Padri e figli in un dramma calabrese a fumetti - Il Saraceno di Vincenzo Filosa

Rizzoli Lizard pubblica una graphic novel autobiografica profondamente immersa nella poetica dolorosa del gekiga giapponese, il cui crudo realismo trascina il lettore a confrontarsi con temi scomodi

“Spesso ti sentirai un peso misterioso addosso.
È l’asterisco che ti ho appiccicato appena sei venuto al mondo.”

Il Saraceno, opera scritta e disegnata da Vincenzo Filosa, ruota attorno alla figura di Italo Filone, fumettista ex tossicodipendente nonché voce narrante e alter ego dell’autore, e al rapporto con suo padre Franco, un uomo riservato poco incline alle dimostrazioni d'affetto. Il destinatario ideale del racconto è, invece, un altro componente della famiglia Filone, appartenente alla terza generazione, ovvero il giovane figlio di Italo.

L'intento dell'autore è quello di voler rappresentare la realtà umana in tutte le sue sfaccettature, senza ammorbidirla con edulcoranti e senza trarre frivoli insegnamenti morali. Per arrivare a questo, utilizza il linguaggio del fumetto autobiografico con uno stile profondamente influenzato da maestri sia orientali che occidentali: i fratelli Tadao e Yoshiharu Tsuge, Yoshihiro Tatsumi, Shigeru Mizuki, ma anche Joe Matt, Seth e Chester Brown, per citarne alcuni. Tutti questi artisti donano a Filosa il coraggio di scrivere un racconto brutale e angoscioso, ma anche vero, maturo e necessario. 

L'autore mette così in scena alcuni episodi della vita di Italo apparentemente scollegati tra loro, in cui il presente si intreccia con il passato più e più volte. Il racconto appare, quindi, frammentato, e l’effetto che ne risulta è quello di un prisma a molte facce, sulle quali vengono proiettati momenti d’infanzia, adolescenza e età adulta del protagonista. Del resto, come lo stesso Filosa suggerisce, “Il tempo non passa, ma si accumula”, per cui gioie e dolori dell’esistenza umana concorrono a formare il bagaglio di esperienze che ciascuna persona è costretta a trascinare con sé, per sempre.

Esiste però un filo conduttore costante che permette di orientarsi agevolmente nel labirinto narrativo. Si tratta del rapporto padre-figlio tra Italo e Franco, che viene sapientemente descritto in maniera implicita proprio attraverso la scelta degli episodi raccontati. Grazie a questa chiave di lettura, ciò che si delinea è una relazione tra due persone che si amano, ma che non riescono ad esprimere il loro sentimento a parole. L'incomunicabilità tra i due si trasformerà, poi, in frustrazione e tensione, andando a peggiorare in maniera proporzionale alla discesa di Italo nel vortice della droga. 

A livello strutturale, è possibile dividere Il Saraceno in due parti. Nella prima, viene raccontato il presente di Italo, che oltre a sforzarsi per consegnare le tavole del suo nuovo fumetto e rispettare le scadenze, deve fare i conti con le crisi d'astinenza che lo perseguitano da diversi anni. Tutto ciò è inframezzato da interludi ed episodi, come quello della patella gigante ritrovata sulla spiaggia, che il giovane Italo dovrebbe proteggere per conto dei cugini senza farla vedere a nessuno, ma che viene mangiata cruda da Franco nonostante le proteste del figlio. 

Questa prima parte è più caotica e si conclude idealmente con un'ammissione di colpa da parte del protagonista, che verrà criticato per questo motivo da una caricatura dell’armadillo di Zerocalcare.

La seconda parte, più lineare, è quasi totalmente occupata dal racconto dell’estate in cui Italo lavora presso il ristorante del padre, sulla costa calabrese. Stando quotidianamente a contatto con lui, egli scopre nuovi lati del carattere di Franco, come il saper farsi voler bene dai dipendenti o la meticolosità con cui segna su un quaderno il rendiconto della sua attività. A fine stagione, superata con successo la terribile settimana di Ferragosto in cui il ristorante viene preso d’assalto dai clienti, l'incomunicabilità tra loro si affievolisce, senza rompersi del tutto. Finalmente, infatti, Franco confessa ad Angelica, una cameriera di fiducia, di essere fiero del suo timido e impacciato figlio. L’episodio si conclude con un primo piano di Italo che, con gli occhi pieni di lacrime, urla tra sé e sé: “Anch'io ti voglio bene, papà”.

La bipartizione strutturale dell’opera riflette la considerazione che Italo ha nei confronti di suo padre. All’inizio de Il Saraceno, infatti, egli è deluso da Franco e ne mette a nudo tutti i vizi e le debolezze. Alla fine, però, vi è una sorta di riscoperta della figura paterna che si trasforma in accettazione e poi in ammirazione. Franco non è più l'insieme dei suoi difetti, ma un uomo capace di resistere agli scossoni della vita, come uno scoglio che rimane immobile nonostante la marea.

Il messaggio del racconto, destinato al figlio di Italo, è proprio questo, ovvero che i padri non sono perfetti. Per un bambino, scoprire che i propri genitori non sono eroi infallibili può essere traumatico, una scoperta terrificante che nel peggiore dei casi segna la fine di un’era di sicurezza e spensieratezza.

