Essentials: Howard il papero di Steve Gerber
Sono abbastanza sicuro che lo sappiano tutti quelli che mi leggono ormai, ma vale la pena ripeterlo: prima di scrivere la rubrica Essentials, ho diciamo prestato la penna a vari progetti personali e professionali.
Questo per dire, gran parte dei pezzi che avete trovato o letto in queste pagine virtuali, sono fondamentalmente dei remake; sono versioni scritte (spero) meglio di cose di cui ho già parlato su internet, a volte fino alla nausea.
Che è un grande, grandissimo vantaggio: posso concentrarmi su quello che funzionava la prima volta che ho formulato questo o quel pensiero su questo o quel concetto, e limare tutto quello che poco c'entra col resto, e tirare fuori un prodotto quantomeno decente per gli Audaci, e per voi che mi leggete. Ecco, io di quest'opera non ho mai parlato in vita mia. Ma non perchè non abbia cose da dire, ma perché ho un timore reverenziale di tutto quello che ha mai toccato Steve Gerber, a dei livelli “da far tremare i polsi” per citare un altro grande del fumetto.
Ma prendiamola stretta questa volta, andiamo subito al sodo: Howard il papero è nella top 3 delle opere più influenti del mercato del fumetto americano tutto. Non solo perché è un qualcosa che ha scardinato più concetti di quanti possiate immaginare, ma perché ha toccato il mondo vero in modi a dir poco sorprendenti.
La storia è piuttosto semplice. Nel 1973 Steve Gerber stava scrivendo una storia di fantascienza con protagonista il mostro noto come Uomo Cosa (nella serie Adventure into Fear), che in un giro fra le dimensioni raccatta come alleato un paperino palese parodia dei personaggi Disney creato per dare vita ad una sorta di dissonanza cognitiva: un personaggio “umoristico” si trovava in una situazione serissima, e se nei cartoni al protagonista buffo cadeva in testa un pianoforte il risultato era una gag, se ad Howard fosse caduto un pianoforte in testa il risultato sarebbe stato sangue e piume.
In principio disegnato da Val Mayerik, Howard otterrà un bizzarro successo di pubblico di nicchia, che porterà piano piano ad avere una sua serie regolare, sempre scritta da Gerber ma disegnata fra gli altri da Gene Colan.
Chiamato in modo scherzoso “Il decano”, Gene Colan era un caposaldo del fumetto, un maestro dell'arte realistica, uno dei pochissimi autori in casa Marvel che poteva ignorare le richieste dell'editor capo di adattarsi allo stile di altri perché, per sue stesse parole “Se lo volevi fatto da Dikto, lo chiedevi a Dikto”, che si trovava a dare vita ad un papero con il cappello e la giacchetta che girava per una New York quasi manierista.
Il risultato fu spettacolare: c'era una connessione fra Gerber e Colan straordinaria, tutto era così vero, e al contempo così finto, ogni momento tragico era indistinguibile da un momento comico, e tu restavi bloccato ad ogni pagina nel cercare di capire se ci fosse una battuta nella storia di un papero che veniva da un'altra dimensione e restava bloccato in un mondo non suo, e alla fine capivi che non c'era davvero niente da ridere.
Certo, i primi numeri della serie di Gerber hanno uno stile più che parodistico, una di quelle cose che piacciono tanto alle liste su internet che parlano delle cose strane del fumetto, tipo quella volta che Howard ha combattuto contro una mucca vampira, o quando è diventato maestro di un'arte marziale chiamata Quack Fu. Fa ridere? Forse. Ma senza contesto, senza aver letto la storia originale, senza rendersi conto che Gerber non voleva prendere in giro il fumetto di genere, non voleva parodizzare la letteratura, voleva ridere della società americana, eppure non ci riusciva.
In quel periodo storico, ad esempio i film di Kung-Fu andavano per la maggiore, e Gerber era molto preoccupato da quanto si glorificasse la violenza nella cultura di massa.
E potremmo stare ore, ore a discutere quanto sia vero o meno che i media ci influenzino, e quanto invece sia colpa della società o se sono i media riflesso della società e quindi... ma non siamo qui per questo, siamo qui per parlare di un fumetto che vedeva un problema, che riteneva sistemico (ed in effetti, che la cultura americana sia tanto basata sulla competizione, e quindi sulle lotte, non è un'idea così bislacca) e voleva fare qualcosa a riguardo. Voleva, a modo suo, aprire gli occhi ad un mondo che gli sembrava cieco, voleva dare voce a chi la voce non ce l'aveva, e voleva dare un simbolo ad una società alla disperata ricerca di qualcosa in cui credere.
