Liddell - La fanciulla e l'enigma
Il josei preraffaellita di Yoshimi Uchida indaga il sogno, le possibilità dell’uomo e le sue debolezze
Credere che Liddell di Yoshimi Uchida (Hikari Edizioni) possa essere spiegato a partire dalla trama sarebbe forse un po’ ingenuo da parte mia. È vero, le premesse della vicenda sono intriganti ma, via via che prosegue, la narrazione sfugge ai tentativi di schematizzazione tradizionale.
Il tema del sogno è una colonna portante della produzione di Uchida, cosa che si traduce anche in un’impostazione delle storie di stampo onirico. In questo manga di genere josei pubblicato per la prima volta nel 1982, l’autrice adotta un tono e un linguaggio (sia verbale che visivo) decisamente più maturi rispetto ai racconti brevi shōjo pubblicati negli anni Settanta: le atmosfere sognanti e un po’ surrealiste che si trovano ad esempio in Il vascello delle stelle (Hikari Edizioni), diventano qui contemplative ed evanescenti.
È noto che tra le ispirazioni principali di Uchida figurino i preraffaelliti, in particolare il loro epigono Edward Burne-Jones. Questo traspare soprattutto dalle posture e dall’espressività dei soggetti umani ritratti dalla sensei, frutto di uno studio attentissimo sul linguaggio del corpo: un braccio piegato, un sopracciglio corrugato, un angolo della bocca sollevato – tutto reca con sé un’implicazione emotiva perfettamente misurata.
Uchida non lesina neanche sulla raffigurazione degli spazi, sia interni che esterni, curatissimi fin nei minimi dettagli, come anche sul design degli abiti indossati dai suoi personaggi, ispirati alla moda dell’upper class anni Ottanta. Questo contribuisce a formare un piacevole senso di naturalismo rappresentativo.
Non è raro che la contromaniera dei preraffaelliti si coniughi con effetti di fotorealismo, spesso allontanando molto Liddell dalle tradizioni figurative dello shōjo e del josei, che in questi anni sono ancora popolati, per buona parte, da soggetti con grandi occhi languidi e ritratti in pose drammatiche. Siamo lontani, insomma, dall’espressività (pur piacevolmente) esasperata che avrebbe continuato a caratterizzare il fumetto giapponese di target femminile ancora per diversi anni.
Anche le soluzioni compositive sono piuttosto innovative per il genere: Uchida tenta un distacco dalle orchestrazioni barocche che avevano fatto la fortuna delle giovani promesse dello shōjo anni Settanta, e opta per uno stile più sofisticato e grafico. Non manca, tuttavia, di strizzare l’occhio alla tradizione qui e là, come quando disegna la piccola Liddell in una tempesta di petali o avvolta da una nebbiolina luminescente.
Lo stesso personaggio che dà il nome al manga, e che Uchida ritrae con sguardo melanconico e fondale cinereo sulla copertina del primo dei tre volumi e sul cofanetto che li riunisce, è veicolo di questa doppia natura. «Liddell» è infatti il cognome della Alice che ispirò il libro di Lewis Carroll, che a sua volta avrebbe contribuito a nutrire, tramite le illustrazioni di John Tenniel, l’apparato iconografico del manga shōjo. Ma «Liddell» in giapponese si legge come la translitterazione dell’inglese «riddle», cioè «enigma/mistero». Da un lato, dunque, la spensieratezza fanciullesca; dall’altro il dubbio.
In definitiva, Liddell può forse risultare un’opera fumosa e a tratti respingente, e la sua complessità un po’ artificiosa. D’altra parte, se si riescono a lasciare le redini e si accetta di immergersi nelle tavole e di ascoltare le sensazioni che la direzione di Uchida fa risuonare dentro di noi – mistero, nostalgia, dubbio, serenità, angoscia – come fossero le note di uno spartito, allora si può godere senz’altro di un capolavoro del fumetto giapponese che spesso viene trascurato o frainteso.
Alla domanda «di cosa parla?» io qui preferisco replicare con quello che mi sono chiesto la prima volta che lessi Il vascello delle stelle, e cioè: «a chi parla?».
Se l’impressione iniziale fu che il lavoro di Uchida fosse rivolto a un pubblico culturalmente lontano (le ragazze giapponesi della tarda era Shōwa, all’apice del boom economico), oggi mi chiedo cosa ci è rimasto di quelle ragazze e del loro modo di intendere il mondo.