Dall’altra parte, la condizione genitoriale coglie alla sprovvista. Da figli, si passa ad essere padri e madri, e spesso non si è pronti a questo ribaltamento repentino di ruoli. Niente prepara davvero a diventare buoni genitori, così come niente prepara a stare al mondo, sembra affermare Italo. L’unico appiglio a cui ci si può aggrappare è l’esperienza. Ma per costruirla bisogna proseguire alla cieca, accumulando un errore dietro l’altro. 

L’esperienza, quindi, è anche il lascito più grande che un genitore può trasmettere al proprio figlio. Essa rappresenta un potente alleato grazie al quale si può evitare di commettere gli stessi errori dei padri. Al fine di tramandare questa importante eredità è necessario, però, imparare a comunicare con chiarezza.

Nonostante i drammi narrati, e poiché la vita è fatta anche di momenti comici, Filosa inserisce consapevolmente l'umorismo all’interno de Il Saraceno. Tuttavia, si tratta di un umorismo atipico, lontano da ciò a cui è abituato il lettore, che non culmina mai nella risata, ma piuttosto in un sorriso amaro. Ciò appare evidente già dalle primissime pagine dell’opera, in cui il figlio del protagonista, leggendo l’ultimo fumetto del padre, gli domanda che cosa stesse facendo con una siringa conficcata nel braccio. Italo, imbarazzato e intenzionato a non macchiare la sua figura di modello genitoriale positivo, mente e dichiara che, a volte, anche gli autori realistici ricorrono alla fantasia per rielaborare la realtà. La replica del figlio è spontanea e spiazzante: “Cioè, a questo punto… Perché non disegnare [...] solo robe divertenti? Tipo l’Uomo Ragno o Devilman… Zerocalcare?”.

La lotta tra fumetto divertente e fumetto come specchio della realtà è una questione cara agli esponenti del gekiga, movimento culturale giapponese degli anni ‘50 e ‘60, che contrapponeva, appunto, il geki-ga (storia drammatica) al man-ga (fumetto d’intrattenimento). Questo scontro verrà ripreso anche all’interno de Il Saraceno, in quanto Filosa/Filone è consapevole di nuotare controcorrente nell’editoria italiana contemporanea. Molti lettori consumano il fumetto per svago, come mezzo per distrarsi dai problemi che affliggono la quotidianità, non per sostituirli con melodrammi fittizi. All’interno dell’autore si muovono così due forze contrapposte: la pulsione a volersi omologare al mercato, per non rischiare di finire al verde e nel dimenticatoio, si scontra con la volontà di non tradire la propria fede realista, anche se ciò significa non piacere al grande pubblico. 

Meglio, quindi, impegnarsi nel far ridere? Nonostante un pessimismo iniziale, Italo è convinto delle sue idee e lo dimostra nel dialogo ironico con la caricatura dell’armadillo di Zerocalcare, ormai mascotte della risata a fumetti italiana, in cui Filone afferma di voler apprendere da lui i segreti della comicità.

Il credo realista dell'autore si riflette anche nei disegni, nei quali il paesaggio rurale calabrese è così vero e dettagliato che sembra di osservarlo dal finestrino di un'automobile in corsa sulla statale 106 Jonica. Edifici fatiscenti e abbandonati, sporche strade di campagna, alberi scheletrici e rottami di barche sono tratteggiati con una precisione che ricorda lo stile di Katsuhiro Otomo e del suo Akira; l'uso del bianco e nero coniugato al realismo, inoltre, deriva probabilmente dalla tradizione bonelliana italiana.

Sullo sfondo fotografico si muovono personaggi vivi, dinamici e ben definiti. Il livello di immedesimazione del lettore è ridotto all'osso, e l'effetto che ne deriva è l'immersione totale all'interno di un mondo in cui si può essere solo spettatori.

Notevoli sono, poi, gli stratagemmi utilizzati dall’autore per raccontare alcuni aneddoti della vita di Italo. Uno di questi è quello di inserire all’interno della narrazione una sorta di vecchia rivista manga di fine anni ’80, chiamata Super Sarachan, che va a modificare persino il colore delle pagine, le quali si ingialliscono per simulare l’ossidazione della carta. Anche i disegni si trasformano, diventando più tondeggianti e cartooneschi, con uno stile che sembra una sintesi tra Go Nagai, Osamu Tezuka e Shigeru Mizuki.

Un espediente simile viene usato quando il protagonista, dopo un incidente, si ritrova ricoverato e imbottito di farmaci. Qui il racconto prende una piega onirica e delirante, cosa che si riflette anche nei disegni. Filosa/Filone, infatti, mette in piedi un improbabile dialogo con i personaggi della serie tv I Soprano, le cui illustrazioni abbozzate e ruvide fanno pensare a degli schizzi concepiti proprio durante la degenza nel letto d’ospedale.

In conclusione, l’autobiografia come lente di ingrandimento della realtà, il voler rappresentare a tutti i costi la condizione umana, il realismo brutale infuso nelle tavole, l'umorismo amaro, sono tutti elementi che fanno de Il Saraceno un moderno gekiga, un fumetto impegnato, adatto ad un pubblico maturo che sceglie consapevolmente di accogliere la genialità di un autore come Vincenzo Filosa.

Mattia Mirarco

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