ARF! Festival 2025 - Gigi Cavenago, quando lo stile trascende il medium

Gigi Cavenago ritorna con una riedizione de I racconti di domani e ci parla dei suoi ultimi viaggi tra fumetto e animazione

Nello scorso mese di maggio, Gigi Cavenago è tornato a far parlare di sé su più fronti: dalla recente riedizione de Racconti di domani, dove il suo segno in coppia con la sceneggiatura di Tiziano Sclavi ridefinisce l’immaginario onirico e inquietante dell’universo di Dylan Dog, al debutto animato dell’episodio Così Zeke ha scoperto la religione per la quarta stagione di Love, Death + Robots su Netflix.

Con il suo uso espressivo del colore in stile pittorico, tratto distintivo che ha saputo portare anche nell’animazione, Cavenago attraversa generi, media e collaborazioni mantenendo intatta la propria identità visiva. In questa intervista, realizzata dal vivo durante ARF! Festival 2025 (e disponibile anche in versione podcast su Building Stories qui), ci racconta il dietro le quinte dei suoi ultimi lavori, tra sperimentazione e ispirazioni e quell’equilibrio sottile tra autonomia creativa e lavoro di squadra.

Prima hai collaborato a Spider-Man: Across the Spider-Verse, ora hai lavorato alla quarta stagione Love, Death + Robots con l’episodio Così Zeke ha scoperto la religione. Com’è stato passare dal fumetto all’animazione? E com’è cambiato il tuo modo di lavorare passando da un team fumettistico, solitamente abbastanza ristretto, a uno d’animazione, più ampio?
Il vero passaggio rispetto al fumetto è avvenuto con questo incarico da art director. In realtà stavo lavorando nell’animazione già da un paio d’anni, ma si trattava principalmente di character design e visual development, attività abbastanza vicine al mestiere di disegnatore o illustratore: non era così distante dal realizzare copertine di Dylan Dog o studi dei personaggi. La cosa veramente strana è stata passare all’art direction. Nel caso di Love, Death + Robots richiedeva non solo che disegnassi parecchio, ma anche che intervenissi sui lavori altrui. Questo ha fatto sì che ogni giorno mi dovessi confrontare con tantissime persone, avendo sia un team europeo che un team americano. Al mattino e al pomeriggio ci coordinavamo con i colleghi europei, poi, quando cominciava ad albeggiare in America, c’era un nuovo gruppo di persone da contattare e con cui confrontarsi.

Nel fumetto c’è molta più indipendenza: lavori da solo, segui la tua visione e non devi rendere conto a nessuno, se non allo sceneggiatore o all'editore. Nell’animazione, invece, ogni scelta stilistica che non sia chiaramente definita, magari anche vagamente artistica, va difesa, giustificata e spiegata. Nel fumetto si può dire semplicemente «ho voglia di mettere il giallo lì», nell’animazione no, la scelta va giustificata dicendo, per esempio, «perché secondo me ci vuole una nota di colore», ma anche così non è detto che venga accettata. Cambia anche un altro aspetto, relativo al risultato finale: se nel fumetto un disegno non ti convince, puoi prendertela con te stesso e decidere di lavorarci fino alle tre del mattino per sistemarlo. In un team non funziona così: non puoi dire a qualcuno «non mi piace quella faccia, puoi restare sveglio fino a tardi per rifarla?».

Bisogna capire anche quali sono i margini d’intervento, quando è sensato insistere su delle modifiche e quando invece bisogna lasciar correre. Alla fine ti muovi all’interno di un gruppo che, magari, procede più lentamente, ma alla fine va molto più lontano di quanto potresti fare da solo.
In fondo, questa è un po’ la filosofia dell’animazione: si va più lenti, si scende a qualche compromesso in più, però si fa tanto di più con un team.


Riguardo l’episodio appena uscito, com’è nato il concept? Ci sono state opere o riferimenti particolari che ti hanno ispirato?
Per il corto, la sceneggiatura ci è stata imposta, non abbiamo avuto il lusso di scegliere tra due o tre script. Anzi, sospetto che fosse proprio una sceneggiatura che nessuno voleva. Già dall’inizio, quando leggi che dovrai gestire otto, anzi nove personaggi chiusi in un aereo della Seconda guerra mondiale, rispetto a una sceneggiatura con dinosauri nello spazio o situazioni più ariose (NdA: episodio 7, Il grido del tirannosauro), ti spaventa un po’. Questa è una mia ipotesi, ma secondo me ci è arrivata perché eravamo un po’ gli “sfigati” della classe. Dal punto di vista del concept, il corto si basava su due aspetti principali. Il primo era quello realistico, legato alla Seconda guerra mondiale, quindi niente di inventato: si trattava semplicemente di adattare il tutto all’animazione. All’inizio abbiamo studiato i Boeing B-17 di quel periodo e le divise, poi abbiamo semplificato tutto e l’abbiamo trasformato in uno stile simile al mio.