Dalle pagine di Liddell sale una curiosità quasi positivista verso le possibilità dell’essere umano, contrastata però dalla consapevolezza che la crescita non potrà durare ancora a lungo. Erano anni, quelli, in cui in Giappone tutto sembrava raggiungibile, ma al contempo iniziava a emergere il sospetto che le piccole crepe della struttura socioeconomica stessero convergendo in un’unica, grande frattura.
Chissà, allora, che quelle ragazze non abbiano ancora qualcosa da raccontarci.
L’annoiato ereditiere Vladimir Mikhalkov torna a Chicago dopo due anni trascorsi a viaggiare per il mondo. Ad accoglierlo c’è Hugh Beiderbecke, grafico editoriale presso una prestigiosa rivista e suo ex compagno di college, il quale gli rivela che da un po’ di tempo ha iniziato a sognare in maniera ricorrente una magione vittoriana che non ha mai visto nel mondo reale. Vladimir si accorge però che, durante la notte, i segnali vitali del suo corpo s’interrompono per alcuni minuti: mentre sogna, Hugh muore. Incuriosito ma ancora preoccupato dal sogno, Vladimir decide di presentare Hugh a un suo amico e studente di psicologia, che a sua volta introduce entrambi a un circolo un po’ sopra le righe. Qui si discute di tutto, dalla filosofia del linguaggio alle questioni ambientaliste, passando per i poteri ESP. Forse incoraggiato dall’interesse mostrato dai membri del circolo nei suoi confronti, Hugh prende sempre più sul serio il sogno della misteriosa magione. Quando poi, una notte, nel giardino della tenuta scorge tra le rose una graziosa fanciulla di nome Liddell, la sua diventa una vera e propria ossessione. I confini tra sogno e realtà iniziano a sfumare.
Sarà Vladimir ad accompagnarlo nel viaggio, fisico e spirituale, alla ricerca della casa e del suo significato, mentre egli stesso dovrà fare i conti con la propria apatia e con i sentimenti inconfessati che prova per Hugh.
Credere che Liddell di Yoshimi Uchida (Hikari Edizioni) possa essere spiegato a partire dalla trama sarebbe forse un po’ ingenuo da parte mia. È vero, le premesse della vicenda sono intriganti ma, via via che prosegue, la narrazione sfugge ai tentativi di schematizzazione tradizionale.
Il tema del sogno è una colonna portante della produzione di Uchida, cosa che si traduce anche in un’impostazione delle storie di stampo onirico. In questo manga di genere josei pubblicato per la prima volta nel 1982, l’autrice adotta un tono e un linguaggio (sia verbale che visivo) decisamente più maturi rispetto ai racconti brevi shōjo pubblicati negli anni Settanta: le atmosfere sognanti e un po’ surrealiste che si trovano ad esempio in Il vascello delle stelle (Hikari Edizioni), diventano qui contemplative ed evanescenti.
Il ritmo del racconto è impartito non tanto dalla sequenza delle azioni, quanto dai pensieri dei personaggi, specie quelli di Vladimir, il quale non fa altro che interrogarsi sul senso del suo rapporto con gli altri. E se da un lato questo conferisce all’opera una marcata impronta poetica, dall’altro si nota un certo intento filosofeggiante dietro le elucubrazioni a cui la sensei dedica fin troppo spazio. La sceneggiatura è piuttosto traballante, a partire dai soliloqui e arrivando agli scambi di battute tra i membri del circolo (sugli argomenti più disparati) che occupano intere sequenze, e che non solo appaiono goffe e inconcludenti, ma finiscono per far ristagnare il flusso della narrazione.
Per poter apprezzare l’opera di Uchida è dunque necessario non soffermarsi sull’intenzione di “capirla”, ma farsi guidare dalle immagini che la compongono e dalle sensazioni che evocano, senza la pretesa di conoscerne in ogni momento le ragioni o il senso.
Per l’appunto, il significato del racconto è affidato quasi interamente al comparto visivo. In questo senso, Liddell è quasi un carme per immagini, per cui ogni disegno – dal dettaglio anatomico inquadrato in una vignetta fino alla splash page – è attraversato da un lirismo che tiene insieme l’opera come un filo nascosto.
