Verderame: il crudo collage di una decadente post-provincia

Il visionario racconto degli ultimi scampoli di umanità impresso su carta da Marco Taddei e Samuele Canestrari


Difficile assegnare un genere narrativo preciso e insindacabilmente calzante a un'opera come Verderame, il nuovo, eccezionale tassello del percorso indie di Sputnik Press firmato da Marco Taddei e Samuele Canestrari. Certo, ambientarlo in un bar-trattoria chiamato Neuromante (o meglio, farne lo scenario della cornice narrativa che fa da sfondo alle tante piccole storie narrate) potrebbe essere un indizio della volontà di realizzare un cyberpunk contemporaneo: la citazione rivelerebbe così la natura di un ipotetico cammino sulle orme di William Gibson. Eppure qui gli autori puntano altrove, tanto da non farsi recintare da una semplice rievocazione di stilemi già noti.



L'avevano già fatto con Il Battesimo del Porco (edito da MalEdizioni nel 2020), a ben pensarci, di evadere abilmente dai paletti asfissianti della definibilità: un fumetto breve quanto intenso, con atmosfere horror e un impianto thriller, ambientato in un paesino che sembrava essere figlio degli incubi di Lovecraft (a onor di cronaca successivamente indagati in maniera più approfondita dallo stesso Taddei in HPL - Una vita di Lovecraft), se non fosse stato così aderente agli ancestrali e inossidabili vizi della provincia italiana, oltre a indagare sulla religione e sulla religiosità, su ciò che è immutabile e su ciò che va oltre le ipocrisie di uno sguardo superficiale. Difficile da riassumere e ancor più complesso da inquadrare.

Con Verderame (dove, invece di poche pagine, di tavole a disposizione ne hanno più di 200) Taddei e Canestrari hanno deciso di non fare sconti e di andare oltre: è una storia che rifiuta qualsiasi compromesso, qualunque tentativo di redenzione attraverso l'ironia o dei piccoli sprazzi di luce (quindi distanziandosi dal Taddei di Anubi o dell'ancor più grottesca Quarta guerra mondiale). Sembrano esserci solo le tenebre di una provincia dove la notizia della fine del mondo non è ancora giunta, quasi come se vivere in periferia fosse stato preso alla lettera anche da qualunque accidente mortale abbia deciso di porre fine all'umanità. Così, a degli esseri fratricidi e miserabili, tremendamente incapaci di coalizzarsi per prevenire l'imminente e distruttiva catastrofe, è capitato qualcosa che non ci viene specificato e che non è interesse dei narratori mostrarci. E a chi rimane non resta altro che darsi al ricordo dei bei tempi andati, letteralmente. Cosa che, in Verderame, coincide con la connessione a una realtà virtuale poco fantascientifica e molto polverosa attraverso dei visori, mentre sono al bar a bere, bofonchiare insulti e sputare disprezzo.


Inutile e forse superfluo sottolineare quanto del nostro presente si sia riversato tra queste pagine e in particolare nelle scene da bar, dove la nostalgia e l'incapacità di comprendere l'altro (e di accettarlo per quello che è) la fanno da padrona. Certo, sembra davvero un futuro anteriore, per via dei visori tecnologici e dell'aspetto dei personaggi (creature alle quali manca qualcosa e che rappresentano anche esteriormente il loro essere sopravvissute a qualcosa), ma ciò che riverbera nelle nostre orecchie, il filo conduttore della narrazione enigmatica e cinica su questo bizzarro consorzio umano, è il loro aggrovigliarsi tra le macerie di un mondo decaduto ed incapace di gettarsi nel futuro in cui già vive. Il che, a ben guardare, ci dice tanto di noi (forse persino troppo, per chi non è disposto a lasciarsi guidare in questo abisso).

L'altro indubbio filo conduttore è il cane del titolo. Come ne Il battesimo del porco, anche qui la zoologia ci regala dettagli rivelatori, laddove in questo mondo futuristico post-provinciale l'ultimo cane randagio sulla Terra, rinsecchito e rimasto senza padrone, porta il nome di un fungicida molto usato contro i funghi parassiti e sembra in effetti rimestare nel torbido di un'umanità che vive nei rifiuti e che sembra vivere costantemente alle spese di qualcun altro.

