Moby Dick City Blues - Dove finisce il mondo e inizia l’Uomo
«Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di tutte le cose insensate e informi, che stanno nell’inerzia mute e impenetrabili allo spirito»
Partire. Che non è solo allontanarsi da un posto per un altro; è dividere, prendere le mosse, allontanare, iniziare. Iniziare? Cosa? Iniziare a leggere un libro, iniziare a scriverne. Allora c’è il bianco, omnicomprensivo, delle tutte possibilità, o per meglio dire dell’apprensiva percezione, sventrato dal movimento che genera l’arco sotto cui si nasconde la corda del presumibile; uno sforzo intimo quanto è intenso.
Uno sforzo che non garantisce rendita, e che se in quel bianco trova solo altro bianco, un imitatore del vero bianco custode del tutto e belva schiva, altro bianco non può che produrre. È la soluzione più ovvia, un tutto che diventa niente.
Ma se così non fosse, quel bianco diventa tutto e il suo contrario, e quando questo contrario è tale da sprofondare nelle viscere di sé stesso, eccola, allora, la trance dell’inspiegabile, il nero. Nulla, il silenzio esterrefatto del niente che diventa tutto, lo streben della penuria, l’insufficienza desiderosa e, per questo, incolmabile.
Tutto il resto è la famosa zona di grigio, ma vale il gioco la sua candela quando agli opposti delle sue possibilità ci sono queste due conclusioni, che sono dannanti in entrambi i casi, vuoi per la loro ridicola finitezza, vuoi per la loro oscurità senza fondo?
Mica facile, allora, partire. Non si biasimi la procrastinazione, perché ci vuole coraggio.
Anche perché il viaggio, quasi l’avventura, che segue questa decisione non garantisce che sprofondamento od ovvietà siano solo un ricordo passato di una decisione fortunata: ognuno dei passi del percorso è una cerniera che contiene la stessa angoscia del primo. Forse è questo che la rende avventura?
Che parola, un’altra, fradicia di pronunce. Eppure, guardando senza il cuoricino negli occhi – è difficile, serve spirito – al fumetto, quello nostro, vicino, sembra che lei sia diventata caligine in un cielo di ieri.
Una delle grandi critiche che il fumetto nostrano subisce, negli ultimi anni, è la grande carenza di quel senso di avventura, di spericolatezza, sequestrato dalle ombre degli spiriti d’autore, l’esperienza dell’Io che è storia iniziata e finita, anche se talvolta, forse per saturazione, forse per cultura del self-brand, è poco storia e molto Io, un atto di sfog(gi)o più che di racconto.
Ecco allora il primo motivo che fa grande Moby Dick City Blues: l’avventura. Un’avventura che non è solo impetuosa e indomita, ma che è azzurra e cristallina nella prepotenza del suo viaggio, una singolarità di un tanto, un tantissimo che è il seminato del passato nel terriccio umido delle nostre chimere, racchiuso dentro un poco di 208 pagine e di un qualche centimetro, 17 e 24, di fumetto. Un buco nero, di un nero intraducibile come quello di cui sopra.
Un'avventura in piena definizione, un fumetto che sarebbe piaciuto a Hugo Pratt o ad Attilio Micheluzzi, e che ha la tolleranza, ludica, studiosa, di non fare della sua traversia manifesto, di non renderla assolutezza, germe di reazione, ma al contrario di farla spugna che, imbevuta del passato, non per questo esclude il presente, e quindi genera il futuro.
Perché l’avventura di Moby Dick City Blues è tale solo in quanto personale, è il viaggio di una prima persona che all’inizio è sì il profugo Ismaele, ma che infine disarciona la pagina diventando la prima persona del lettore, spersonalizzandosi e quindi universalizzandosi, diventando sfogo personale – come vuole l’adesso – tanto quanto è viaggio astrale. Che l’esperire soffochi l’ego affamato di sfog(gi)o in un sortilegio che è il fumetto.
Non finisce certo qui, perché Moby Dick City Blues ha un altro grande pregio, ed è quello di aver saputo assorbire e risputare il presente non solo in termini di genere, di “tendenza”, ma anche di rappresentazione. Il racconto inizia con un Ismaele che poi sfuma nelle pupille di chi rende le sue pagine fatti, certo, ma Ismaele, in quanto tale, è già tale.
Ismaele, il figlio di Agar, la schiava, la legge, è manifesto del subalterno dimenticato nel pandemonio della città-mondo babelica, la città di oggi, la metropoli, megalopoli, tuttolopoli, predatoria dei cieli feriti dalle travi d’acciaio, infettati dalle sinestèsi di intermittenza luminosa ed elettronica, bagliori di led che proprio verso l’alto gridano, feroci e ambiziosi, abbandonando il suolo contraffatto dall’asfalto, giocattolo di cui ci si è stancati, alle ombre perpetue, ombre in cui le anime sole, quelle ricusate da quei bagliori, barcollano in equilibrio sull’orlo di un marciapiede.
Città-mondo specchio dei non luoghi che abitano coloro che le abitano, le facciate dell’opulenza putrescente di una realtà, quella oltre l’orizzonte di questo fumetto, la nostra, fatta di certezze che non esistono, anzi, vincolante alle sue certezze inesistenti; una realtà che concepisce il suo solo standard di ostentazione, e che dimentica le sue fondamenta ad ammuffire mentre, ebbra della sua euforia vacua, si contempla.
Un mondo, strade, palazzi, piazze, costruito non solo perché finto, ma perché non più fatto per viverci senza saper di viverci, e invece fatto per un qualche cosa che non c’è e che noi, ipnotizzati, inseriamo per dar senso e valore alla vita. Una certezza, per l’appunto, che non esiste.
Una certezza che in quanto tale esige pegno per la sua graniticità, sempre, con noi prostrati ai piedi, in catene, fermi, certi. È il nostro mondo, appunto. Un mondo, guarda caso, senza avventura.
Marco GK Gnaccolini e Cosimo Miorelli, così, con Moby Dick City Blues captano le vibrazioni del fumetto contemporaneo e rispondono offrendo qualcosa di più, individuandone esigenze e mancanze e combinandole in un’opera, articolata in un labirinto dove lo spazio bianco scompare sempre più dietro a vignette-mondo come le città che rappresenta, la cui pelle spuria di fumetto e illustrazione (altre due tendenze ben radicate nel fumetto di oggi) grida, grida, grida forme e parole e colori, manifesti dei poveri vagabondi che hanno ritrovato il senso del volo in un mondo che ha perso, nella riduzione e costruzione, il senso delle ali, e che ambisce al cielo senza staccarsi mai da terra, compromettendo in partenza la propria, discutibile, missione.
Eris Edizioni pubblica l’ultimo singulto del Progetto Stigma, che come nel più classico dei finali drammatici è un incendio formale e narrativo, un viaggio esaltante nei meandri delle possibilità che quel bianco dell’inizio è in grado, miracolosamente, di offrire.
Per questo, e per tutti i motivi precedenti, è facile indicare Moby Dick City Blues, almeno per ora, come il più bel fumetto italiano pubblicato in questo 2024; o se non altro il più vivo, il più caldo, il più intenso.
Il più nero.
Japo Corradini