I fumetti? Una magnifica illusione

Alessandro Tota ci catapulta nella New York degli anni ‘30, vista attraverso gli occhi di una giovane sceneggiatrice di fumetti

In una delle tante fattorie del Kansas vive una giovane donna, Diana Morgan, che proprio non ne vuole sapere di portare avanti le tradizioni di famiglia. Legge in gran segreto Spicy Detective e ha un sogno: diventare una scrittrice. Per farlo non può di certo rimanere nel Kansas. Bisogna scappare, e così fa. La destinazione? New York, naturalmente!

La Grande Mela sembra il luogo perfetto per raggiungere i propri sogni. Per farlo, però, bisogna ricominciare da capo, dare un taglio netto al passato, andare oltre. Diana Morgan diventa così Roberta Miller. Una nuova identità, a simboleggiare che ciò che si era, ormai, non conta più nulla. La realtà, purtroppo per la nostra protagonista, si rivelerà essere decisamente meno accogliente di quanto si sarebbe aspettata. Intrappolata nel vortice della città che non dorme mai, Roberta proverà a destreggiarsi, come meglio può, tra attivismo comunista, l’ardente desiderio di scrivere romanzi polizieschi e la scoperta della sua omosessualità. A complicare ulteriormente le cose l’incontro col mondo del fumetto, che stava per vivere quella che, a tutti gli effetti, si può definire come la sua più grande rivoluzione.

Gli anni ’30 sono particolarmente movimentati: la Grande Depressione, la fine del proibizionismo, le avvisaglie della seconda guerra mondiale, che sta per arrivare e travolgere tutto e tutti. Anche per l’arte è un momento particolarmente turbolento. Parlando solo di cinema, le major si trovano a fronteggiare non solo la crisi del ’29 e il New Deal, ma anche l’avvento del sonoro. Un decennio pieno di cambiamenti radicali e di metamorfosi, tra i quali dobbiamo annoverare, anche se spesso viene dimenticato, la vera e propria strutturazione di un settore emergente: quello del fumetto.

Siamo infatti agli inizi di quella che passerà alla storia della nona arte come la Golden Age, un periodo durato indicativamente dagli anni ‘30 fino ai primi anni ‘50 nel quale i fumetti godettero di un incremento notevole di popolarità. Nasce in questi anni (1938), con il debutto di Superman in Action Comics n°1, l’archetipo del supereroe per come lo conosciamo oggi. Una vera e propria rivoluzione, di cui Roberta Miller, con il suo Dogman, pubblicato sotto lo pseudonimo di Bob Smoke (siamo negli anni ’30, la lotta per l’emancipazione femminile era solo agli inizi), sarà compartecipe. Diana Morgan, Roberta Miller, Bob Smoke: tre nomi, un’unica anima. Ad accompagnarla il disegnatore Frank Botty, pseudonimo di Frank Battarelli, pittore fallito ”ridotto” a disegnare fumetti.

Proprio da quest’ultimo, o meglio dalla parola “ridotto”, si può partire per analizzare La magnifica illusione. New York 1938. Nel suo graphic novel, Alessandro Tota, seppur in maniera sgargiante e intrattenente (ci torneremo più avanti sullo stile), è lapidario nel descrivere la situazione in cui molti (se non praticamente tutti) fumettisti si trovarono a lavorare.

Nel corso del fumetto incontriamo Bob Kane (il co-creatore di Batman), vediamo Roberta tenere tra le mani il primo numero di Action Comics e lavorare nel giornale comunista The Rise of the Masses, che ovviamente rappresenta il giornale marxista statunitense The New Masses, pubblicato tra il 1926 e il 1948. Donny, l'editore mafioso di Dogman, può essere visto quasi come un alter ego di Harry Donenfeld, proprietario della DC Comics dal 1937 al 1965. Il pittore armeno Mougouch invece richiama palesemente la figura di Arshile Gorky, esponente di spicco dell'espressionismo astratto. Fin dalle prime battute è evidente il profondo lavoro di ricostruzione fatto dall’autore, che ha sicuramente attinto alle numerose biografie, così come alle testimonianze di Joe Simon (co-creatore di Capitan America insieme con Jack Kirby) e Jules Feiffer, a opere importanti come il romanzo Le straordinarie avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon, e il saggio Maledetti Fumetti! di David Hajdu.