Il secondo aspetto, divertente, è stata la presenza di elementi sovrannaturali. C'era questo demone, in sceneggiatura chiamato il cherubino, che nel testo veniva descritto come una creatura mezzo toro, mezzo aquila, mezzo angelo e mezzo leone. Sulla carta funzionava, ma a disegnarlo era un’altra cosa. In un momento d’ispirazione ho pensato al suo nome in sceneggiatura e ho deciso di fare un mostro che si nasconde dietro a un viso angelico da cherubino. Quest’idea è piaciuta subito ed è diventata l’elemento soprannaturale principale. Il resto invece è rimasto molto ancorato al realismo della Seconda guerra mondiale, e così abbiamo messo tutto insieme.

Online c'è chi ha fatto qualche paragone con un altro mostro sacro del fumetto come Hellboy di Mike Mignola. C'è qualche influenza da quel punto di vista?
Se c’è un’influenza, non è diretta, anche se in passato ho avuto un’infatuazione che dura ancora per Mike Mignola. All’inizio cercavo proprio di disegnare come lui, volevo imitare lo stile di Hellboy senza preoccuparmi di trovarne uno mio personale. Adesso, invece, il mio stile avrà delle influenze, ma non lo vedo così radicato più in Hellboy. Il problema è che nel momento in cui ti chiedono di avere a che fare con mostri e demoni durante la Seconda guerra mondiale, chi ha reso iconico quell'immaginario è stato proprio Mignola. Me ne sono reso conto, ma ho cercato di non fare troppo il Mignola della situazione. In certe scene, quando veniva fuori un po’ di “mignolitudine”, l’ho lasciato essendo lui il migliore a fare questa cosa, anche se non era un obiettivo. Se mi avessero chiesto di farlo in stile Mignola, avrei insistito di più magari su dei neri pieni e su un approccio meno pittorico.
C’è anche il fatto che abbiamo dovuto utilizzare dei colori piatti per questioni di budget, cosa molto presente in Hellboy. Quindi, anche se non è stata una scelta voluta, ormai il DNA di Mignola è ovunque, e se il risultato sembra ispirato a lui, ne sono contento.


Sia questo episodio che molte delle opere per cui sei noto hanno forti connotazioni horror, basti pensare a Dylan Dog. Il tuo uso del colore è particolare e in qualche albo i toni sono molto accesi, cosa piuttosto inusuale per il genere. Come coniughi l’elemento cromatico con l’atmosfera orrorifica?
Questo è un problema che era già sorto quando ho dovuto affrontare Mater Dolorosa per il trentennale di Dylan Dog. Anche lì c'erano problemi a livello tecnico, perché da una parte Mater dolorosa era il seguito di Mater Morbi e Massimo Carnevale aveva fatto delle pagine a colori per un'edizione Bao ed erano molto da cinema horror anni ’90, un po’ da videoclip grunge o cose che ricordavano David Fincher. Mi piaceva molto, ma non ero sicuro che quel tipo di colorazione avrebbe funzionato bene in stampa su carta Bonelli. Avevo molta ansia all’idea di dover affrontare 90 pagine senza sapere se quei livelli di grigio sarebbero risultati troppo scuri o se avrebbero sporcato il colore. Ho pensato allora ai registi horror degli anni ’70, come Mario Bava o Dario Argento in Suspiria, che abbinavano l'horror a una colorazione molto satura e carica di colori. Ho anche rivisto la fotografia di Storaro in Apocalypse Now, con Marlon Brando che emerge da ombre nere illuminato da una luce gialla intensa. Guardando quella scena ho pensato: «Questo è nero pieno, questo è giallo pieno, non può non venire bene in stampa». C’è un contrasto così forte che, se gestito bene, può generare qualcosa di molto interessante.
Così ho affrontato il problema del colore, e da lì è nata una mia firma stilistica. Anche nelle copertine, visto che Dylan Dog stesso è un contrasto estetico vivente, rosso e nero, questa scelta ha funzionato molto bene, sia sulle copertine che sulle storie. Quando l’hanno visto quelli di Love, Death + Robots, lo hanno voluto per l'episodio.


