Allenarsi alla paura – Intervista con Barbara Baraldi
Un dialogo sulla scrittura, Dylan Dog e l’urgenza di raccontare buone storie
Per questo Lucca Comics & Games 2025 abbiamo avuto il piacere di incontrare e intervistare Barbara Baraldi, scrittrice, sceneggiatrice e attuale curatrice di Dylan Dog per Sergio Bonelli Editore.
Molto amata nel panorama del thriller e dell’horror italiano, oltre al fumetto, ha firmato numerosi romanzi di successo, tra cui la saga best seller dedicata ad Aurora Scalviati, la profiler del buio.
È un amore che viene da lontano. Ho iniziato a raccontare storie ai miei fratelli più piccoli, perché sono la più grande di quattro, tutti maschi oltretutto, e i due più piccoli erano, soprattutto uno, davvero scatenati. Mia madre si meravigliava perché con me stavano sempre buonissimi e diceva: «Ma come mai sono così buoni con te?». Non sapeva che io raccontavo loro storie di paura!
Adesso sono cresciuti bene, quindi lo posso dire: con loro ho imparato a dosare i colpi di scena, a tenerli incollati al racconto. Sono stati il mio primo pubblico, e l’amore per le storie viene davvero da lontano, perché anch’io sono cresciuta con le storie di paura delle mie nonne.
Che bello, insomma una tradizione.
Assolutamente, fare paura ai bambini. [ride]
Crescono bene, crescono bene.
Sì, esorcizziamo.
Tavola di Nicola Mari tratta dall'albo di esordio di Barbara Baraldi sulla serie regolare di Dylan Dog, La mano sbagliata.
Scrivere un romanzo e scrivere una sceneggiatura sono due cose abbastanza diverse. Com'è stato il passaggio dalla narrativa al fumetto? Era un tuo desiderio da tempo o è stata un'evoluzione naturale del tuo percorso artistico?
Guarda, io non ho mai posto limiti al raccontare storie: credo che ogni storia, anzi, chieda il suo modo per essere narrata. Mi è capitato di affrontare gli stessi temi sia nel fumetto che nella narrativa.
Ho iniziato con la narrativa perché, paradossalmente, mi è sembrato più semplice. Nel fumetto bisogna studiare molto: la sceneggiatura ha un suo codice preciso. Però era un sogno che era lì, soprattutto perché Dylan Dog è stato il primo fumetto che ho comprato con i miei soldi, mi ha accompagnata durante l’adolescenza, un’adolescenza da ragazza un po’ stramba, in un piccolo paese della Bassa Emiliana.
Ero molto chiusa in me stessa, soffrivo di una timidezza cronica, e grazie ai libri ho trovato il mio mondo, i miei amici, non mi vergogno a dirlo. Leggevo fino a quattro libri a settimana. Quando poi, da adolescente, ho scoperto Dylan Dog, mi si è aperto un mondo: Dylan Dog fa sentire abbracciati, diversi ma compresi, e mostra come spesso il vero mostro sia la società stessa. Il mostro, in realtà, è il “monstrum”, cioè il “prodigio”, nell’accezione latina del termine.
Di Dylan mi sono innamorata, e arrivare poi a scriverlo è stato il mio modo di dirgli grazie.
Tavola di Davide Furnò.
Nel fumetto il racconto nasce dal dialogo tra sceneggiatore e disegnatore. Quanto spazio lasci all’interpretazione visiva dell’artista e quanto invece tendi a guidarla con la tua visione? E ti capita che il disegno ti sveli sfumature o significati nuovi della storia?
Bellissima domanda, grazie. Si vede che anche tu, secondo me, sei un’artista, dalla profondità delle domande. Detto questo, all’inizio ero molto, molto ossessivo-compulsiva nelle sceneggiature: erano le cosiddette “sceneggiature blindate”, scrivevo tutto nei minimi dettagli e guidavo molto il disegnatore. Alcuni erano contenti di questo approccio, anche perché si divertivano a disegnare visioni diverse da quelle che avrebbero avuto loro.
Con gli anni e con l’esperienza ho iniziato a conoscere molto meglio i disegnatori: ormai so qual è il “superpotere” di ciascuno, chi è più bravo nelle scene d’azione, chi nelle atmosfere dark. Quando so già per chi sto scrivendo una sceneggiatura, lascio libera interpretazione: scrivo ciò che è necessario, ma se non è necessario, una volta introdotta la scena e delineati bene i personaggi, lascio libertà. E sì, assolutamente, come dicevi nella seconda parte della domanda: è capitato tantissime volte che le sfumature mi offrissero nuove letture, più profonde, e mi facessero viaggiare anche come autrice, pur avendo scritto la storia con la mente. È un dialogo, e ognuno ci mette qualcosa di sé. Ti svelo anche una piccola cosa, da curatrice: una delle prime cose che ho fatto è stata togliere nei titoli iniziali di Dylan Dog la divisione sceneggiatore e disegnatore, come era stata messa negli anni. Sono tornata alla formula originale in cui si risultava entrambi autori, prima lo sceneggiatore, poi il disegnatore, ma insieme. Ed è giusto così.
