Mano nella mano dentro un sogno miyazakiano
Cosa resta dell’eredità di un Sognatore?
Per il livello di universalità raggiunto, oggi in particolar modo, parlare di Hayao Miyazaki è diventato probabilmente molto più complesso di quanto non lo fosse ai tempi degli esordi del Ghibli, o del primo successo occidentale grazie a Principessa Mononoke. Soprattutto dagli anni Duemila in avanti, con la consacrazione globale e la premiazione sia a Berlino che a Los Angeles de La Città Incantata, è andata rapidamente componendosi una cosmografia bibliografica la cui mole oggi esonda il misurabile, in un fenomeno di corroborazione virtuosa e reciproca con un immaginario fatto di merchandising, parchi a tema, playlist musicali od opere fan-made capace di traforare la cultura generale fino a lasciarne un cratere che, a tutti gli effetti, possiamo considerare al pari di quelli lasciati da altri grandi nomi nella storia, del cinema e non. Vi sfido a trovare qualcuno che non sappia di cosa si parla, quando si parla di Ghibli o Miyazaki.
La prova? Questo articolo, all’interno di un portale dedicato essenzialmente al fumetto (sì, Miyazaki è anche un mangaka, ma non credo siate qui per questo), per parlare dell’operato cinematografico di questo autore.
E, per l’appunto, fatte le premesse del caso, come parlare oggi di Miyazaki? La sensazione è che, in quei profluvi di parole dedicatigli durante la sua carriera cinquantennale, sia già stato detto bene o male tutto; che quel suo immaginario maliardo sia stato eroso e consumato ben oltre il torsolo nascosto dentro il torsolo dagli incontri tra i miliardi di frames acquarellei e i miliardi di sguardi attoniti che costituiscono l’esperienza miyazakiana; che la magia si sia esaurita nella realtà – essendo il magico tale solo se appaiato a ciò che è reale – e che quest’ultima, il suo carattere dimostrativo, abbiano infine mutato il chimerico nel convenuto.
Eppure, ogni qualvolta quello schermo nero sfumi nell’azzurro limpido che dà sfondo all’amichevole Totoro (e, per questa volta, lasciamo che marketing e magia non si pestino i piedi a vicenda), le certezze di queste funeste sensazioni evaporano come del liquame sozzo in un bagno termale d’oltretomba: la prima nota di piano s’impregna dell’iride del primo quadro, e non ha tempo di fremere la povera pupilla che siamo ancora oltre una soglia di uno spazio che è mai e di un tempo che è nulla, mentre un nuovo gradino di senso compare sulla scalinata che, invecchiando nel corpo e ringiovanendo nell’animo, pensavamo di aver salito fino in cima.
All’ennesimo rewatch, il film che pensavamo di sapere a memoria s’inventa qualcosa di nuovo da suggerirci, celando un indizio allo scorso appuntamento invisibile (o forse davvero assente, chi lo sa) fra trame di boscaglia, in una maledizione deformante, nel segreto di una ricetta o lasciando che sia il vento a portarlo e a levarci leggeri come le nostre sparute supposizioni, atomi irrequieti in cerca d’approvazione, destinati a vagare senza speranza finanche oltre il perimetro dello schermo. Quel tutto che è già stato detto, alla fin fine, è un tutto che sussiste nella sola autoctonia, perché se decidiamo di concederci, anche solo un’altra volta, al gioco delle immagini del maestro giapponese, non solo la parola ma perfino la ricerca di ogni sua combinazione diventa nuovamente un gioco effimero di significazione, atto a contenere un qualcosa che semplicemente non si può incastonare, appesantire.
Ed è proprio questa necessità che tutti abbiamo di spiegare e possedere, tipicamente umana di fronte all’incomprensibile, che rende l’opera di Miyazaki così immane: multiple generazioni di uomini intrappolate nello stesso tranello della decifrazione, imbarcate in un viaggio che non è poi tanto diverso da quello dei protagonisti dei film che guardano, forse proprio per questo giunti infine a una tale cifra di universalità, nei cui miraggi sognanti e vagheggianti del fantastico sono serbate le infinite verità del reale.
Se fosse decifrabile l’opera di Miyazaki sarebbe altrettanto decifrabile anche il mistero della realtà, ma a quel punto che senso avrebbe vivere? Un finale che si concede alla cupidigia dell’aspettativa è un corpo che non val la pena di spogliare, una trama che si arrende al gioco delle parti è un compromesso che si compromette, e allora non solo vana ma vanesia diventerebbe quella magia che gli occhi di tutto il mondo è riuscita a incantare.
Quello che possiamo fare, allora, più che cercare un senso, è tracciare un cammino, indicare una via, guidare all’ingresso del tanto acclamato Mondo dei Sogni e della Follia, per poi, come per ogni cosa, lasciar andare. Oblomov, in onore del ritorno al cinema di Hayao Miyazaki con Il Ragazzo e l’Airone, ci regala un volume che è una piccola gemma, un viaggio illustrato a cavallo fra il sogno e la storia, fra l’idolatria e lo studio, del più importante regista giapponese vivente, dove più che cercare una soluzione, per l’appunto, vi sarà facile attraversare un varco, camminare un sentiero fra gli infiniti possibili, trovare un mondo in cui accamparvi, infine, e scorgere un vostro significato, in attesa che un altro e poi un altro ancora sopraggiungano, alimentando il mistero di un artista e di un uomo che ha cambiato, probabilmente irreversibilmente, l’immaginario e l’immagine di un mondo, il nostro, che ha ancora troppi segreti da rivelare.
Japo Corradini