L’estate fantasma – retrospettiva di un’infestazione

LaVerve ci riporta indietro in un’infanzia selvaggia, tra sterpi, lucertole e umane debolezze

«Si può avere nostalgia di un luogo… anche se non esiste?»

È con questa frase che LaVerve sceglie di aprire il suo L’estate fantasma (24 ORE Cultura Comics, 2024). Le parole campeggiano a margine di un paesaggio boscoso desolato, inquadrature che vanno dal panorama al dettaglio, dai pendii spazzati di detriti alla piccola fauna strisciante.

A narrare la storia è Carlo, il protagonista. Il suo dubbio/enigma/monito si offre come chiave di lettura di una retrospettiva dell’estate del 2001, quando è stato costretto (o così pare) dalla sua famiglia a frequentare il campo scuola della parrocchia.

Una volta arrivato all’ex convento che ospita la colonia estiva, la speranza di trovare la complicità dell’amico Matteo sfuma presto, e Carlo si scopre solo in un luogo, se non ostile, non certo amichevole. Sembra che la sua estate sia destinata a passare nel tedio dell’insofferenza, finché dalla finestra non nota una sagoma evanescente. Ne è sicuro: quello che ha visto è un fantasma.

La notizia si sparge in fretta e Carlo finisce nel mirino dei diabolici supervisori, i quali gli raccontano di una novizia che, tempo addietro, ha compiuto un terribile delitto tra quelle mura, e che se n’è andata da questo mondo lasciandovi un’ombra di rancore. Il fantasma che ha visto potrebbe essere il suo. Dopo averlo spaventato, i ragazzi lo espongono alla crudeltà gratuita e annoiata dei suoi compagni che è tipica di quell’età. Sarà solo in Mello, il misterioso e solitario inquilino dell’unica cameretta singola, che Carlo troverà un conforto.

La storia narrata ne L’estate fantasma all’inizio sembra quella classica di una vacanza indesiderata, ma poco alla volta diventa un racconto criptico e febbrile. Verità e inganno, menzogna e onestà: come cavalli negli scacchi, queste figure cambiano posto in configurazioni quasi imprevedibili.

Carlo potrebbe essere quello che in gergo si definisce un “narratore inaffidabile”. L’intera vicenda è filtrata dai suoi ricordi ormai sbiaditi, come dimostrano gli scarabocchi che di tanto in tanto si sostituiscono alla vignetta a mo’ di pastiche, dove la memoria lo tradisce o il carico emotivo è insostenibile. Non sappiamo se tutto quello che vediamo è accaduto esattamente come viene raccontato, se alcuni episodi non siano meramente allegorici, se non siano ricordi fabbricati a posteriori. La tavola finale, in effetti, rende quasi impossibile marcare il confine tra realtà e fantasia, che finalmente accettano di condividere lo stesso spazio.

Più loquace della sceneggiatura è però il disegno.

A colpire subito è il tipo di chiaroscuro, un tratteggio fitto e sottile che ricorda la matita, e che non serve tanto a restituire profondità ai corpi quanto a sottolinearne la valenza emotiva. Le ombre sembrano fatte di capelli o di graffi sulla carta: un’idea nervosa, di frustrazione, rinforzata dal vizio del protagonista di strapparsi a morsi le pellicine.

Anche la costruzione prospettica salta all’occhio: dapprima piatta, quasi araldica, poi goffa e infine dichiaratamente sbagliata. Il richiamo ai disegni dei bambini – la confusione tra verticale o orizzontale, le scarse doti di proiezione, le proporzioni imprecise – è evidente.

Altre scelte, invece, si raccontano più lentamente. Per esempio, la selezione di una palette di colori smunti: se inizialmente sembra evocare il languore di un’estate terrosa e secca, con lo scorrere delle pagine diventa il sintomo di un’indolenza a cui non c’è rimedio. Dal prugno pallido all’oliva, dal paglierino al talpa, e per la notte un indaco che odora di lacrime.

Il character design, infine, è la cifra più impressionante del disegno di LaVerve. Forse complice la sua esperienza da puppet maker, l’autore esplora sagome inedite per corporature e volti, ottenendo effetti ora grotteschi, ora pietosi, ora irritanti. Deformi oltre il limite della caricatura, i suoi personaggi sembrano costretti in una pena silenziosa, e si potrebbe giurare che, dietro quelle smorfie immobili, stiano in realtà gridando.

All’inizio avevo detto che l’esergo si sarebbe offerto come chiave di lettura per l’opera. Ma cosa significa avere nostalgia di un luogo che non esiste?

Appena ho letto la frase mi è venuta in mente l’idea della backroom. Le backrooms sono un fenomeno del web diffusosi tra il 2019 e il 2020: si tratta di immagini di stanze e corridoi vuoti, quasi asettici. Né davvero inventate né propriamente reali, la loro inquietante liminalità così accentuata, l’essere talmente vaghe da risultare al contempo inesistenti e onnipresenti, le rendono un oggetto concettuale dal fascino irriducibile. Secondo alcune teorie, si tratta di non-luoghi che esistono come bolle tra i veli del reale, inaccessibili con i mezzi tradizionali: per raggiungere una backroom, uno può solo “perdersi”.

Ed è proprio perdendosi, abbandonandosi al bosco e alla sorpresa dei propri sentimenti, che Carlo finirà, alla fine dell’opera in una sorta di backroom, della quale tutto il campo scuola non è che una prefigurazione – un posto che non saprebbe né potrebbe più raggiungere, e in prossimità del quale passato e ricordo, realtà e potenzialità si mescolano.

La nostalgia si sostituisce alla verità come criterio di valutazione. Ripensando a quell’estate, Carlo decide di non interrogarsi sulla natura degli avvenimenti che ricorda di aver vissuto, e li riproduce nel loro enigma. In mezzo a tutto quello squallore, le espressioni grifagne, il sudore, lo sporco, brilla infatti una dolcezza grezza a cui lui non crede di voler rinunciare.

Angelo Maria Perongini

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