A proposito di Dylan Dog, è appena uscita una riedizione di I Racconti di domani, il cui primo numero ti vede proprio come protagonista. Quale di quei mini-racconti ti sei divertito di più a disegnare?
A me è piaciuta molto l’introduzione, perché in quel periodo avevo voglia di ridefinire un po’ il mio stile. E quindi, quando la rivedo oggi, ci leggo quel bel fermento di scoperta.
C'è una storia che ha una scena che inizia in un cimitero con Dylan che spara agli zombie ed è così “classic Dylan” che mi ha divertito molto (NdA, Il punto di vista degli zombi).
La storia che però nell’insieme mi è piaciuta di più, anche da disegnare, è stata Hikikomori, quella del ragazzo giovane che vive con una madre ossessiva e obesa. Mi è piaciuta molto dall'inizio alla fine, anche se avrà coperto meno di una decina di pagine.

Cosa ha significato per te collaborare con Tiziano Sclavi, creatore di Dylan Dog che tornava per l’occasione a scrivere?
Ha significato tanto per me, anche perché in un’intervista di qualche anno fa, forse all’uscita di Mater Dolorosa, o anche prima, mi avevano chiesto con quale sceneggiatore avrei voluto lavorare. Avevo risposto: Tiziano Sclavi. Ma l’avevo detto con una nota di tristezza, pensando che non ci sarebbe mai stata occasione.
E invece, l’occasione è arrivata. È stato uno di quei sogni che non pensi davvero possibili, e che invece si realizzano. E alla fine, i sogni impossibili che diventano realtà sono ancora meglio di quelli che sembrano a portata di mano.


Quando lavori su una tavola, come imposti la costruzione della pagina? Il tuo approccio cambia se conosci già lo sceneggiatore oppure se è la prima volta che collaborate?
C’è da dire che buona parte della mia produzione è stata scritta da Roberto Recchioni, incluso l’ultimo crossover Batman/Dylan Dog. Con lui c’è confidenza, ma soprattutto fiducia. So che, anche se magari lui scrive “vignetta orizzontale” e io la faccio verticale, si fida del mio lavoro, perché sa che dietro c’è sempre una motivazione.
In passato mi è capitato di lavorare con persone molto più specifiche su ogni singolo dettaglio, e devo dire che è stato meno divertente. Io non disegno tanto per il gusto di disegnare: quello che mi appassiona davvero è raccontare. Magari qualcuno che in maniera troppo specifica ti dice «tizio deve stare a destra» o «quell'altro a sinistra deve alzare il braccio» ti fa passare la voglia, la fantasia e l'immaginazione perché diventi un burattino nelle mani di qualcun altro.

Visto che l'hai menzionato, secondo me è doveroso fare una piccola citazione appunto alla storia di Dylan con Batman. In questo caso hai collaborato con Werther dell'Edera e Giovanna Niro, quindi il lavoro è stato probabilmente diverso rispetto ad altre tue opere sia di Dylan Dog che per Bonelli.
Paradossalmente, quello è stato un lavoro molto più vicino all’animazione, perché c’era un vero e proprio staff. Anche su Orfani avevo già lavorato con un team e mi era capitato di avere un colorista, in quel caso c’era Lorenzo De Felici, quindi dividere i compiti non era una novità per me. Ma non mi era mai successo, su 200 pagine, di lavorare con un layout artist che fosse già un artista affermato. In quel caso ho voluto fortemente Werther: non volevo degli assistenti anonimi, ma qualcuno con una vera autorialità, anche nelle sue scelte. È stato molto bello, anche perché in un crossover così impegnativo, dove io conoscevo bene solo uno dei due personaggi, inizialmente mi ero spaventato.
Mi sembrava un binomio difficile da scrivere, anche se Roberto ha gestito il tutto benissimo trattandolo in maniera leggera e quasi giocosa, ma non ero molto convinto perché non sapevo se avrebbe funzionato. Quando invece Werther ha detto sì, il mio entusiasmo è salito ed ero curioso di vedere cosa sarebbe venuto fuori. Poi Werther ha accettato e l’entusiasmo è salito. Ero davvero curioso di vedere cosa sarebbe venuto fuori. Alla fine, è stato un po’ come lavorare nell’animazione: ci siamo divisi i compiti. Lo storytelling, che è completamente diverso tra Batman e Dylan, l’ha curato lui. Io magari ho modificato qua e là due o tre cose per avvicinarlo al mio stile, ma la narrazione per immagini era la sua. A un certo punto, per dare un’accelerata al progetto (che poi comunque è uscito molto tempo dopo), è subentrata anche Giovanna Niro. Con lei volevamo già collaborare dai tempi di Orfani, ma per questioni logistiche non era mai successo. È stato uno di quei casi in cui io potevo davvero concentrarmi solo su un aspetto, con la sicurezza che chi si occupava dei layout e dei colori avrebbe fatto un ottimo lavoro. E quando c’è quella fiducia, diventa un vero lavoro di squadra: ti senti appagato, rilassato, perché sai che sei in buone mani.