Tavola di Corrado Roi.
Il thriller è il genere che più ti rappresenta, ma in Dylan Dog ti sei spesso mossa anche verso altri lidi... penso ad albi come Pioggia di sangue, ad esempio. Come mai questa scelta? È una voglia di sperimentare o è il personaggio stesso a chiedere storie diverse?
A me piace raccontare il lato oscuro in tutte le sue sfaccettature: l’oscuro non è per forza qualcosa di negativo, ma spesso è semplicemente ciò che teniamo più nascosto. Amo raccontare l’orrore perché, avendo sempre avuto paura di tutto, per me è un modo per elaborarlo. Rubo le parole al nostro maestro King: è un modo per allenarsi alla paura.
Purtroppo, per le paure quotidiane basta accendere il telegiornale per restare paralizzati; invece, l’orrore “controllato”, quello che si vive attraverso la lettura o la scrittura, diventa davvero un modo per affrontarle. Io direi per elaborarle, lui direbbe per allenarsi, che come definizione mi piace tantissimo.
Non mi pongo limiti e mi interessa raccontare tutte le sfumature dell’orrore, dallo psicologico al thriller, fino a storie più noir. Il mio ultimo romanzo, per esempio, ha “sfumature gialle”: mi piaceva molto la sfida al lettore tipica di Agatha Christie o di personaggi come Sherlock Holmes, in cui c’era sempre questa sfida al lettore. In più mi piace il colpo di scena alla fine di ogni capitolo. Mescolo, diciamo.
Tavola di Corrado Roi.
Cosa ti piacerebbe trasmettere con le storie di Dylan Dog? Quando scrivi ti lasci guidare dall'ispirazione del momento oppure da un tema preciso che vuoi affrontare?
A volte una tematica ha urgenza di essere raccontata, ma io cerco sempre di resistere alla tentazione di scrivere “storie-tesi”, perché secondo me è una cosa brutta. Deve esserci prima di tutto la storia, che non mi appartiene. La storia nasce dall’urgenza di raccontarla, e poi è quella stessa storia a portare con sé un messaggio, che ogni lettore interpreta a modo suo. A volte capita che un lettore colga una tematica che per me era solo accennata, e la senta invece fortissima. Se segui davvero la voce dei personaggi e senti l’urgenza di scrivere la storia, la tematica verrà fuori da sola, ascoltando loro.
Mi è capitato di scrivere per mille motivi, anche per rabbia. Ad esempio, quando ho scritto La bambola dagli occhi di cristallo, che è appena stato ristampato, l’ho fatto in un periodo in cui a Bologna ogni settimana c’era un caso di cronaca di violenza contro una donna. Ero terrorizzata, ma anche arrabbiata. Non potevo fare nulla, così ho scritto. Ho creato un personaggio provocatorio: una serial killer che si veste in modo provocante ma non provoca, e quando viene attaccata reagisce uccidendo. Era il mio modo per dire «c’è un’emergenza, cosa dobbiamo fare?».
Pensa che il libro è uscito per la prima volta diciannove anni fa, e la situazione purtroppo non è cambiata. Per questo ho sentito la necessità di ristamparlo. In quel caso sì, c’era una tematica nata dalla rabbia che avevo dentro. Ma, in generale, cerco sempre di partire dalla storia e dal personaggio: mi piace che la tematica emerga dopo.
Dal 2023 sei la curatrice di Dylan Dog, un traguardo importante, un ruolo che ricopri come prima donna nella storia della testata, hai introdotto già diverse novità come la presenza di nuove leve affiancate da sceneggiatori storici. Come immagini il futuro di Dylan Dog nei prossimi anni?
Quello che immagino, e che voglio fortissimamente, anche per quella lettrice che amava Dylan e che ancora oggi lo vorrebbe così, sono delle buone storie. È la prima cosa che chiedo a chi propone un soggetto: scrivere una storia che sente urgente, che ha bisogno di raccontare, non per mettere una tacca “voglio fare Dylan Dog”. Dev’essere una storia che ti chiama. Dylan vuole sangue, frattaglie. Tiziano (Sclavi, N.d.A.) ci ha insegnato proprio questo: lui ha messo tanto di sé in Dylan, e per scriverlo davvero bisogna sporcarsi le mani, sprofondare, sentire quello che si vuole raccontare.