Quindi gli diede un papero col cappello.
Ed è tutto così bello, perché è tutto così profondo e così superficiale allo stesso tempo, ogni volta che Gerber apre la bocca sulla politica fa delle digressioni che sono a volte di una banalità sconcertante, così piatte da sembrare le classiche frasi ripetute al bar dalla cricca del quartiere, a volte invece escono dei pensieri così cuciti su misura, così personali, che anche se non ho mai sentito la viva voce di Gerber, posso quasi metterci la mano sul fuoco che ne capirei l'intonazione.
Se Howard era l'unica persona sana in un mondo di scimmie pelate, Gerber a modo suo si sentiva l'unica persona sana in un società fatta di... sempre scimmie pelate, immagino.
C'era una crasi così profonda fra autori e personaggio che non sembrava esser possibile: alla fine il fumetto era la visione esistenzialista di un uomo, che era sia molto intelligente, sia fondamentalmente un tizio normalissimo inserito e proiettato da un mondo molto piccolo ad uno molto grande.
Per me non è tanto sconcertante il fatto che Gerber fosse così pieno di risvolti e moltitudini: per quanto io mi diverta a scrivere di fumetto in rete, professionalmente mi occupo di preparare le persone ad incassare i pugni della vita e ridarli indietro, lo so benissimo che siamo una specie bizzarra fatta di mille e più cose, che tutto quello che intendiamo come “il nostro vero io” siano solo un'insieme di costrutti arbitrari, eppure...
Eppure Gerber, siccome non aveva tempo di scrivere una sceneggiatura per il numero 16 di Howard il papero (perché si sentiva soffocare dalla vita di città e cercava quindi fortuna trasferendosi), scrive tutto un numero che altro non è che una lettera al suo più grande fan e detrattore: se stesso.
Una lettera a cuore aperto, dove l'autore in un messaggio non metatestuale ma solo testuale apre completamente il suo cuore e la sua testa a noi lettori, rendendo sempre più chiaro il fatto che questo fumetto faceva solo finta di essere un prodotto d'intrattenimento. Era in effetti un diario tenuto dal suo creatore, che provava a mostrarci quell'illusorio “Io”, da dietro le pagine di un albo.
Un albo dove ad un certo punto uno struzzo si picchia con una ballerina, idea peraltro che poi verrà ripresa da Gerber per un fumetto successivo... ma se inizio a parlare di quanto Steve sia probabilmente uno dei più grandi autori del 900 non credo di essere in grado di fermarmi, e ho già cancellato questo paragrafo sette volte prime di fissarmi su di questo.
Perchè sì, tendo a farlo, quando parlo di queste cose che mi toccano il cuore.
Non pretendo certo che tocchino il vostro, di cuore, nello stesso modo in cui hanno toccato il mio, mi rendo conto che spesso il mio gusto personale è una bussola che indica il Sud, un qualcosa spesso in direzione ostinata e contraria rispetto a quello di gran parte dei lettori, ma la prima volta che ho messo le mani su Howard il Papero avevo circa 23 anni, il mondo davanti, e quella spocchia che solo chi crede di essere molto furbo ha. Quella maledetta presunzione di sapere già tutto, quella voglia di rivalsa verso un mondo che credi di aver capito, e mi trovavo davanti l'opera di un tizio che stava vivendo esattamente quello che stavo vivendo io.
Un'opera dove per metà del tempo pensavo “Ma guarda che stupido che non ha ancora capito X” e per l'altra metà restavo a bocca aperta perchè invece Gerber mi aveva fatto capire Y.
Il tutto, ovviamente, condito da una dose di insanità amara come fiele, dove mi veniva mostrato un supercattivo con una campana al posto della testa che trovava l'amore verso l'unica persona in grado di capire il nostro papero, e forse, quell'amore veniva pure corrisposto, in una tragedia ricorrente che più che creare una narrazione a cerchio la faceva in forma di uovo.
Insomma, se questo è un pezzo meno tecnico, un poco più sgangherato, un pezzo che cita solo di sfuggita il fatto che ad un certo punto Howard si candiderà alle elezioni americane del 1976, facendo registrare un pochino di voti per un personaggio immaginario, è perché nel centro di tutto c'è il mio voler cercare di farvi capire perché questo fumetto che è tutto e il contrario di tutto sia essenziale.
