Mamma, me lo compri? Tesoro, hai 30 anni - L’effetto He-Man di Brian “Box” Brown

Bao Publishing porta in Italia un saggio a fumetti illuminante quanto inquietante, che spiega come alcune aziende facciano leva sulle fragili menti dei bambini e sulla nostalgia degli adulti per vendere giocattoli (e non solo), ricavando enormi profitti

“Glielo abbiamo ficcato in quei piccoli cervellini”.

Essere un lettore di fumetti spesso va a braccetto con l'essere un collezionista. Ed è stato un po' strano, per me, leggere L’effetto He-Man. Come i produttori americani di giocattoli ti vendono i ricordi della tua infanzia seduto nella mia stanza, circondato da statuette di Dragonball e figure di supereroi. A fine lettura, ho iniziato a chiedermi quanto di quegli acquisti siano stati il frutto di una mia precisa e libera scelta, e quanti, invece, il risultato di una decisione quasi obbligata, dovuta al bombardamento a cui sono sottoposto quotidianamente da parte della pubblicità. È possibile che io abbia acquistato quei prodotti inconsapevolmente? Magari, trascinato dalla mia voglia di “ritornare bambino”?

Per Brian “Box” Brown, ciò è sicuramente possibile: “le emozioni positive ed i ricordi più cari tendono a legarsi indissolubilmente ad un brand. E ciò comporta che quando consumiamo un prodotto legato a quello stesso brand, riviviamo anche quelle stesse sensazioni positive”. In pratica, è come se stessimo delegando ad altri la nostra felicità: “Stiamo dando alle aziende questo potere volontariamente. Siamo noi ad aiutarle. Creiamo nuovi ricordi [...] di continuo, e spesso quei ricordi sono ormai brandizzati”.

La tesi sostenuta dall’autore è forte e, per dimostrarla, egli si affida ad una mole enorme di informazioni. Al fine di dare ordine al caos di dati sull’argomento e fornire, così, una trattazione chiara e lineare, Brown organizza il suo saggio a fumetti in maniera scrupolosa. La materia viene divisa in dieci capitoli, lunghi circa venti tavole l’uno - ad eccezione del capitolo otto, più corposo. Ogni tavola è, poi, formata da blocchi di vignette squadrate, di forma perlopiù rettangolare, le quali, a loro volta, sono divise in didascalia narrativo-esplicativa, in alto, e disegno illustrativo, in basso. Nessuna splash page, nessun taglio dinamico stile manga delle tavole, nessun disegno che fuoriesce dalle vignette: tutto in L’effetto He-Man appare sobrio e bilanciato.

I colori presenti sono essenzialmente tre, ovvero il bianco della pagina, il nero dell’inchiostro ed il grigio dei retini; le onomatopee sono pochissime, così come i balloon, i quali vengono usati principalmente quando l’autore mette in scena le interviste fittizie a politici, capi di aziende e professionisti del settore. 

Per quanto riguarda i disegni delle figure umane, essi sono morbidi e cartooneschi, in netto contrasto con la spigolosità delle vignette nelle quali sono contenuti. L’autore tende a tratteggiare i volti dei consumatori, gente comune, utilizzando poche linee per costruirne la fisionomia: due cerchietti riempiti di nero per gli occhi, una curva per il naso ed una per la bocca, e, se necessario, qualche increspatura per i capelli. Le espressioni facciali ricavate risultano, quindi, essenziali ma dirette, poiché comunicano immediatamente al lettore l’emozione provata, un po’ come le emoji. Il risultato è una maschera dietro cui si può celare il volto stesso del lettore-consumatore.

Uno dei pregi di Brown, inoltre, è la capacità di sintetizzare nel disegno le caratteristiche principali di personaggi famosi - reali o fittizi che siano - e giocattoli, in modo da permettere al lettore di riconoscerli immediatamente. Una tecnica che si avvicina non poco a quella utilizzata dai caricaturisti.

I paesaggi urbani e gli oggetti inanimati, ricchi di dettagli, riprendono le linee nette e precise delle vignette, ed è interessante notare come, spesso, a questi elementi manchi la profondità, cosa che produce un effetto di visione frontale bidimensionale.

In generale, scorrendo le pagine del fumetto, il lettore avrà l’impressione di addentrarsi in una sorta di documentario disegnato, che ricorda la docu-serie Netflix I giocattoli della nostra infanzia, il cui tema, tuttavia, è distorto, poiché Brown vuole accompagnare il suo pubblico attraverso il lato oscuro del mercato dei giocattoli. 

Ma da dove prende piede questa storia?

Tutto iniziò a partire dagli anni '50, quando, prima negli USA e poi nel resto dell'Occidente, fece la sua comparsa un nuovo mezzo di comunicazione di massa: la televisione. Le famiglie americane impazzirono per essa e, ben presto, alcune aziende si resero conto che, inserendo spot pubblicitari tra un programma e l’altro, potevano aumentare considerevolmente i loro profitti. Gli spot si concentravano in prima serata, in una fascia oraria che andava dalle 20:00 alle 22:00. Il target, cioè l'insieme dei potenziali clienti, non era omogeneo, dato che, a quell’ora, l’intero nucleo familiare si riuniva attorno al televisore. Per cui si passava dallo spot sulle sigarette a quello dei detersivi, in maniera un po’ casuale. Le aziende speravano di raccogliere qualche cliente, e nonostante andassero alla cieca, ci riuscivano.