In questo modo e cercando di portare buone storie, credo sia il piano migliore. I lettori ogni mese non sanno cosa li aspetta, ma percepiscono quell’urgenza. E lo stesso vale per i disegnatori: un’altra cosa che abbiamo fatto è stata togliere la classica griglia bonelliana, le tavole a sei vignette, per dare loro più libertà. Anche “spaccare” la griglia diventa un modo per esprimere creatività, soprattutto in un fumetto dell’orrore, che parla alla nostra parte più istintiva.
E poi ho voluto accogliere anche storie di esordienti, perché credo davvero che un autore alle prime armi possa avere una storia straordinaria da raccontare. A volte, l’unica cosa che manca è la possibilità.
Tavola di Andrea Mutti.
E curare Dylan Dog è stato come te l'aspettavi oppure ti ha sorpresa in qualche modo?
Guarda, non me l’aspettavo. È impossibile aspettarselo, perché quando arriva una cosa del genere non sei mai davvero pronto. Però, da fan, posso dire che in un certo senso lo ero da tanto tempo: ogni mese pensavo «cosa vorrei? Cosa farei io? Cosa secondo me non funziona?». Quindi, quando è arrivato il mio momento, ero già “sul pezzo”.
Avevo un’idea precisa, che poi può piacere o no, di cosa dovrebbe essere oggi Dylan Dog. Secondo me è il fumetto più moderno e contemporaneo che esista, e lo è per sua natura. Lo era già nell’86, quando Tiziano ha iniziato a scriverlo: un personaggio mai politicamente corretto, ma sempre dalla parte dei deboli, che odia le ingiustizie. Quello che ho sempre amato di Dylan è che non è un supereroe, non ha superpoteri, ma è un uomo pieno di fobie che ogni giorno cerca di mettersi alla prova. Perché nella vita reale tutti noi, anche se abbiamo paura, proviamo ad affrontarla.
Questo è ciò che volevo e cosa mi aspettavo. E se parliamo di aspettative, sapevo che mi sarei emozionata: collaborare con disegnatori e sceneggiatori che ho sempre stimato, o scrivere a Tiziano e ricevere una sua risposta: ogni volta è una meraviglia e ti insegna qualcosa, perché ha una rapidità di pensiero che ti sorprende sempre.
(Fare la curatrice N.d.A.) Non te lo puoi aspettare, ti sorprende sempre. Ci sono momenti da sogno e momenti da incubo, perché ogni mese bisogna portare in edicola il fumetto, a volte più di uno, ma è l’incubo più bello che potessi desiderare. Ed è proprio questa passione che cerco di trasmettere, mia e di tutto lo staff: lavorare con Dylan, non a Dylan.
Tavola di Nicola Mari.
C'è una domanda che nessuno ti fa mai, ma che vorresti ti venisse posta perché tocca un tema che ti tocca particolarmente?
Ce ne sarebbero sicuramente, ma non voglio chiudere con una nota triste; quindi, rispondo a una domanda sui miei gatti. I miei due gatti neri mi sono arrivati come Cagliostro, per caso: lui l’ho trovato per strada, lei l’ho adottata dal gattile, era l’ultima rimasta. Sono un po’ le mie piccole muse. Quando ho scritto l’ultimo thriller, Gli omicidi dei Tarocchi, loro erano lì.
Scrivendo narrativa di genere, s’inseriscono colpi di scena. Però sai che magari il lettore vuole saperne di più, e allora perfidamente capita di voler rallentare il ritmo, di creare attesa. Quindi inserivo una scena con i gatti. Anche nel libro ci sono due gatti, anche se non entrambi neri.
Quindi direi che la domanda sui gatti ci sta sempre bene… ma nessuno me la fa mai, e loro da casa si offendono!
Verissimo, ho anch’io una gatta a casa e anche lei sarebbe molto offesa. Allora Barbara, siamo quasi alla fine di questa intervista e ti ringrazio già adesso. Vorrei, se è possibile, farti due domande sulla figura femminile nel fumetto, perché nei prossimi mesi avremo intenzione di pubblicare un dossier a riguardo per Gli Audaci. Ci piacerebbe avere anche la tua visione. La prima domanda è: da sceneggiatrice e poi da curatrice, com’è stato lavorare in un ambiente editoriale che è ancora in gran parte maschile e in che modo questa esperienza ha influenzato la tua voce autoriale e il tuo modo di raccontare?