Il tutto con lo scopo di raccontare, senza filtri, un mondo fatto di editori spietati, spesso invischiati con la malavita, e di fumettisti e vignettisti tanto spremuti dal sistema quanto derisi e disprezzati dal resto del mondo artistico, al punto da doversi nascondere dietro pseudonimi per non farsi riconoscere. Un mondo privo di regole, quello del fumetto, tenuto in piedi da centinaia e centinaia di artisti che, provenendo dalle classi più disagiate, avrebbero accettato qualsiasi condizione di lavoro, dai bassi stipendi alla perdita totale dei diritti sulle opere. Fare fumetti, dopotutto, per loro era l’unico modo di vivere attraverso il disegno, di continuare a sognare nell’attesa che le cose potessero migliorare, magari proprio grazie a quella rivoluzione sociale di stampo marxista che, però, come anche il fumetto racconta, negli Stati Uniti proprio non sembrava attecchire.

Un mondo destinato a crollare nel 1954 con la creazione del CCA, il Comics Code Authority, un organo di censura la cui attività finì per portare alla bancarotta molti editori. Il fumetto si rivelò essere solo una magnifica illusione, ma non di certo l’unica. Di magnifiche illusioni, nel graphic novel di Tota, ne incontriamo tante, a partire dalla città di New York, con le sue contraddizioni e storture, simbolo di un paese sempre in bilico tra grandezza e declino, tra il sogno americano e la sopravvivenza quotidiana.

Per dare forma a quanto appena descritto, Tota realizza un fumetto che non esita a strizzare l’occhio tanto alla bande dessinée quanto ai codici estetici della Golden Age. Il tutto sempre mantenendo un’impronta fortemente personale. Il fumettista barese si diverte, osa. Non si pone alcun limite nel giocare con i colori, così come con le vignette. In questo modo, il racconto realista lascia spesso spazio al sogno, all’immaginazione, al delirio, alla psichedelia, con i personaggi creati da Roberta che non di rado prendono le redini della narrazione. A dirla tutta, sono proprio loro ad aprire il graphic novel. Nella scena iniziale li vediamo soccorrere la protagonista stordita da un poliziotto durante una manifestazione. Si parte da qui, con Roberta che, in una specie di delirio, viene accompagnata dai suoi stessi personaggi alla riscoperta del proprio passato.

Un lavoro immenso, meticoloso, ricercato, che supporta perfettamente una narrazione dinamica, capace di coniugare intrattenimento, divertimento e informazione, il cui gusto rimanda inevitabilmente al cinema classico hollywoodiano, in particolare al noir, visto l’abbondante utilizzo della voce narrante fuori campo (così come del fumo come elemento di scena).

La Magnifica Illusione però, non è solo questo. È anche, se non soprattutto, un sentito omaggio a quegli artisti che hanno fatto la storia della nona arte. Artisti che, di fatto, sono praticamente tutti immigrati, nella stragrande maggioranza europei di origine ebraica. Lo sono i creatori di Superman, Joe Shuster e Jerry Siegel, così come quello di Batman, Bob Kane. Lo sono leggende come Jack Kirby e Will Eisner. Anche volando in Francia le cose non cambiano: René Goscinny e Albert Uderzo, i creatori di Asterix, sono un ebreo di origine polacca e un cattolico italiano. Roberta stessa, per quanto sia americana, è una contadina del Kansas emigrata a New York, mentre Frank Battarelli, il suo disegnatore, è di origini italiane.

Il fatto che personaggi assurti a vere e proprie divinità, ma soprattutto simboli di una nazione, siano nati dalle menti di immigrati potrebbe, e dovrebbe, far riflettere. Un concetto, questo, che Tota racconta benissimo, sia attraverso i personaggi che ciò che dicono. Il fumetto nasce come arte proletaria, bassa, fatta dal popolo per il popolo. Per questo non deve stupire che gli stessi fumettisti non prendessero sul serio il loro lavoro. Oggi, fortunatamente, le cose sono cambiate.

Ciò che resta, dopo questo primo volume (dal titolo New York 1938), è la promessa di un’opera tanto grande quanto ambiziosa. Non vediamo l’ora di conoscere il seguito.

Andrea Martinelli


Post più popolari