#A24TheParty24 - Di generi e poetiche autoriali: il caso A24

In occasione del nuovo "Party" ideato da Leonardo D'Angeli, Andrea Fontana parla dell'esperienza della casa di produzione e distribuzione A24

Dopo #Kirby4thWorldParty20, omaggio all'immaginazione di Jack Kirby, #SatoshiKonParty21, una rivisitazione dei personaggi folli di Satoshi Kon e #StarWarsTheParty22, un modo per riscoprire la Galassia Lontana Lontana (partendo da Ralph Macquarrie e soffermandosi sulle serie animate di Tartakovsky e Dave Filoni), arriva un nuovo "Party", ideato da Leonardo D'Angeli, sostenuto da FRAMED Magazine, Gli Audaci, Quasi, Birdmen Magazine, Longtakeit in collaborazione con Noam Festival.

A24 The Party 24 non è solo un omaggio alla casa di produzione e distribuzione cinematografica fondata da Daniel Katz, David Fenkel e Josh Hodges (che prende il nome dall'autostrada A24 Roma-Teramo) ma vuole essere anche un ponte tra cinema e illustrazione presentando artisti unici e diversi tra loro.

Seguendo l'hashtag #A24TheParty24, scoprirete 169 illustrazioni dedicate ai film, corti, documentari e alle serie tv prodotti e distribuiti da A24.

Per l'occasione Andrea Fontana ha scritto per noi un pezzo in cui parla dell'esperienza della casa di produzione e distribuzione A24.

Il poster di #A24TheParty24 firmato da Lorenzo Mò.

Di generi e poetiche autoriali: il caso A24

Di Andrea Fontana

Se si prende in considerazione la frammentazione del cinema contemporaneo, la destrutturazione di linguaggi, visioni, nomi, produzioni, l’esperienza della casa di produzione e distribuzione A24 sembra quasi un unicum nel panorama odierno. Eppure, ciò che ha fatto e sta facendo può aiutarci a capire in che direzioni sta andando la Settima Arte, nel bene e nel male.


Dalla distribuzione alla produzione all’insegna della coerenza

Sin dall’inizio della sua storia, la A24 ha messo in chiaro quali fossero le sue intenzioni: produrre film a basso budget, che si inserissero nel cosiddetto filone del cinema indipendente (anche se, spesso, di indipendente c’è davvero poco). A dirla tutta, ha iniziato come casa di distribuzione ma già nelle scelte dei film da distribuire c’era in nuce una chiara volontà estetica, concettuale e filosofica. Alcuni degli autori distribuiti sono, successivamente, diventati autori prodotti proprio dalla A24, probabilmente perché c’era un’unità di intenti. Robert Eggers, Alex Garland, Jonathan Glazer, i fratelli Safdie sono solo alcuni esempi di registi passati a lavorare a stretto contatto con la A24. E questo è il primo elemento da sottolineare, la voglia di creare una sorta di farm di wharoliana memoria, una dimensione creativa in cui far confluire idee, sentimenti, corpus autoriali. Il rischio, in questi casi, è di congelare l’estetica e l’etica di queste visioni sotto un’unica egida uniformante, ma se è vero che la casa di produzione ha veicolato un’idea di immagine e di costruzione dell’immagine che è diventata riferimento obbligato per molte produzioni contemporanee che hanno inseguito, spesso invano, la formula del successo della casa di produzione newyorkese, è altrettanto vero che il rispetto assoluto verso l’indipendenza intellettuale dei propri autori è emerso con forza e pare evidente in alcuni film che, probabilmente, avrebbero faticato ad avere spazio altrove. Film che possono anche essere clamorosi fallimenti. La storia della A24, in effetti, è una storia di alti e bassi, di percorsi sbagliati e di notevoli illuminazioni. Tutto, però, parte da una trasversalità che riguarda, innanzitutto, il genere. Se si va ad analizzare le produzioni ci si ritrova con un ampio ventaglio di generi assai diversi tra loro, dall’horror al dramma, dalla commedia sarcastica al coming of age, il che la pone in una situazione simile alle grandi case di produzione ma più vicine per sensibilità a quelle realtà più settoriali, come BlumHouse. Un’intersezione globalizzata che però è lontana dall’essere schizofrenica, si percepisce una solidità della visione, dell’idea che vi sta dietro. Idee che possono assurgere a trionfi. O a catastrofi. Entrambi sono considerati in egual misura. 