E sì, va bene, se vogliamo essere precisi la candidatura di Howard era ovviamente uno scherzo di Gerber, e sebbene la gente possa scrivere qualunque cosa sulla scheda, i voti scherzosi non vengono contati, quindi ci è impossibile sapere se la gente avesse votato o meno per Howard il papero, sebbene Stan Lee ci tenesse a dire che i voti per il personaggio Marvel erano stati migliaia.
Che, va bene tutto, ma la pubblicità è pubblicità, e quella Stan Lee la sapeva fare meglio di quasi chiunque altro nell'industria.
Ma torniamo ai paperi.
Gerber lascerà poi la serie col numero 27, e sarà sostituito a turno da un vero Who's Who dei campioni delle serie che vendevano abbastanza bene dal non poter esser chiuse, quello stuolo di grandi artigiani Marvel che scrivevano un po' di tutto come Bill Mantlo, ma come diciamo a Genova, era finito il cinema.
Howard non era più un fumetto filosofico il giusto, era solo un fumetto assurdo con un papero che faceva le cose e tutti ridevano perché era un papero, e faceva le cose buffe.
E questo spirito resterà con la testata per sempre, anche quando verrà rilanciata anni dopo quando il personaggio sarà opzionato per un film, che molti amano chiamare film di serie B per gli effetti speciali, dimenticandosi che: A) la colonna sonora è comunque bellina e B) il problema non era che era un film sciocchino, era che, di nuovo, non era adattato, era riscritto.
Si proverà a più riprese a ridare vita ad Howard, lo stesso Gerber proverà a scrivere una miniserie dove il personaggio diventava un topo, ma era tutto fuori tempo.
Howard il papero era un serie che poteva esistere solo in un certo momento, solo in un certo contesto, e solo da un ristretto gruppo di persone, che peraltro dovevano pensarla allo stesso modo, e credetemi, almeno un buon 70% di tutte le opere Marvel precedenti, l'ultimo punto non ce l'avevano neanche col binocolo.
Perché va bene, facciamo finta che realizzare che il fumetto sia un (debole) manifesto filosofico di un uomo non conti, mettiamo sul piatto che sia solo un progetto umoristico atto a ridere della casa editrice. Allora abbiamo di fronte un fumetto tagliente come un rasoio, che conosce i meandri del medium in cui si muove alla perfezione, che non fa un solo passo falso perché ogni vignetta è perfettamente calibrata e studiata, dove il volto caricaturale del protagonista distorce la percezione di quello che è vero e quello che non lo è, squarciando la nostra percezione con precisione chirurgica.
Un fumetto granitico, quasi scolpito nella pietra dove questi corpi con anatomie perfette venivano deformati da emozioni fin troppo umane, e colpiti nel profondo per quanto dopo poche pagine la cosa più spaventosa era una signora anziana fissata coi reni rispetto ad una rapa spaziale.
Howard il papero era una vera lezione sul cosa potesse fare il fumetto, sul come il medium riesca a dare davvero qualcosa in più rispetto ad ogni altro stile, permettendo non solo di mostrare cose straordinarie in modi ordinari come fa l'animazione, ma anche di riempire noi lo spazio bianco fra una pagina e l'altra, rendendoci quasi co-autori delle storie del personaggio.
Questo è, per me, il più grande pregio del fumetto, quello stare in mezzo fra il controllo dell'autore e quello che ha il lettore, e poche opere sono riuscite nello sposare questa causa come le prime avventure di Howard.
E se questo non vi basta, se vogliamo salire l'iceberg invece che scenderlo, per quanto la cosa mi sorprenda, ma capisco benissimo che ognuno legga nelle storie se stesso, la sua vita, le sue esperienze, se davvero volete ridere perché è un papero che combatte una mucca vampira, fatelo pure, va bene così. Se pensate che Howard non abbia saggi consigli ma solo proverbi e luoghi comuni di un mondo che non esiste più, va bene così.
Però sappiate che dietro questa fabbrica di trovate strampalate, c'è il cuore pulsante di un team di autori che ha deciso che non aveva nulla da perdere, e ha provato a fare il fumetto che avrebbe voluto leggere.
Che è la base di quello che era, è, e sarà il fumetto Marvel in tutto.
Ridiamo pure del papero, ridiamo pure della sua vita, ma sappiate che c'è un mondo intero dietro quelle piume.
Giovanni Campodonico