Leyre, echi di sogni e rovina
Nicolò Pellizzon immagina un regno decadente in cui l’orripilante è a un battito di ciglia dal meraviglioso
Una volta, prima che i videogiochi si scaricassero sullo store online o si ordinassero su Amazon, sei uscito in auto con i tuoi genitori e insieme siete andati in un negozio di elettronica. Forse sei stato fortunato o forse il tuo compleanno si avvicinava, fatto sta che loro ti hanno comprato il gioco che volevi: quello la cui copertina ti ha stregato, oppure quello il cui titolo credi di aver sentito bisbigliare in classe. Mentre tornate a casa – sei accovacciato nel piccolo antro del sedile posteriore, aspetti che la luce del prossimo lampione torni sulla pagina, come una palpebra che batte lenta – consumi l’attesa sfogliando il libretto che hai trovato nella custodia.
Leyre (Hollow Press, 2024) è il libretto del videogioco che non hai mai giocato.
Il protagonista sei tu: ti risvegli dalle ombre della morte nella penisola di Leyre. Il regno è ormai in rovina, funestato dalla Maledizione Putrescente, il misterioso morbo che infetta i suoi abitanti corrompendone i corpi. Presto capisci che il tuo obiettivo è risalire la penisola, seguendo la Voce Santissima delle imperatrici gemelle, i cui poteri psichici tengono insieme quel poco che rimane della civiltà a Leyre. Si dice che, chiuse nel loro palazzo nella capitale, Lamirya e Naria dormano un sonno oblioso che è un incantesimo o un’illusione.
Durante la tua peregrinazione attraverserai città decadenti, udirai sussurri nei boschi, raccoglierai enigmatici manufatti, ti imbatterai in personaggi che paiono celarti una verità intima e fondamentale. Lo scopo ti sfugge, l’amarezza ti avvelena. Ma infine, il dubbio chiede uno scioglimento, e una decisione sarà presa.
L’ultima fatica di Nicolò Pellizzon s’inserisce nel filone dei cosiddetti lore game book, di cui Hollow Press è pioniera: un sottogenere del graphic novel che si ispira al libretto delle istruzioni contenuto nelle custodie dei videogiochi. Ma se quest’ultimo è un medium volatile, che può anche essere ignorato o buttato via una volta letto (come succedeva in molti casi, d’altro canto), il lore game book è un’opera fatta per restare.
Come i suoi “colleghi”, Leyre gioca direttamente con quel senso di aspettativa, lo solletica, ma lo lascia per sempre inappagato. Sappiamo che c’è dell’altro dietro queste pagine così vibranti, quasi ci si affaccia alla mente l’idea di andare su internet e cercarlo, come fosse un medium perduto – un game footage, testimonianze di chi l’ha giocato, insomma qualcosa!
Per quest’opera Pellizzon attinge a un immaginario occultista e buffonesco, tratteggiando una sorta di Rinascimento perduto in cui tutto ciò che può essere carino (come una faccina su una mela) diventa invece orrore indicibile. Gli echi di Bloodborne e Hollow Knight, videogiochi del genere souls-like, si manifestano nelle tematiche del sogno, della malattia, del sacrificio.
La storia non ha la struttura teleologica di un racconto, con un inizio e una fine. Leyre non indica un percorso: lo suggerisce, ma se interrogato non dà chiarimenti. La struttura di questo graphic novel ricorda in effetti proprio le modalità di un videogioco, con tanto di selezione dei personaggi, informazioni sugli oggetti raccolti, drastici cambi d’atmosfera all’ingresso di una nuova località.
L’ispirazione diretta sembra essere ancora quella dei souls-like sopracitati, con le loro narrazioni frammentarie. I testi sono criptici, polimorfi se vogliamo: si passa da lunghi paragrafi esplicativi a piccole note a margine, a voci introspettive che raccontano di impressioni fugaci, senza soluzione di continuità.
Quanto ai disegni, questo è un Pellizzon in particolare stato di grazia – o disgrazia, è il caso di dire – che si muove con maestria nel suo elemento.
Il tratto così pastoso e la passione per i colori caldi e sciropposi, caratteristici della sua produzione, vengono polimerizzati insieme alla grande conoscenza anatomica e al gusto esoterico. A suggellare il tutto è il suo stile narrativo ermetico, che qui scivola divinamente come una colata di metallo fuso in mezzo a cocci eterogenei, rendendoli parte di una medesima, indefinibile ma maestosa figura.
La sua visione per Leyre è un grande affresco allegorico che diventa miniatura illustrativa, che diventa ritratto commemorativo. Il tutto e la parte sono tenuti insieme dalle fibre torpide del sogno, in cui l’intuizione e il pensiero magico scorrono meglio della ragione.