Parliamo di The Magic Order: come è nata la collaborazione con Mark Millar?
Il giorno del mio compleanno, anche se lui non lo sapeva, Mark Millar mi chiese l’amicizia su Facebook. Dopo aver controllato che fosse davvero il suo profilo, mi scrive dicendomi che era un mio fan e che gli sarebbe piaciuto collaborare. Non era la prima volta che un nome grosso mi seguiva: per dire, Robert Kirkman lo conosco da più tempo, ma non siamo ancora partiti con nulla. Quindi non davo per scontato che da Millar sarebbe arrivata subito una proposta concreta. E invece sì Il problema è che in quel momento avevo appena iniziato a lavorare su Batman/Dylan Dog, ed ero restio a lasciare il progetto. C’è stato un attimo in cui ho pensato seriamente di svincolarmi per Millar, ma alla fine ho dovuto rimandare.
È passato circa un anno. Millar, che intanto aveva quasi chiuso tutti i suoi progetti, mi scrive di nuovo:
«Vuoi salire a bordo dell’ultimo treno possibile?»
E io ho risposto:
«Salto a bordo».
Quel treno era The Magic Order vol. 3.


Mercato italiano e mercato americano possono essere molto diversi: quali sono secondo te i punti di forza e i punti di debolezza di entrambi? In quali presenti a più a tuo agio a lavorare?
I punti di forza e di debolezza dei due mercati, quello italiano e quello americano, quasi si incastrano.
Uno dei punti di forza della Bonelli, ad esempio, è il livello di controllo che esercita sui suoi fumetti. Ai disegnatori non viene lasciata troppa libertà su certi aspetti: se una scena risulta poco leggibile, o se ci sono proporzioni sbagliate, te lo fanno notare. A volte anche in modo insistente o duro. Ma questo tipo di attenzione, soprattutto all’inizio, può davvero aiutare a migliorare: ti fa rendere conto dei tuoi vizi di forma o stilistici e ti permette di crescere.
Il mercato americano, al contrario, ha come punto di forza proprio l’opposto: ti lascia completamente la responsabilità del disegno. A meno che tu non faccia errori clamorosi, nessuno interviene e se hai già fatto la tua gavetta, è una pacchia.
Millar, per esempio, non mi ha corretto praticamente nulla, a parte il colore dei capelli di un personaggio, che doveva essere leggermente più scuro. Per il resto, il suo approccio è stato:
«Questa è la sceneggiatura. Fallo al meglio e rendilo fighissimo».
Mi rendo conto che sembra quasi una contraddizione: il punto di forza del mercato americano è il punto debole di quello italiano, e viceversa. Ma continuo a pensare che la gavetta in Bonelli renda davvero solidi come disegnatori.

Puoi rivelarci qualcosa su ciò a cui stai lavorando al momento?
Posso solo dire di star lavorando a Spider-Man: Beyond the Spider-Verse, fin dalle fasi iniziali di lavoro. Con Across the Spider-Verse, invece, eravamo stati coinvolti circa un mese prima dell’uscita al cinema, quindi in quel caso abbiamo fatto un po’ da “tappabuchi”.
Questa volta, invece, mi hanno chiamato in preproduzione: l’obiettivo è immaginare scene, proporre idee... ed è davvero stimolante, perché il lavoro è molto libero e il team è apertissimo a suggerimenti e proposte. Non si tratta solo di disegnare, ma è qualcosa di molto più vicino alla regia. Se, per dire, penso che un personaggio possa muoversi in un certo modo perché la location lo permette, quell’idea viene presa in considerazione. Poi magari viene accettata, oppure no. A volte chiedono anche di andare oltre, di spingere ancora di più, e a me questa cosa piace tantissimo: non mi limito a eseguire, ma posso davvero contribuire facendomi venire delle idee. In questo momento non mi interessa nemmeno troppo se poi arriveranno sane e salve al prodotto finale o no, perché è una cosa per me molto nuova e liberatoria.
Forse, se devo trovare un difetto nel secondo Spider-Verse, è che c’era davvero tantissima carne al fuoco. Hanno dato spazio a così tante idee, anche perché sono molto incoraggianti nel raccoglierle da chiunque, che forse si sono fatti un po’ prendere la mano. Però questo approccio per me è bellissimo: se chiedono delle idee, io gliele dico tutte.


