con Avi."
(Fatto vero: un giovane Kevin Feige ha davvero partecipato alla lavorazione dei film con Tobey Maguire, come assistente del produttore Avi Arad)
"Sì, bei ricordi... Senti, stiamo preparando il secondo Doctor Strange, ma Scott Derrickson, il regista, ha deciso di lasciare. Nel momento stesso in cui abbiamo dovuto scegliere un sostituto, ho subito pensato a te e a quanto fossi interessato ad un film su Stephen Strange..."
"Beh, certo, sarebbe bello, ma sono fuori dal giro da un po' e..."
"Aspetta, prima che tu possa dirmi di no, sappi che, tolto il paletto stringente della macrotrama che stiamo portando avanti, avresti piena libertà creativa..."
"Piena?"
"Sì, completa carta bianca, puoi anche portarti dietro Bruce Campbell, se vuoi."


Tra serio e faceto, un poco me la immagino così, la telefonata che ha portato Sam Raimi alla regia di Doctor Strange in the Multiverse of Madness, il nuovo film Marvel Studios ora nei cinema.
Un film che fatico a definire tale, così come non riesco a vedere le varie miniserie su Disney+ come semplici Serie TV, evento o meno, quanto piuttosto pezzi di un enorme puzzle che non ha ancora smesso di comporsi.
Ormai sono 14 anni che va avanti questa storia, giusto? Considerare queste opere nella loro singolarità non ha più molto senso, ne fa perdere alla visione, compresa quella d'insieme, e onestamente è un ripetersi ad ogni recensione, di quella che a questo punto non è più regola, ma proprio legge, non scritta, ma non per questo meno stringente.
Per vedere il Multiverso della Follia, bisogna infatti aver prima spuntato dalla lista (almeno, ma non solo) WandaVision e Loki, e prima ancora Endgame, Infinity War che al mercato mio padre comprò.

Se seguite quell'enorme Visione Seriale che è l'MCU dovrebbe essere palese (anche se noto che ancora molti faticano ad uscire da un confine che ha smesso di esistere forse sin dalla scena nei titoli di coda di The Incredible Hulk con Robert Downey Jr. e William Hurt), che tutto questo è un enorme, strutturato Universo Condiviso, che sta ponendo delle basi per creare il mega blockbuster intasa-botteghino del domani.
Alle volte basta un lungometraggio, alle volte è necessario che l'eventuale spiegone di questo o quel concetto o l'introduzione di questo o quel personaggio si sviluppi su una lunghezza un poco più ampia... e allora ecco arrivare le miniserie TV.

Prendete Moon Knight: quasi impossibile incasellare in un film azione, personalità multiple e divinità egizie. Allora ecco sei episodi in cui Oscar Isaac convince come interprete del personaggio, leva di torno tutta la parte complessa, cercando di rimanere nei limiti di una serie destinata a Disney+, pronta adesso a regalarci in futuro tutta quella dinamica che ora sembra quasi ci sia stata volutamente negata. E sottolineo "volutamente", perchè è ovvio che il Cavaliere Lunare ritornerà, anche senza l'eventuale cartello al termine dei titoli di coda a dovercelo dire. Non sappiamo in quale guisa, ma ritornerà. I Marvel Studios, ormai è lampante, non mettono in cantiere qualcosa solo per vedere l'effetto che fa.


Perché tutta questa premessa?
Per dire che Sam Raimi ha sul serio avuto quella completa carta bianca, riuscendo in un tipo d'impresa intellettuale e artistica che è capacità solo dei grandi: far suo l'ingranaggio di un meccanismo, rendendolo a tutti gli effetti un "Directed by Sam Raimi".

Il regista de L'Armata delle Tenebre è un mestierante di quelli con un proprio stile, una propria visione, appassionata, cultrice e di culto. Che ad un occhio poco attento potrebbe sembrare molto "vecchio stile", ma ha in sè anima e cuore cinefili puri.

Non è il Jon Watts di No Way Home, non ha una direzione anonima e senza particolari spunti, che lascia che siano la trama generale e la nostalgia a far quasi il lavoro per lui.
No, Raimi prende la rondella che fa girare l'orologio del MCU, la pittura con i suoi colori macabri e poi la rimette al suo posto. Questo particolare ingranaggio risalta nel complesso, perché il suo zampino artistico è lì, pronto a regalare brividi di piacere allo spettatore.

Così come è altrettanto vero il fatto che Raimi e Strange siano spiriti affini. Il personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko pesca a piene mani dallo stesso immaginario a cui il cineasta è da sempre legato, fatto di occultismo, libri maledetti e corruzione dell'anima, senza però mai dimenticare di vederne il lato più surreale, più folle, più super in questo caso.