Per poter apprezzare l’opera di Uchida è dunque necessario non soffermarsi sull’intenzione di “capirla”, ma farsi guidare dalle immagini che la compongono e dalle sensazioni che evocano, senza la pretesa di conoscerne in ogni momento le ragioni o il senso.
Per l’appunto, il significato del racconto è affidato quasi interamente al comparto visivo. In questo senso, Liddell è quasi un carme per immagini, per cui ogni disegno – dal dettaglio anatomico inquadrato in una vignetta fino alla splash page – è attraversato da un lirismo che tiene insieme l’opera come un filo nascosto.
È noto che tra le ispirazioni principali di Uchida figurino i preraffaelliti, in particolare il loro epigono Edward Burne-Jones. Questo traspare soprattutto dalle posture e dall’espressività dei soggetti umani ritratti dalla sensei, frutto di uno studio attentissimo sul linguaggio del corpo: un braccio piegato, un sopracciglio corrugato, un angolo della bocca sollevato – tutto reca con sé un’implicazione emotiva perfettamente misurata.
Uchida non lesina neanche sulla raffigurazione degli spazi, sia interni che esterni, curatissimi fin nei minimi dettagli, come anche sul design degli abiti indossati dai suoi personaggi, ispirati alla moda dell’upper class anni Ottanta. Questo contribuisce a formare un piacevole senso di naturalismo rappresentativo.
Non è raro che la contromaniera dei preraffaelliti si coniughi con effetti di fotorealismo, spesso allontanando molto Liddell dalle tradizioni figurative dello shōjo e del josei, che in questi anni sono ancora popolati, per buona parte, da soggetti con grandi occhi languidi e ritratti in pose drammatiche. Siamo lontani, insomma, dall’espressività (pur piacevolmente) esasperata che avrebbe continuato a caratterizzare il fumetto giapponese di target femminile ancora per diversi anni.
Anche le soluzioni compositive sono piuttosto innovative per il genere: Uchida tenta un distacco dalle orchestrazioni barocche che avevano fatto la fortuna delle giovani promesse dello shōjo anni Settanta, e opta per uno stile più sofisticato e grafico. Non manca, tuttavia, di strizzare l’occhio alla tradizione qui e là, come quando disegna la piccola Liddell in una tempesta di petali o avvolta da una nebbiolina luminescente.
Lo stesso personaggio che dà il nome al manga, e che Uchida ritrae con sguardo melanconico e fondale cinereo sulla copertina del primo dei tre volumi e sul cofanetto che li riunisce, è veicolo di questa doppia natura. «Liddell» è infatti il cognome della Alice che ispirò il libro di Lewis Carroll, che a sua volta avrebbe contribuito a nutrire, tramite le illustrazioni di John Tenniel, l’apparato iconografico del manga shōjo. Ma «Liddell» in giapponese si legge come la translitterazione dell’inglese «riddle», cioè «enigma/mistero». Da un lato, dunque, la spensieratezza fanciullesca; dall’altro il dubbio.
In definitiva, Liddell può forse risultare un’opera fumosa e a tratti respingente, e la sua complessità un po’ artificiosa. D’altra parte, se si riescono a lasciare le redini e si accetta di immergersi nelle tavole e di ascoltare le sensazioni che la direzione di Uchida fa risuonare dentro di noi – mistero, nostalgia, dubbio, serenità, angoscia – come fossero le note di uno spartito, allora si può godere senz’altro di un capolavoro del fumetto giapponese che spesso viene trascurato o frainteso.
Alla domanda «di cosa parla?» io qui preferisco replicare con quello che mi sono chiesto la prima volta che lessi Il vascello delle stelle, e cioè: «a chi parla?».
Se l’impressione iniziale fu che il lavoro di Uchida fosse rivolto a un pubblico culturalmente lontano (le ragazze giapponesi della tarda era Shōwa, all’apice del boom economico), oggi mi chiedo cosa ci è rimasto di quelle ragazze e del loro modo di intendere il mondo.
Dalle pagine di Liddell sale una curiosità quasi positivista verso le possibilità dell’essere umano, contrastata però dalla consapevolezza che la crescita non potrà durare ancora a lungo. Erano anni, quelli, in cui in Giappone tutto sembrava raggiungibile, ma al contempo iniziava a emergere il sospetto che le piccole crepe della struttura socioeconomica stessero convergendo in un’unica, grande frattura.
Chissà, allora, che quelle ragazze non abbiano ancora qualcosa da raccontarci.
Angelo Maria Perongini