Le ombre ~ Il dramma delle migrazioni sul palcoscenico del fumetto

Teatro e fumetto sembrano mondi incompatibili eppure Zabus e Hippolyte hanno realizzato un'opera che è più di una trasposizione da un mezzo a un altro: Le ombre è una pièce teatrale su carta, è un fumetto recitato, ed è, soprattutto, la storia di milioni di storie

Lascialo stare! Aspetta! Non vedi? Vuole a tutti i costi che accettino il suo fascicolo, per cui mentirà per poter cominciare una nuova vita.
Dice il vocabolario che la storia è l'indagine o ricerca critica relativa a una ricostruzione ordinata di eventi umani reciprocamente collegati secondo una linea unitaria di sviluppo. Il senso profondo del concetto di storia è annidato tutto in quel piccolo aggettivo che potrebbe anche sfuggire a una lettura superficiale: critica. Ovvero, la storia non è - e non può essere - solo un mero elenco di fatti disposti in senso cronologico o intrecciati da un susseguirsi di cause ed effetti, ma è prodotto di un'elaborazione umana di quei fatti, di quelle cause e di quegli effetti.
E deve esserlo soprattutto quando da quella storia che stai per raccontare dipende il tuo futuro.

Le ombre inizia da qui: una stanza spoglia, uno spazio forse immenso, forse minuscolo illuminato da un cono di luce netto e crudele, che accende con tono accusatorio una piccola porzione di scena dove un uomo è seduto in attesa. È un uomo piccolo, minuscolo in confronto all'enorme burocrate che si siede davanti a lui, pronto a prendere appunti. È un uomo minuscolo avvolto in un panno bianco, il volto coperto da una maschera su cui sono dipinti grandi occhi gonfi e lacrime che rigano le guance, immobili ed eterne.
Alle sue spalle, ombre gigantesche gli parlano: sanno che mentirà, per garantirsi la salvezza, sanno che dirà solo quello che il burocrate vuole ascoltare, ma chiedono di raccontare la verità, perché la verità e il ricordo sono gli unici mondi in cui ancora possono abitare. Chiedono di raccontare la verità per continuare a vivere, per trovare almeno un briciolo di senso alla loro morte.
Di loro non è rimasto che questo, lunghe ombre scure che nessunə, oltre al piccolo uomo, può vedere né sentire. Non una tomba su cui piangere o una lapide su cui incidere il nome. Tutta la loro storia è nella memoria dell'uomo piccolo e la loro unica possibilità di non sparire per sempre nell'oblio è che lui racconti la verità.
Esistono precise regole non scritte su cosa dire e cosa tacere durante i colloqui di richiesta d'asilo. Atteggiamenti da assumere e altri da evitare, dettagli da omettere e altri su cui soffermarsi con una dovizia di particolari che sfiora la pornografia. Esistono precise regole perché esiste una scala di valore persino del dolore e della sofferenza, e perché anche la speranza di chi fugge - e poi arriva - deve conformarsi e strizzarsi dentro al concetto di dolore e sofferenza di chi ascolta le storie e le giudica.
Lə migranti lo imparano presto, traducono le loro vite e i loro sogni in un linguaggio preconfezionato per farsi riconoscere lo status di rifugiatə, anche a costo di snaturare quello che è stato o di dar voce ai loro traumi più profondi, all'orrore che non vorrebbero mai dire.
Ma l'uomo minuscolo sotto il cono di luce non lo farà. Dirà la verità, solo quella, perché è lì che le ombre gli chiedono di vivere.

Comincia così il racconto di un fratello e una sorella in fuga dal Paese Piccolo, dal villaggio in cui i Cavalieri Sanguinari hanno preso a scavare e scavare, a distruggere la terra e a costringerne lə abitanti a scavare per loro, scavare fino a morire e finire sotterrati, fino al momento in cui un altro colpo di vanga non riporti le loro ossa alla luce. Il loro viaggio è difficile, solə in un lungo corteo di altra gente in fuga o tra i rami lugubri di un bosco oscuro.
Ci sono orchi sul loro cammino, giganteschi antropofagi che capitalizzano sulla sofferenza altrui, ci sono compagnə decisi dal destino, bande di predoni e confini che non significano nulla.
Il confine del Paese Piccolo è solo una linea che divide due luoghi perfettamente uguali e perfettamente vuoti, assurda e frustrante nella sua arbitrarietà. Ci sono deserti fatti di sabbia e altri che sembrano città, pieni di case e negozi e uomini e donne che nascondo pericoli proprio come fanno le dune. C'è il mare e ci sono le navi, stipate di corpi che si incattiviscono e puzzano e lottano per un solo centimetro quadrato di spazio da occupare con le unghie e con i denti perché oltre quel centimetro non hanno più nulla.
E c'è la notte che porta il sonno e i sogni, che strappa le parole da bocche addormentate e ruba ricordi e identità. E alla fine del viaggio, mentre le ombre aumentano di tappa in tappa e lə compagnə finiscono senza respiro in buche senza nome, ad attendere l'esule che ha superato ogni prova c'è solo un lungo, incomprensibilmente tortuoso e stretto corridoio di procedure e interrogatori, che porta a un arcigno burocrate e al suo taccuino per gli appunti.