Più tardi, si scoprì che il sabato mattina la maggior parte dei bambini americani si svegliava presto per fare colazione e guardare i cartoni animati. Le aziende, in particolare quelle che producevano giocattoli, fecero due più due. Da quel momento, e per la prima volta, i produttori avevano una fascia oraria da sfruttare per rivolgersi direttamente al loro consumatore ideale. Era come se degli adulti vendessero prodotti direttamente ai bambini, cosa che avrebbe fatto scattare presto l’allarme. 

Come da pronostico, alcune associazioni di genitori iniziarono a protestare animatamente. Esse chiedevano nuove leggi per la tutela dei figli, i quali spesso non erano nemmeno in grado di distinguere il cartone animato dallo spot pubblicitario. Nonostante una vittoria iniziale, ottenuta nel 1972, in cui vennero regolate le pubblicità mirate ai bambini, con il passare del tempo, le aziende misero in campo strategie sempre più efficaci per aggirare le norme.

E poi arrivò Star Wars. Era il 1977 ed il regista George Lucas ebbe un’idea “visionaria”: chiese ed ottenne i diritti di licensing legati al film. Lucas ci aveva visto lungo: avrebbe ricavato tantissimo dalla vendita del merchandising. Star Wars - Una nuova speranza ebbe, infatti, un successo al botteghino clamoroso. Come indica l'autore, le persone non si chiedevano più «sei andato a vedere Star Wars?», piuttosto «quante volte lo hai visto?». Anche la Kenner, l’azienda che produceva i giocattoli di Luke Skywalker e compagni, guadagnò milioni di dollari in profitti. Soprattutto perché, proprio in quel periodo, sia la Kenner che altre fabbriche, spostarono la produzione in Cina, dove la manodopera costava meno e i diritti dei lavoratori potevano essere calpestati senza conseguenze.

Sulla scia della popolarità di Star Wars, vennero svolte diverse ricerche di mercato con il fine di emulare quel successo. Così, fu finanziata sia la fabbricazione di nuovi giocattoli (e il rilancio dei vecchi), sia la produzione di programmi televisivi abbinati, che altro non erano che spot pubblicitari mascherati da prodotti d’intrattenimento. Molti di questi avevano una trama scarna, duravano anche più di mezz'ora e il loro unico scopo era quello di vendere giocattoli.

Vennero rispolverati i giocattoli di G.I. Joe, trascinati da un nuovo fumetto prodotto dalla Marvel Comics (i fumetti sfuggivano alle leggi che regolavano la pubblicità in tv); nacque He-Man and the Masters of the Universe, i cui corpi scultorei rispecchiavano “ciò che stava avvenendo nella cultura mainstream: la ridefinizione dell’ideale di aspetto maschile”. E poi ancora, i Transformers, sulle orme degli anime mecha giapponesi, fino ad arrivare alla cosiddetta turtle mania di fine anni ‘80, ovvero film, serie animate, videogiochi e giocattoli basati sul fumetto indie di Eastman e Laird, Teenage Mutant Ninja Turtles.

Nel frattempo, i bambini degli anni ‘50 e ‘60, erano cresciuti. E che cosa distingue gli adulti dai piccini? La risposta è la nostalgia, che l’autore definisce come “una magia potente, ma anche [...] un valore economico quantificabile”. Le aziende iniziarono a far credere a quei giovani adulti di poter ritornare a sentire la gioia, la sicurezza e la spensieratezza della loro infanzia: bastava acquistare nuovi giocattoli, ora considerati oggetti da collezione.

Oggi, nell’era degli algoritmi, si parla di pubblicità mirata. Le aziende riescono a rivolgersi singolarmente ad ognuno dei loro consumatori. E lo fanno con spot “personalizzati”, lanciati soprattutto sui social. Conoscono i nostri gusti, e quindi il pericolo di diventare consumatori inconsapevoli, vittime di una manipolazione continua, è molto alto.

È questa la realtà in cui siamo destinati a vivere? Una realtà in cui gli esseri umani sono relegati al ruolo di clienti burattini, che lavorano per guadagnare soldi che poi spendono sperando di acquistare un po' di sollievo infantile?

Brian “Box” Brown ci avverte: “Le aziende si stanno conquistando sempre più spazio nei nostri cervelli, e ci influenzano in modi di cui non siamo consapevoli”. E continua: “Il loro obiettivo è chiaro. È lo stesso di tutte le imprese capitalistiche: fedeltà al marchio dalla culla alla tomba”. 

Alla luce di tutto ciò, la magia, o forse meglio dire l’illusione, si è rotta. L’effetto He-Man ci fa ritornare con i piedi per terra. Probabilmente, da ora in avanti, guarderemo i nostri giocattoli in bella esposizione sulle mensole - sì, anche quelli chiusi nella confezione originale - con occhi diversi. Essi continueranno magari a ricordarci un’infanzia felice e spensierata, ma, allo stesso tempo, saranno i testimoni di un’amara presa di coscienza. In fondo, si tratta pur sempre di pezzi di plastica colorata, fabbricati in un Paese in via di sviluppo, venduti con l’inganno ad un adulto con la sindrome di Peter Pan.

Mattia Mirarco

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