Dylan Dog Color Fest 51: innamorarsi ancora

Tre storie che dimostrano il desiderio di continuare a sperimentare

I primi amori hanno sempre un gusto particolare. Anche la loro fine, tendenzialmente, ha un gusto particolare, un amaro che cambia nel tempo. I primi amori lasciano un segno che si rimargina solo col tempo, che lascia traccia del suo passaggio. Per chi vi scrive, e non solo per lui, il primo amore è Dylan Dog. Chiedere di raccontare in poche righe il personaggio di Dylan è una cattiveria autoinflitta, ma tant’è.

L’inquilino di Craven Road è uno di quei personaggi che entra nel cuore del lettore per le sue caratteristiche umane, somiglia per tanti versi a un supereroe, ma senza poteri, senza mantello, e senza nessuna voglia di combattere. Perché il punto è proprio questo: Dylan è un catalizzatore non solo per ciò che riguarda la trama del suo mondo, ma anche e soprattutto per ciò che riguarda l’arte del fumetto in sé. Dylan non è Tex, non è Zagor, non è il tipo da gettarsi in una nuova avventura con una battuta sagace e i muscoli in mostra e questo fa sì che le storie a lui possano “capitare” più che ad altri. Tradotto nel linguaggio della narrazione, vuol dire che con Dylan si può fare proprio tutto quello che si vuole, e Sclavi lo sapeva.

La testata era una grande camera di sperimentazione, in cui era impossibile prevedere cosa sarebbe successo. E qui iniziano i grandi fraintendimenti. Quando si parla del Dylan sperimentale, del Dylan sorprendente, spesso si pensa alle trame di Sclavi, ai suoi colpi di scena, alle sue citazioni copiose ma raffinatissime, e spesso si ignora il lato più consistente del fumetto, quello che ha ispirato centinaia di sceneggiatori: le dinamiche di scrittura, il modo in cui l’investigatore dell’incubo parla, il modo in cui si siede, i suoi tic, le sue manie, ma, su tutto, la sua incoerenza. 

È proprio questa la grande differenza fra il Dylan di Sclavi e tutti gli altri, se vogliamo dirla tutta, di molta della vecchia scuola di sceneggiatura rispetto alla nuova (al netto dei bravissimi, dei talenti, di quelli che non c’entrano con gli altri e ci saranno sempre, in ogni tempo, per fortuna) ovvero la ricerca dell’incoerenza del personaggio. Quest’ultima oggi viene rimproverata, il lettore, che a differenza dello sceneggiatore non ha studiato sceneggiatura né scrittura in nessun senso, crede che la coerenza sia ciò che caratterizza una grande storia, o un personaggio riuscito, quando quest’ultima invece si confà più a passioni di altro genere, tipo il cruciverba. Il fatto è che la scrittura racconta della materia disorganizzata per eccellenza, l’essere umano, che ha sì una sua logica e ragion d’essere, ma che non funziona in modo coerente e lineare.

In sostanza, tutti amavano Dylan perché cambiava sempre, reagiva in modo sempre nuovo. Era il suo sistema morale che semmai rimaneva statico, ma lui cambiava sempre, perché nessuna situazione è uguale a un'altra e noi non siamo mai gli stessi. Per quanto ci sforziamo di “tenerci uniti”, comprenderci e descriverci come un essere unico, siamo anche tanto altro, frammentati dal pensiero che viviamo. Così è Dylan, così era, come noi. 

Se c’è una testata dylaniata che porta ancora alta la bandiera di questo concetto, essendo ad oggi un faro di speranza per il fumetto popolare italiano, quella è il Color Fest. La collana, infatti, così come è stata ripensata ai tempi della gestione Recchioni, è un piccolo punto di riferimento per poter vedere in edicola bravissimi fumettisti, tendenzialmente provenienti da altri ambiti o dalla nuova scuola, raccontare il loro Dylan. Dovrebbe far particolarmente riflettere il fatto che l'essenza del caro vecchio inquilino di Craven Road (“Quello di prima del numero cento”, come si sbraita su molti polverosi gruppi Facebook) emerga sulla più moderna e sperimentale delle collane dedicate al personaggio. 

Il cinquantunesimo numero del Color Fest presenta al suo interno, come spesso accade nella collana, tre storie affidate alle matite e alle penne di autori ormai ben più che emergenti, già sicurezze e orgoglio del fumetto italiano.