I trionfi non si misurano necessariamente con i numeri degli incassi. È un fattore importante, certo, ma non fondamentale. Il film con il maggiore incasso è Everything Everywhere All at Once, seguito da Civil War. Mentre il primo è stato una sorpresa, poiché nasceva come curioso incrocio tra il serio e il faceto, il demenziale e l’esistenzialismo, di fatto costruendosi una strada verso un successo mondiale che ha raggiunto con la vittoria  dell’Oscar come Miglior Film e Miglior Regia, il secondo palesava mire ben più alte, se non altro per i budget che vi stanno dietro: 25 milioni il primo, il doppio il secondo. La A24, insomma, sta spostando le sue mire, sta alzando il tiro, sta gonfiando i numeri. Non solo premi, anche incassi. E dire che il percorso era iniziato bene: il primo film prodotto dalla A24, Moonlight, ha vinto inaspettatamente l’Oscar.

Moonlight by Veronica Ruffato.

Everything Everywhere All at Once by Francesco Di Pietro.

Civil War by David Ferracci.


Il fallimento come orgoglio autoriale

Più che i successi, a misurare le intenzioni creative di questa casa di produzione sono i fallimenti. E per dimostrarlo, è importante prendere due esempi, due nomi che sono iconici per la A24: Ari Aster e Robert Eggers. Entrambi autori che stanno tentando di riformulare il genere horror secondo le loro velleità hanno goduto di un discreto successo e quindi di un’importante fiducia. Eggers ha esordito con The VVitch, distribuito da A24 che si è subito offerta di produrre il suo lavoro successivo. Peccato che quel lavoro sia stato The Lighthouse, un film in bianco e nero, dove le direttive visionarie di Eggers sono portate all’eccesso, con risultati esteticamente sorprendenti ma evidentemente lontani dal gusto del pubblico. Ari Aster ha goduto di totale fiducia: Hereditary e Midsommar, nel loro modo diametralmente opposto eppure congiunto di rappresentare l’orrore atavico, sono stati successi straordinari. Il terzo film, Beau ha paura, è forse il più coraggioso dei tre, quello più sbilenco rispetto al gusto del pubblico, il più volutamente imperfetto tanto da rasentare la sperimentazione. È stato un netto fallimento. The Lighthouse e Beau ha paura definiscono, più dei titoli precedenti, le intenzioni concettuali e autoriali della A24, che forse si può racchiudere in un discorso soprattutto in virtù dei suoi fallimenti. Proprio perché esplicitano il desiderio di fare un cinema che vada oltre le aspettative. Nonostante tutto. A prescindere dai generi.

Hereditary by Gianluca Borgogni.

Midsommar by Greta Xella.

Generi transizionali

Anche nelle operazioni più scontate, la A24 ha dimostrato grande coraggio. Nel raccontare il passaggio all’età adulta, le complessità dell’adolescenza (Eight Grade, Mid90s) ha provato nuove strade di rappresentazione, nel ridefinire l’orrore esistenziale e trascendentale ha posto nuovi standard estetici, ma soprattutto ha provato (spesso riuscendoci) a stimolare le velleità dei suoi autori, cercando di superare l’idea contemporanea di immagine (Diamanti grezzi, La zona d’interesse, Dream Scenario, Civil War) o sublimandola intensificandone l’elemento allegorico (Men, The Whale). 

La speranza, dunque, è che nonostante l’approccio della A24 sia evidentemente cambiato, puntando a budget e incassi nettamente più alti dei precedenti, permanga quel rispetto verso la libertà artistica e creativa dei suoi autori, contemplandone eventualmente l’insuccesso. E magari carpire nel fallimento la grandiosità del proprio operato, in un contesto in cui il desiderio di creazione è vincolato a logiche commerciali autoindotte. Un’utopia, forse. Più concretamente una folle speranza.

Eighth Grade by Francesco Guarnaccia.


Red Rocket by Matilde Simoni.

Under The Skin by Fabio Malpelo.

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