Okinawa: l'inno alla normalità di Susumu Higa
Nessun uomo è un’isola, ma le isole esistono e sono abitate da uomini. Esistono delle differenze fra isolani e continentali, non ci sono dubbi. Che siano siciliani, sardi, inglesi o fijiani, i popoli delle isole si distinguono da tutti gli altri. L’isola è una condizione fisica che si ripercuote indubbiamente sulla condizione mentale, crea inevitabilmente un rapporto fra noi, isolani circondati dal mare, e loro, i continentali, che non si distinguono fra di loro perché sono tutti sulla stessa zolla di terra e quella zolla è troppo grande. Non è un caso se i grandi studiosi di antropologia hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le isole, per le culture che nascono e si sviluppano in questa particolare condizione.
Le isole del sud del Giappone sono un esempio estremo di “cultura isolana”. Per tutta la storia del Giappone, infatti, le isole del Sud hanno rappresentato un’eccezione particolare: fin dalle guerre fra Shogunato e Impero, le isole del Sud hanno dimostrato un forte istinto indipendentista, oltre a porre una stenua resistenza.
Okinawa di Susumu Higa racconta della resistenza che i giapponesi posero durante la seconda guerra mondiale proprio nell’arcipelago intorno ad Okinawa. L’isola infatti, essendo punto strategico fra Taiwan, la Cina, la Corea, e l’isola centrale dell’arcipelago giapponese, fu scenario di alcune fra le battaglie più sanguinose della seconda guerra mondiale. Ad aggiungersi al dramma la mentalità dell’esercito giapponese che di fronte alla sconfitta non si arrese per lungo tempo, ripiegando ed arroccandosi nelle isolette dell’arcipelago anche dopo la resa del governo giapponese.
Ma Okinawa è anzitutto una narrazione della vita dei civili, la storia di un popolo che cerca di difendere la propria casa da qualcosa di troppo grande, incastrati come in una morsa fra i militari americani e i militari giapponesi.
Susumu Higa non si limita a questo. La narrazione va oltre la guerra e racconta dell’occupazione americana andata avanti fino al 1996, tenendo lo sguardo ostinatamente sulla vita delle persone comuni. Okinawa sembra essere una grande raccolta delle loro storie e di come la seconda guerra mondiale non sia mai finita per quasi un secolo, in un modo o nell’altro. I cadaveri escono dalla terra, i soldati americani sono sempre presenti e si integrano alla società giapponese, qualcuno fa affari con loro, e altri gli osteggiano fino alla fine, ma la maggior parte delle persone prova semplicemente a vivere una vita normale.
Okinawa è una cronaca e allo stesso tempo un racconto delicatissimo, un corollario di vite che analizza, ancor prima che l’eccezione che lo stato di guerra comporta, la normalità dell’uomo della strada, che ha una sua storia, un suo percorso nonostante tutto.
Lo stile grafico adottato da Higa può ricordare a tratti il Gekiga ma con un piglio estremamente più ordinato. Un tratto semplice e pieno di bianchi accompagna i personaggi senza intralciare il loro racconto. Essenzialità è la parola d’ordine, nel disegno come nello scritto, tutto teso ad urlare la normalità delle vite raccontate, dando valore alla loro unicità e allo stesso tempo alla loro ordinarietà.
Insegnanti, anziani contadini, uomini al fronte, militari, sono parte di un unico lungo momento, il Novecento. Non ci sono eroi nel racconto di Higa, soltanto persone mosse da qualcosa di più grande di loro, che sia la guerra o la semplice contingenza dei fatti, che si ritrovano nella posizione di dover prendere delle decisioni, alle volte difficili altre volte spontanee, in alcuni casi guidate dalla necessità e altre ancora dalla volontà.
Sono uomini e donne di tutti i tipi quelli che si affacciano da queste pagine, isolani: uomini che guardano il mare e aspettano qualcosa, che vivono la loro vita semplice. L’autore si muove nel tempo e nello spazio, fra un racconto e l’altro, e spesso ritorna sui luoghi in diverse finestre temporali: dove un tempo si combatteva, ecco che oggi si coltiva, dove un tempo c’erano allevamenti, ecco spuntare le basi degli americani. Tutto cambia, in questo arcipelago di Okinawa. Ciò che rimane sempre uguale è l’umanità in senso stretto, con tutti i suoi tratti negativi e positivi, con le sue paure e i suoi piccoli momenti di coraggio.
Okinawa è una narrazione realistica non necessariamente perché racconta storie vere, ma perché, con grande maestria Higa fa ciò che per ogni autore è un atto di coraggio: rinuncia al proprio ego e si mette totalmente al servizio dei suoi personaggi, con la sua penna e con i suoi inchiostri.
Alla fine dei racconti spesso leggiamo delle note dell’autore che ci tiene a raccontare di come è venuto a conoscenza della storia appena narrata. È qui che il lettore può capire quanto questa raccolta di racconti sia spinta da una necessità, un urlo da parte di un popolo che non sa urlare e che ordinatamente, con la sobrietà che lo contraddistingue da sempre, ci chiede di non dimenticarci delle vite comuni, della potenza che sanno esprimere, di come nonostante i momenti duri di fronte ai quali la Storia ci pone, quella normalità e quella semplicità siano armi più potenti della sventura della Storia stessa, che supera i governi e i loro orrori e dietro la quale si nasconde, forse, il vero spirito dell’umanità.
Alessio Fasano