Goodbye, Eri - Il falso documentario di Tatsuki Fujimoto
L'autore di Chainsaw Man ci porta tra fumetto e cinema, tra realtà e finzione
La mamma vuole che tu la riprenda fino al suo ultimo respiro.»
È il compleanno di Yuta e, per i suoi dodici anni, i genitori gli regalano uno smartphone. Il bambino inizia subito a girare un video, quando sua madre lo interrompe per fargli una richiesta: la donna morirà a breve a causa di una malattia e vuole che suo figlio la riprenda con il suo nuovo telefono, in modo che, quando non ci sarà più, potrà riguardare le registrazioni e ricordarsi di lei.
Yuta prende molto seriamente il suo incarico, ma il giorno in cui si reca in ospedale per riprendere gli ultimi istanti della vita di sua madre, il ragazzo non riesce ad accettare la realtà e scappa via.
Poco dopo, l’ospedale esplode alle sue spalle.
Scopriamo, a questo punto, che stavamo guardando il film girato da Yuta, che, dopo la morte della madre, ha montato tutti i video fatti col cellulare in un corto di venti minuti per proiettarlo durante festival scolastico.
Il film è un flop totale. Tutti gli studenti si prendono gioco di lui. Yuta decide di suicidarsi. Torna nell’ospedale dove era ricoverata sua madre e sale sul tetto dell’edificio. Ed è qui che incontra una ragazza di nome Eri.
Tatsuki Fujimoto è un nome ormai iconico nel panorama del manga per ragazzi, grazie alla sua opera più famosa: Chainsaw Man.
Con il suo manga, questo autore ha compiuto quella che potremmo definire una piccola rivoluzione, introducendo elementi di novità in un format che era rimasto praticamente immutato dagli anni Novanta.
Se prima di Chainsaw Man i punti di riferimento nel settore erano Dragonball e Le bizzarre avventure di Jojo, da qualche anno gli editori di Shueisha hanno cominciato a dare spazio a opere che affondano le loro radici in una nuova fonte d'ispirazione: il cinema internazionale.
In questo, Fujimoto è riuscito, nel 2019, a realizzare ciò che Hirohiko Araki, autore di Jojo, aveva tentato negli anni Settanta, senza grande successo.
Non è un caso che negli ultimi anni sulle riviste giapponesi edite da Shueisha sono apparse serie come Shibatarian, Tenmaku cinema, Sakamoto days, Kunigei e altre che, in maniera più o meno diretta e con un discreto successo, fanno entrare il cinema nel fumetto giapponese per ragazzi.
Goodbye, Eri prende tutto l’amore di Fujimoto per la settima arte e lo fa diventare il suo centro stilistico e narrativo.
Il volume ha un’impostazione molto precisa, in netto contrasto con la tipica gabbia della tavola manga. Tutte le pagine, tolte sporadiche eccezioni, hanno la stessa struttura: quattro vignette doppie orizzontali, spaziando da long take che durano anche più di tre pagine, a montaggi serrati che ci trasportano attraverso settimane o mesi in una sola tavola.
La scelta non è casuale. Tutto quello che viene riportato sulla pagina è ciò che Yuta sta riprendendo con il suo telefono; stiamo vivendo la vicenda da dietro uno schermo e la stiamo vedendo attraverso la lente di una videocamera, al punto che alcune delle vignette risultano sfocate a causa di movimenti improvvisi.
Una soluzione narrativa che si rifà chiaramente al falso documentario cinematografico e, proprio come accade sul grande schermo, la costanza con cui questo schema viene rispettato porta alla progressiva scomparsa del confine che separa realtà e finzione.
Se all’inizio sarà intuitivo capire cosa accade nella realtà e cosa fa parte del film di Yuta, proseguendo nella lettura la distinzione tra realtà vera e realtà filmica risulterà sempre meno chiara.
Yuta, suo padre ed Eri diventano attori all’interno di un film che racconta gli stessi eventi che abbiamo visto accadere nella realtà; un’opera che mostra il percorso di Yuta dopo il fallimento del suo primo cortometraggio, fino alla proiezione, un anno dopo, del suo secondo film, il quale contiene alcune sequenze che credevamo fossero reali, ma che ora sono parte della finzione. O forse lo sono sempre state e non ce ne siamo accorti.
Di tutto ciò che stiamo leggendo, cosa è reale e cosa non lo è?
Mentre mescola queste due realtà, Fujimoto ci presenta un secondo tema, intrinseco a quello affrontato fino a quel punto: la narrazione.
Non sappiamo fino a che punto ciò che vediamo sia reale o meno, ma tutto ciò che è finzione non solo è filtrato da uno schermo, ma è anche piegato alla volontà di Yuta che, in qualità di regista, sceglie cosa trasmettere al suo pubblico.
Più andiamo avanti nel racconto, più veniamo a conoscenza di informazioni di cui siamo stati tenuti all’oscuro. Solo dopo che siamo usciti dalla realtà filmica, abbiamo accesso a informazioni non filtrate da Yuta, che rendono sempre più evidente la distanza tra ciò che è reale e quello che il giovane regista ha rappresentato nel suo film.
D’altra parte, è proprio questo il compito di un artista: manovrare tutti gli strumenti a sua disposizione per creare un’opera che rispecchi la sua visione.
Ed è proprio quello che fa Fujimoto.
Come tutte le opere precedenti dell’autore, Goodbye, Eri non è solo una storia, ma un vero e proprio processo di introspezione e un mezzo per veicolare un messaggio ben preciso ai suoi lettori.
Ciò che Fujimoto desidera è raccontare una storia basata sulla quotidianità, che vada ad esplorare il microcosmo dei suoi personaggi con “un pizzico di fantasy”, consapevole che non è ciò che il pubblico si aspetta da lui, come mostrerà lui stesso in Just listen to the song.
Così Goodbye, Eri diventa un modo per raccogliere la determinazione necessaria per andare avanti, ricordando gli inizi della sua carriera, quando era un ragazzo inesperto che si lanciava nel mondo editoriale dei manga, i suoi primi insuccessi, ma anche le persone che lo hanno supportato, fino a diventare l’autore affermato che è oggi.
Etalune