Sui social molti si son chiesti dove stia la Follia in questo Multiverso, ricercandola in questo o quel risvolto della storia, e non capendo che la Madness in questione è tutta nell'impronta visiva di Raimi, nelle genialate al limite del camp che ha messo in atto in questi 120 minuti, dove persino la musica si presta a farne parte, e non solo come colonna sonora (apro e chiudo una veloce parentesi sulla cornice musicale imbastita da Danny Elfman: non basterebbe questa recensione per elogiare il Maestro, che ha davvero lavorato di fino).


C'è da rispettare il disegno, certo. La trama non deve essere modificata dal suo sfruttare il concetto furbo di Multiverso, così come i cameo d'eccezione (di cui uno al sapor di fancasting) e lo sviluppo di una villain verso una direzione oscura di Amore che persevera nel cercare la sua felicità, e non solo un Dolore che si ripete.
Ma in questi contorni Raimi colora con una tavolozza che brilla di inventiva, di voglia di fare Cinema, quello vero, quello che rimane, di omaggiare lo Strange più classico e giocare con il brivido, con una paura sottile, che sappia sorprendere e scuotere uno schema che è sì consolidato ma non per questo preclude ad una eccellenza che stupisce.

Un poco come quegli stessi fumetti il cui schema si vuole riproporre al cinema, con l'albo del mese disegnato dall'artista eccellente, che lo fa diventare un po' più bello degli altri.
Ne consegue un film con uno Strange pronto ad abbracciare la sua stranezza, ad evolvere verso direzioni nuove che vedremo dopodomani.


Benedict Cumberbatch veste la sua cappa come un guanto, abbracciando la Follia e rendendo sempre più indistinto il confine tra attore e personaggio, secondo solo a Downey Jr.
E poi lei, Elizabeth Olsen, che Raimi guarda recitare e con un sorriso maligno e sornione, ne coglie un lato che va oltre la bellezza fisica e gli occhioni, e decide che deve diventare il suo strumento del Terrore, perché se si chiama Strega Scarlatta non è solo perché suona bene come nomignolo.

Inquadrature che sono giochi di specchi, qualche piccolo e genuino jumpscare, un paio di momenti sussurrati e alcuni più spettacolari, la corsa non perde mai il suo ritmo, le spiegazioni sono state fatte in precedenza, se vi mancano dei pezzi non sappiamo che dirvi, il crazy train è lanciato e non fa fermate.
Ne risulta una coerenza stilistica che non ha accettato compromessi, che non se li è posti, e questo si traduce in un grande spettacolo.

Su quella narrativa... Beh, anche qui c'è una sua coerenza, con quanto visto e sopratutto con quanto ci attende, perché la verità è che, da lettore di fumetti da tutta una vita, impari che la magia è tale perché, mentre sei impegnato a guardare da una parte, lo Stregone Supremo sta manovrando il trucco dall'altra.
E un cinecomic Marvel cosa è in fondo se non Fumetto che scambia le vignette per fotogrammi, e costruisce la propria collana, solo che al posto di andare ogni mese in fumetteria, l'appuntamento è col botteghino del cinema.

In termini di futuro, poi, non si può che spezzare una lancia anche per la America Chavez di Xochti Gomez, aggiunta frizzante al franchise, e anche per lei la certezza di ritrovarla nel domani di un Universo, quello cinematografico, che sta sempre più puntando su personaggi che possiamo definire, a buon ragione, di nicchia, eppure, se saputi sfruttare ed incanalare all'interno del flusso narrativo, meritevoli di molta attenzione.


Insomma, l'avrete capito, se siete arrivati sin qui in questo mio soliloquio: In The Multiverse of Madness funziona appieno come passo strutturato e con un fanservice ben gestito, verso un domani che ora sta mettendo fondamenta per i prossimi anni, anche a costo di apparire, almeno per il momento, un poco ostico nel farsi apprezzare.
La prospettiva del MCU si sta ampliando talmente tanto, che il nostro occhio di spettatore non riesce ancora ad arrivarci, in nome di una sorpresa che non deve mai mancare.
Ma sopratutto funziona appieno come film di Sam Raimi, come Oggetto Cinema che da una nota d'autore ad un'altra volontà che i Marvel Studios stanno manifestando sempre più, ovvero vedere sin dove si può spingere la censura prima di arrivare al punto di rottura.
Raimi ci regala un film diverso, che non è sempre una cosa malvagia, e sopratutto ci presenta un suo film, pienamente cosciente del suo potere come narratore per immagini.
Ci sono Eroi che usano scudi, altri armature tecnologiche, altri ancora si limitano ad impartire ordini mentre si sistemano la benda sull'occhio, e poi ci sono quelli che scendono in battaglia armati di una telecamera, del loro occhio attento e del talento di ottimi attori. Salvando un bene prezioso di questi tempi: una serata al Cinema!




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