La prima storia è affidata alla penna di Marco Nucci e agli acquerelli di Daniele Serra. Seguiamo un Dylan sospeso in uno strano strato di realtà, egregiamente descritto dagli acquerelli di Serra, in una Londra avvolta più dai fumi della mente che da quelli dello smog. L'inquilino di Craven Road scorge un passante e inizia a seguirlo, senza sapere dove la strada lo condurrà. Dove andrà a finire Dylan, dove poggia i piedi? Sembra che il terreno possa mancare sotto i suoi piedi da un momento all’altro mentre tra le strade di Londra si mormora, fra i pullman e le banchine, che in giro ci sia un efferato assassino.

È una storia breve estremamente intelligente, sia per le tavole che quanto riguarda la scrittura, che si posiziona principalmente fuori campo, lasciando spazio alle immagini ma soprattutto al silenzio di questa Londra che non si riesce a vedere bene, in cui tutti sembrano avere un po' paura e tutti sembrano essere sempre più soli.

È un mondo più luminoso, invece, quello rappresentato da Davide La Rosa e Nicolò Pendinelli, il quale mette per la prima volta le mani sul personaggio di Dylan. Il secondo episodio prende una delle tipiche scampagnate scozzesi del personaggio, con conseguente smarrimento nella brughiera, per iniziare un’avventura che ricorda molto i film horror di Ari Aster e della nuova scuola registica di genere, un fumetto pieno di luce e cattive sensazioni.

Un Dylan ferito, in quella che sembra essere una citazione a Le iene, viene accompagnato da Groucho in un ospedale spuntato dal nulla proprio nel momento del bisogno. Accolto da una strana comunità legata alla natura, l’investigatore capirà immediatamente che c’è qualcosa che non va per il verso giusto.

Pendinelli riempie queste pagine di una luce digitale ben gestita e inquietante che, pur mostrando il fianco in alcune tavole, presenta un impatto generale estremamente buono, con un tratto piuttosto distintivo e una gestione della regia che fa il suo dovere accompagnando egregiamente la storia. Sarebbe interessante rivederlo all'opera nelle pagine della testata principale dell’indagatore dell’incubo per vedere il suo lavoro sul bianco e nero. Sicuro è che l’autore non si fa trovare impreparato alla chiamata di Dylan e posa con eleganza le sue tavole fra due artisti molto importanti (Serra, come detto, e Algozzino, come stiamo per vedere): autori, verrebbe da aggiungere, che sarebbe bello vedere più spesso nelle varie testate Bonelli.


Come anticipato, Sergio Algozzino, alla penna, ai pennini e ai colori come unico autore del racconto che chiude questo Color Fest, ci fa divertire e commuovere con una specie di Toy Story in versione dylaniata. Scopriamo che quando Dylan non c’è tutti i cimeli horror che intasano casa sua si animano. La storia di questi giocattoli inizia quando le riproduzioni dei mostri del cinema classico, le grandi statue che ingombrano il corridoio della casa di Craven Road, hanno un litigio con i piccoli giocattoli arrivati in seconda battuta, quelli che rappresentano i nuovi film horror, la nuova scuola della paura e dell’immaginario. 

La storia di Algozzino, ad essere fantasiosi (e da queste parti lo siamo: leggiamo un sacco di fumetti) potrebbe essere presa come un'allegoria dell’ambiente del fumetto italiano, e più in generale come rappresentazione di uno scontro fra il valore del “nuovo” e la sua importanza con la coesistenza che deve avere col “vecchio”. Una fuga e un ritrovamento, con dentro tanto sentimento e una dose di dolcezza che fa commuovere, fanno di questo racconto un esperimento riuscito ed estremamente efficace.

Il Dylan del Color Fest si riaccende, rivive, perché non ha l'obbligo di assomigliare a nessuno né la premura di far capire a chi lo legge che tutto è al sicuro, uguale “come un tempo”, perché niente è uguale a un tempo, purtroppo o per fortuna, e di fronte al tempo che avanza inesorabile le scelte non possono essere che due: cambiare o sparire. In un panorama in continua evoluzione, il Color Fest è ciò che cambia, facendoci intravedere un fumetto italiano che potrebbe essere per ben più di quattro volte l’anno.

Alessio Fasano