Zabus - drammaturgo e sceneggiatore - e Hippolyte - che oltre a essere illustratore e disegnatore è un reporter e un attivista per i diritti umani - raccontano una storia che è milioni di storie, quella di chi è costrettə a fuggire dalla propria terra, a volte senza neppure stringere in un abbraccio lə propriə carə. La storia di chi attraversa boschi e città e deserti e mare, di chi viene rapitə e sfruttatə, di chi muore e nessuno lo sa e di chi sopravvive per raccontare. Ma è spesso un raccontare a orecchie che non vogliono ascoltare e a cuori che non vogliono capire, parole che rimbalzano su pareti asettiche e su fogli precompilati come quiz a cui rispondere correttamente.
Lə esuli di queste pagine sono figure anonime nascoste da maschere che nascondono il loro volto, la loro specifica individualità ma ne esasperano il carattere, l'espressione, il ruolo: non importa chi c'è dietro ma quale è il suo posto nella catena degli eventi che l'hanno portatə a vivere quella scena, tenendo in equilibrio - a metà strada tra personaggə teatrali e persone in carne e ossa - l'interpretazione di una parte e la sua propria natura. Se nel teatro classico la maschera permetteva anche allə spettatorə sedutə più lontano dal palco di riconoscere lə personaggə, anche qui Zabus e Hippolyte ci consentono di accorciare le distanze: non importa quanti anni o quanti chilometri ci separano dalla storia che stiamo leggendo, ma in quel volto artefatto possiamo sempre e comunque riconoscere l'esule costrettə con la forza a lasciare per sempre la sua casa.

Hippolyte disegna personaggə-maschera e vignette come quinte teatrali, a volte scarne e sintetiche al punto da tendere quasi all'astrattismo, altre volte più articolate e complesse. Gli ambienti in cui lə personaggə si muovono raccontano la loro storia tanto quanto le loro parole, dalle trame intricate dei rami del bosco al caos delle città, dalla fabbrica fordista da incubo dell'orco agli immensi paesaggi desertici, fondali e scene ci parlano della lunghezza del viaggio, della difficoltà di adattarsi a spazi diversissimi tra loro, ognuno con le sue leggi, ognuno pronto a imporsi sullə esuli.
Il tratto è veloce, espressivo, fatto di tratteggi nervosi che si aggrovigliano per dare densità al cielo notturno o per trasformarsi nelle rughe di un volto, ma si ammorbidisce con gli acquerelli leggeri e saturi che descrivono luci e atmosfere.
Solo nelle illustrazioni che aprono ogni capitolo i disegni si limitano esclusivamente al bianco e nero ma qui il tratteggio si fa più sottile, controllato ed elegante, ed è il solo mezzo che Hippolyte usa per delineare luci, ombre e mezzitoni, creando una piccola galleria di immagini superbe, che richiamano l'incisione a bulino per i giochi di intrecci e l'acquaforte per la nettezza e la pulizia dei tratti.


Di storie di migrazioni ed esili ne abbiamo lette tante, ma forse nessuna come Le ombre racconta tanto bene il paradosso che circonda le testimonianze dellə sopravvissutə, quello per cui il desiderio di dar voce alle proprie esperienze reali, di tacere i traumi, di mostrarsi al meglio per essere accettatə, deve adattarsi alle nostre normative e alle nostre aspettative. Non è solo il viaggio, non solo i pericoli, gli orchi e le bande di predoni, i deserti e i mari in tempesta, è soprattutto il muro del nostro giudizio quello che deve essere affrontato e scalato. Chiediamo di plasmare storie e memorie e persone a nostro piacimento, togliendo loro persino l'ultimo pezzo di quell'identità spesso dilaniata da mesi e anni di fughe e prigioni e torture, per concedere quel diritto che tuttə dovrebbero avere senza dimostrare niente a nessunə: tornare a vivere e a sperare.

Claudia Maltese (aka clacca)

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