Sia Love Death + Robots che i minuti che abbiamo visto finora in Spider-Verse rispecchiano il tuo stile ed è una cosa che accade raramente nel mondo dell'animazione. Com’è stato possibile secondo te in questi casi?
Nel caso di Love, Death + Robots è stato possibile realizzare qualcosa di così particolare perché si trattava di un corto di 12 minuti, con un budget piuttosto alto, almeno da quello che mi è stato detto, perché personalmente ho ancora poca esperienza nel settore. Adesso, però, mi stanno arrivando proposte per fare delle serie animate in quasi il doppio del tempo, ti viene richiesto di fare dieci volte tanto.
Mi sto rendendo conto adesso che l’obiettivo di quel corto era proprio di portare sullo schermo lo stile che si vedeva nei miei fumetti.
L’idea iniziale era dello studio Titmouse, che ha poi fatto la proposta a Blur, lo studio dietro a Love, Death + Robots. La proposta era chiara: «Se date il progetto a noi, lo realizzeremo con quello stile lì». E quindi gran parte dell’impegno, per tutti quelli coinvolti, è stato proprio cercare di allinearsi il più possibile al mio tratto fumettistico.

Non so se in futuro ci sarà ancora questa necessità, magari se faremo un altro corto per la stessa serie costruiremo a partire da quello che abbiamo già fatto, ma in altri progetti non è detto che sia possibile. Il motivo per cui non vediamo così tanti stili diversi è perché lo devi volere fortissimamente. Di solito, i disegnatori, i background artist, gli animatori e i layout artist sono abituati ad adattarsi a degli stili già esistenti però non è un caso se là fuori ci siano così tanti stili che si somigliano. Ci sono diverse correnti stilistiche, per cui se qualcuno ha lavorato a una serie realistica, magari poi adatta il suo realismo a un'altra serie simile, se invece disegna in stile anime, allora saprà adattarsi a diversi anime. Lo stesso vale per lo stile classico americano che si può vedere in Invincible e molte produzioni americane. Così diventano interscambiabili.
Tutti gli animatori che hanno lavorato al progetto, per fortuna, sono stati entusiasti del risultato finale, dicevano che era una ventata d’aria fresca. Quando è uscito, in tanti mi hanno scritto: per favore, continua a fare cose così. È stato un po’ come creare un prototipo, come partire da zero. Se avessimo fatto qualcosa con uno stile più simile a ciò che si vede già in giro non avrebbe avuto lo stesso impatto.

Certo, va detto che circostanze come questa sono nolto rare. Per esempio, anche quelli di Spider-Verse mi hanno dato modelli ben precisi da seguire: lo stile del fumetto anni ’50, quello degli anni ’70… Non mi è stato chiesto il mio stile personale. Vedremo se da cosa nasce cosa, o se sarà stato solo un caso isolato.

Certo. Grazie ancora Gigi per questo dialogo.

Intervista di Carlotta Bertola
(con Giuseppe Lamola)


Gigi Cavenago

Gigi Cavenago, classe 1982, dopo vari esperienze come illustratore e fumettista entra nel 2008 nella scuderia Bonelli disegnando Cassidy e proseguendo su Orfani. Nel 2014 è copertinista per la serie Maxi Dylan Dog – Old Boy e vince il Boscarato e il Gran Guinigi come miglior disegnatore. Con Mater Dolorosa, numero celebrativo per i trentennale di Dylan Dog, vince il Micheluzzi come miglior disegnatore e diventa copertinista ufficiale della serie regolare dell’Indagatore dell’Incubo. Oltre al fumetto, è concept artist per Cross Productions e Netflix. Illustra il primo volume de I Racconti di Domani su sceneggiatura di Tiziano Sclavi e realizza la miniserie Batman/Dylan Dog edita da Sergio Bonelli Editore e DC Comics. Nel 2023, fa il suo esordio nel mondo dell’animazione, lavorando per il film Spider-Man: Across the Spider-Verse, e nel 2025 cura l’Art Direction di un episodio della premiata serie animata Love, Death & Robots per Netflix.

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