Va detto che parte della riuscita di questa storia risiede nel suo essere sghemba, sgangherabile, composta di brevi frammenti di storie, piccole incisive visioni, lampi improvvisi che deviano dal percorso tracciato fino a quel momento e che acquistano il loro pieno valore artistico quando vengono raggruppate e considerate nel loro insieme. E un ulteriore valore viene aggiunto dai silenzi, da tavole ricche di assenza di dialoghi, passaggi densi, da assaporare.

Come tutti i lavori che possiedono una buona dose di ermetismo, Verderame si apre poi a numerose e spesso illuminanti interpretazioni che portano a ulteriori considerazioni. Ad esempio l'uomo che scava la fossa e poco dopo si suicida (non è uno spoiler: succede nelle primissime pagine) è forse un simbolo dell'umanità che sa bene come scavarsi la fossa da sola? E l'ufficiale scientifico alieno che osserva queste forme di vita antropomorfe vivere dentro formicai è una forma di divinità a cui poco importa di questo microscopico mondo alla fine dei suoi giorni?


Sicuramente quest'ultimo punto, quello legato alla teologia, si ricollega a tutta una serie di riflessioni di Taddei già portate avanti ad esempio neigià citati Anubi e Il battesimo del porco, perché questa è una storia in cui il rapporto con il divino assume un ruolo rilevante: che senso può avere continuare a credere mentre il mondo intorno è in macerie? Hanno ancora davvero senso le parole "fede" e "speranza"? Così, qui compare anche ciò che resta della religione e della chiesa (gli ultimi preti, persino un pontefice), ma anche una santa (o meglio, "sanda") e un'originale reinterpretazione delle interpretazioni di Sant'Antonio.

Non a caso viene in mente anche Hieronymus Bosch, insieme a tutta una serie di pittori fiamminghi, ed è inevitabile passare a ragionare sul lavoro incredibile di Samuele Canestrari: le sue tavole meriterebbero un saggio, o quanto meno delle note a margine per ogni scena, ogni pagina, ogni oscura e visionaria intuizione visiva. Canestrari coniuga abilmente varie suggestioni artistiche in un unicum: nei suoi neri c'è tutto il nero del cinema d'autore anni 50 e 60, nelle pose c'è tutta l'arte pittorica che ha forgiato il suo stile da illustratore. 

Dal nero carbone che fa da contorno alle vignette Canestrari estrae, con approccio da minatore, delle piccole incisioni su carta, dando vita a creature perfettamente imperfette. Intaglia figure sghembe scavando nei più reconditi anfratti delle loro anime. In queste tavole la sua cura maniacale per il dettaglio s'infrange con l'evidente intento di raccontare la decadenza: affascinanti i segni di scotch su alcune pagine, pienamente inseriti nella poetica del racconto, fatta di figure ricomposte e a pezzi. Per lui le anatomie decadenti non sono una novità (leggete l'eccezionale Un corpo smembrato, su testi di Luigi Filippelli per Eris Edizioni, per farvene un'idea precisa), ma qui porta evidentemente la sua arte verso nuove vette espressive.


Tornando al quesito iniziale (per quanto si possa concordare che le definizioni lasciano sempre e comunque il tempo che trovano), resta da capire come provare a decifare in termini di genere narrativo questa storia, intrisa della drammaticità di un film di Pasolini, ma senza tralasciare il grottesco e il surreale, oltre a stranianti elementi sci-fi.
Come suggerisce Andrea Bruno nella postfazione, potremmo forse definirla "fantascienza rurale", dove, per una volta, non è tanto la megalopoli a rappresentare lo scenario del futuro dell'umanità ma una concreta, desolante e marginale vita ai margini, tra case immerse nel nulla e bar dove raccogliere (letteralmente) gli ultimi scampoli di (cosiddetta) umanità.

Giuseppe Lamola

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