Goiter di Josh Pettinger, astro nascente del fumetto indie americano
Oblomov Edizioni pubblica Goiter, raccolta di storie brevi dell’omonima serie scritta e disegnata da Josh Pettinger
È dagli anni Novanta che l’arteria della creatività dell’arte occidentale underground e indipendente è andata crescentemente ad abbeverarsi da quel cuore di kitsch e grottesco – che si tratti di cinema, fumetti, musica – che fa rima essenzialmente con le intuizioni di Harvey Kurtzman e Robert Crumb per il fumetto, piuttosto che di John Cassavetes e – soprattutto – David Lynch per il cinema (e non).
Ed è proprio in quest’impeto lynchano che quegli anni Novanta – di un’America post-Maus e post-Watchmen che come un neonato maneggiava il mal invecchiato concetto di graphic novel – hanno partorito la nuova scuola del cartooning U.S., il fumetto degli Art Spiegelman, dei Los Bros Hernandez, dei Charles Burns o dei Daniel Clowes.
Nomi titanici che proprio da Kurtzman, Crumb o Feldstein nascono e che, dopo trent’anni di indomito regno, era auspicabile partorissero finalmente qualche figlioccio, i nuovi e apocrifi (un australiano, un ispanico e un inglese – non è l’inizio di una barzelletta) Big 3 del comics a stelle e strisce: Simon Hanselmann, Nate Garcia e, protagonista di oggi, Josh Pettinger.
E se Hanselmann nelle sue visioni ad acido è forse il meno inquadrabile, mentre Garcia è il più spiegelmaniano (il più Raw, anzi), beh, Pettinger è decisamente – e dalla prospettiva di chi vi scrive il paragone è tutt’altro che leggero – il più clowesaniano.
E non si parla dell’ultimo Clowes, più letterato e introspettivo, ma dello schizoide di Eightball e dei suoi Lloyd Llewellin e Clay Loudermilk, di cui Pettinger ha platealmente assorbito il compendio di abbandono e rigetto, di «vertigine kafkiana», e la capacità di creazione e cattura di mondi, anzi, morchie di mondi talmente grami, miseri, abbandonati che – in una maniera a questo punto quasi apodittica – non possono che partorire un assurdo come quello delle storie brevi che popolano Goiter.
Perché ad abitare questi sette numeri di cui Goiter si compone (inevitabile pensare a Caricature del ‘98) sono essenzialmente dei “clowesian loners”, umani piccoli piccoli e vagolanti per le trame di un canto sempre più stonato in una maniera tanto tragicomicamente ovvia per noi che leggiamo, quanto drammaticamente impensabile per le menti ingenue dei suoi sfortunati abitanti.
Preso in prestito l’archetipo, però, Pettinger ha il pregio di sapersi scostare da Clowes – i cui risultati narrativi sono più il concretarsi di un sentimento e di un’indole fotografica che non ambiscono ad avere una necessaria coscienza civica – dando alle sue stramberie su carta un’anima molto più politicamente bellicosa che sì, parte da frammenti di malessere esistenziale, ma che attraverso la causticità del racconto, l’indolenza del dialogo, il pisquano agire dei personaggi, fustiga e malmena i costumi di un’America talmente faziosa e atomizzante da far supporre che, esista effettivamente un posto sulla Terra dove quest’aberranza è possibile, questo non può essere che gli U.S.
In tal senso, si può vedere come la carica all’episodico dissacrare di Goiter non venga data tanto dall’estremizzazione distopica-politica-sociale del contesto (o meglio, non solo), ma piuttosto dalla solitudine, dall’atomizzazione di cui sopra, dall’incomunicabilità di un popolo “divorziato in casa”, priv(at)o di empatia anche e ormai nel più stretto e/o biologico grado di separazione: è proprio questo Nulla compassionevole a rendere così tragica la situazione dei pochi, protagonisti, dall’animo non ancora zombificato.
Ed è qui che emerge davvero il talento di Josh Pettinger come autore in toto di fumetti: l’essenzialità del tratto – raffinata, soprattutto per quanto riguarda i volumi delle linee, in una maniera quasi europea – può essere vista da una prospettiva superiore, seppur evidentemente presente, alla firma di stile, che va a canonizzare nell’estetica di questi brevi racconti l’assoluta assenza, il Niente immobile di zero sensazioni degli ambienti, al punto che i personaggi potrebbero essere considerati essi stessi lo spazio che occupano, e che comunicano proprio il freddo dentro cui un rapporto umano non può che congelarsi e scomparire.
Spesso su questo sfondo inumanamente freddo i protagonisti scappano, si perdono o si nascondono invisibili agli occhi normalizzanti di tutti gli altri, indifferenti, che noi in primis saremmo se non avessimo il privilegio di essere lettori: è un fuggire senza meta (peraltro, anche nell’anatomia dinamica si rivede un certo Clowes) quella di questi ominidi-flaneur del Nulla, su sfondi piatti e monocromatici che si passano il testimone, da vignetta a vignetta, fra gli spazi bianchi, altro elemento usato da Pettinger con maestria. Storie come Wendy Bread (Goiter n. 4), dove l’incomunicabilità viene mostrata attraverso l’incapacità iniziale dei balloon di ognuno di attraversare lo spazio bianco, di condividere la stessa vignetta, ci dicono che lo stesso spazio bianco può essere talvolta un muro (non a caso, Wendy Bread è in bianco e nero).
Un pregio da non sottovalutare, in un periodo storico dove abilità grafica e autorialità sembrano misurarsi fin troppo solo attraverso la sperimentazione e l’esasperazione della griglia. Semplice, efficace.
Per questo Goiter è da considerarsi come un contenitore prezioso di fumetti, sveglio, dissacrante, elegante ma non di meno drammaticamente coinvolgente. È vero, pecca di referenzialità, si potrebbe osare di più, spingere il kafkiano al Perrault anfetaminico, sfruttare ancora meglio i meccanismi più silenti eppur più potenti della tavola a fumetti, provare a forgiare la tanto citata quanto fasulla “nuova grammatica”, discostarsi dal retaggio novantino dei grandi nomi di inizio articolo e fondare un vero, nuovo gotha di autori di fumetti.
Ma infatti chi l’ha detto che Josh Pettinger debba fermarsi qui?
Oblomov ha messo sugli scaffali in libreria un oggetto da non sottovalutare: non un capolavoro ma un capodopera, non una rivoluzione ma il suo possibile germe, annunciata e auspicabile sia che si guardi la singola, cartoonistica vignetta, sia le ingegnose copertine, respirando l’odore e grattando la granula dell’altrettanto raffinata carta fibrata, ancora una volta spiazzati dal fatto che, con il fumetto, si possono davvero fare una valanga di cose.
Japo Corradini