Quello che ho cercato di fare, anche come curatrice, quando sono entrata in Dylan Dog, è stato scoprire e valorizzare tantissimi talenti, e tantissime donne talentuose. Non perché fossero donne, ma perché erano talenti e, non so perché, erano ancora un passo indietro, ce n’erano poche, anche come disegnatrici. Così ho cercato di fare spazio a nuove voci, anche a disegnatrici che lavoravano molto in America ma non in Italia.
Credo che i pregiudizi ci siano ancora e ci siano spesso. Anche pochi anni fa, scrivendo thriller, mi sono sentita dire: «Scrivi cose terribili, ma sei una donna, dovresti scrivere rosa». E io rispondo sempre: «Io rosa manco a due anni!». Scusatemi, cioè non ha niente a che vedere con il mistero. Dimostra una certa ignoranza verso tutte le donne che hanno contribuito enormemente alla letteratura e al fumetto. Non c’è solo Agatha Christie, anche se ha fatto tantissimo.
In Italia abbiamo avuto Carolina Invernizio che a fine dell’Ottocento scriveva romanzi come Il bacio di una morta o La sepolta viva ed era soprannominata la Edgar Allan Poe italiana. La critica, per prenderla in giro, la chiamava “la casalinga di Voghera”, come a dire «ma stai a casa a lavare i piatti». Lei rispondeva con orgoglio: «È un’allegra vendetta, perché le mie lettrici sono le loro madri, le loro mogli, le loro sorelle, le loro figlie».
Io considero la Invernizio un po’ una zia e dico: facciamo sentire la nostra voce, raccontiamo le storie che abbiamo urgenza di raccontare. Non come una battaglia di genere, ma come la nostra battaglia personale, perché siamo individui, esseri umani, persone con un fuoco dentro. E se quel fuoco è raccontare storie, non ponetevi limiti: anche a costo di sbattere la testa, prendiamoci quello che è nostro! Ecco, citazione. [ride]
Grazie, ultima domanda: se potessi dare un consiglio a una ragazza che vuole lavorare nel fumetto oggi quale sarebbe?
Di coltivare l'ossessione. È un ambiente molto difficile: sia quello artistico in generale che in Italia. Quindi un po' come una sorella maggiore o una zia, come preferite voi, vi do questo consiglio, vi lascio una frase mi sono scritta nella mia postazione di lavoro, cioè “se non credete in voi stesse come potete pretendere che ci creda qualcun altro”. Credeteci, avrete tante porte in faccia, ma usate il no per riflettere, e non per cambiare per forza, per riflettere. A volte davvero qualcosa va cambiato, a volte invece dobbiamo solo crederci perché loro non ci credono abbastanza. Per dire, a me dicevano che il personaggio di Aurora fosse troppo difficile, troppo complessa, non vuole piacere, troppo antipatica. Mi avevano chiesto di cambiarlo e io ho detto no, ho aspettato anni perché fosse promosso e fosse pubblicato. Alla fine è diventato il mio best seller e adesso ha venduto tantissime copie, ci sono cinque libri della serie. Siate umili, ma credete in voi stesse: sono due cose diverse. Quindi non permettiamo che i no di qualcun altro ci condizionino. A volte bisogna solo continuare a crederci e non avere paura, non avere paura di niente, neanche dei no, neanche di noi stesse quando ci vogliamo sabotare.
Va bene, grazie mille Barbara. Sono state delle risposte incredibili e grazie per essere stata con noi.
Grazie e viva Gli Audaci!
Intervista a cura di Carlotta Bertola, realizzata durante Lucca Comics & Games 2025.
Con una carriera che spazia tra romanzi, racconti e sceneggiature per fumetti, Barbara Baraldi è diventata un punto di riferimento per gli appassionati di letteratura noir, thriller, fantasy e fumetto.
Ha iniziato la sua collaborazione con Sergio Bonelli Editore nel 2012, esordendo con la storia Il bottone di madreperla, disegnata da Paolo Mottura, per il nono Dylan Dog Color Fest. Nel 2015 ha debuttato sulla serie regolare con l'albo La mano sbagliata, illustrato da Nicola Mari.
Da allora è una delle firme di punta della testata, contribuendo con opere amate come Gli anni selvaggi (2016), Casca il mondo (2019) e Jenny (2021). A coronamento del suo percorso, nel maggio 2023, è stata nominata curatrice di Dylan Dog, assumendo un ruolo centrale nel futuro creativo della serie.
Nel corso della sua carriera, ha collaborato con la Walt Disney Company come consulente creativa, ha pubblicato graphic novel con editori indipendenti in Italia, e in Francia con l'editore Soleil. Ha pubblicato romanzi per Mondadori, Castelvecchi, Einaudi e un ciclo di guide ai misteri della città di Bologna per Newton & Compton.
[Fonte: Sergio Bonelli Editore]















