Shady – Scrolling illustrato

Il meta-gioco di Brecht Vandenbroucke tra verità, apparenze e ossessioni
 

Ho in mano il volume di Shady. Non c’è che da aprirlo. E, una volta finito di leggere, non c’è che da chiuderlo. 

La mia frustrazione si respira nell’aria. Devo farne una recensione e non so assolutamente cosa dire: cos’è questo oggetto che ho in mano? “Un fumetto” non è una risposta sufficiente: Shady dice un sacco di cose, ma essenzialmente non narra. Non in un’accezione negativa, ma il racconto, quando c’è, è frammentario, rappreso: Shady condensa, più che narrare.

Ed è qui che sta tutto il discorso: è una raccolta di illustrazioni? Eppure c’è il pretesto narrativo. È una storia? Eppure è più un insieme di sequenze illustrative che altro. Non sapendo esattamente cosa stia accadendo in quel mio cervello che nel frattempo va in fiamme per cercare di trovare una via d’uscita dal rabbit hole in cui mi sono infilato, mi sdraio sul letto stremato e guardo il soffitto.

Ma da buon gen Z dal bisogno compulsivo di stimolazioni sensoriali a basso risparmio energetico, apro Instagram e scrollo come una furia con un certo fare inorgoglito nel movimento del pollice, pur di intiepidire le mie sinapsi torride. Ed è lì che ho un’intuizione: non avevo appena finito di scrollare? Eppure stavo leggendo Shady.

Ah…

In dubbio sul ritenere questa cosa più un pregio che un difetto o viceversa, realizzo che ho fruito di Shady in maniera analoga a come potrei fruire di una bacheca a scorrimento verticale: sono diventato così superficiale? Rileggo.

Punto e a capo.

È allora in quel momento che mi viene il dubbio: e se fosse questo fumetto a prestarsi a questo tipo di lettura? C’è la macro-trama di sfondo, e poi tutta una serie di cose che appaiono e scompaiono così veloci che si sovrascrivono a vicenda. Un po’ come in questi ultimo mese e mezzo, dove alberi di Natale e stelline di Capodanno hanno inframezzato come il nero dei battiti di ciglia il dram(m)a dei pandori truffaldini e dei pigiami color grigio-caveau-di-banca: d’altronde tutti siamo stati (e siamo ancora) assetati di una conclusione a questa vicenda, ma non è che si può star qui a pazientare che il tutto si risolva senza degli stuzzichini di contorno. Quando vai a mangiare fuori ti portano i cestelli di pane, no?

Ecco allora che questo fumetto, che attraverso il narcisismo ossessivo ed idiosincratico del suo personaggio principale racconta un mondo – quello attuale, non serve stare a dirlo – ossessionato dallo sguardo e dall’ostentazione dello stesso, dal giudizio e dalla normalizzazione dello stesso, dal progressismo e dalla negazione dello stesso, nega suddetto mondo contemporaneamente somatizzandolo.

È così che la storia del cane randagio Shady, antieroe contemporaneo che oscilla fra insicurezza paraplegica e auto-celebrazione apoplettica in una ricerca compulsiva dell’altrui attenzione (con come unico avversario, la conclamata nemesi Basic B*tch), non solo riflette e biasima il cane randagio che ogni giorno – almeno a detta del suo autore – ci appropinquiamo ad essere tutti noi, terrorizzati dalla dicotomia di un’esposizione assuefacente, ma diventa esso stesso riflesso del riflesso, il mezzo stesso per accedere alla finzione di un racconto tanto repulsivo quanto stuzzicante: alla fine, falso per falso che differenza fa?

Con le sue estetiche plastificate e bubblegum, talvolta dalla decadenza boschiana, Shady esagera uno sguardo a metà fra il grottesco del fumetto nord-europeo e i retaggi della cultura pop più icastica (come le bambole Trolls o l’avvenenza del glitter), che più che indagare, compromette tanto sé stesso quanto lo sguardo, del suo autore, del suo lettore, del suo protagonista. 

Il dubbio è se questa sia una cosa intenzionale o meno: se così fosse, se Brecht Vandenbroucke avesse coscientemente costruito questo meta-gioco sotto il nostro naso, potremmo dire di essere davanti ad una sorta di nuovo media, un proto-fumetto-scroll-illustrato-multidirezionale (che-mio-padre-alla-fiera-comprò)?

Boh. Vi ricordo che tutto questo è un trip da collasso nervoso sul letto, probabilmente dettato da un mash-up di ansia da prestazione, frustrazione per l’incapacità di trovare una soluzione al cruccio dell’inizio e, soprattutto, piatti da lavare. Perciò preferirei non crearmi altri problemi che già di capelli ne ho pochi.

Anche perché, non dovesse essere così, non fosse tutta questa incarnazione del (presunto) “male” sociale una soluzione volontaria, Shady sarebbe allora una via di mezzo, indeciso fra il genio di certe singole tavole o addirittura sole vignette che raccontano in due immagini tutto quello che siamo e che sappiamo, e l’incapacità di schernire e questionare un problema sociale esteso senza astrarre la sua narrazione dallo stesso.

Ma appunto, io di risposte non ne ho, e anzi, siamo così spesso portati a necessitare di credere all’esistenza di una risposta, dell’univocità che questa porta con sé a prescindere dal fatto che possa questa esserci nota o meno, dimenticando che, nella stragrande maggioranza dei casi, una risposta che renda giustizia a questa definizione essenzialmente non c’è: dipende solo da come quest’oggetto ci si pone fra le mani, da come decidiamo di assorbire ciò che ne esce e quindi da quello in cui scegliamo di credere, fra tutte le cose che questo lavoro dice, direttamente o meno, visivamente, verbalmente o con sensi altri.

Un po’ come si dovrebbe fare con quei tanto demonizzati mezzi malefici distruttori di mondi con cui ora state leggendo (ed io sto scrivendo) queste righe: niente è dato, e nel giusto o nell’errato l’apparenza dissolve la verità delle cose. Prima ancora di chiedersi se sia vero che Shady è un riflesso di noi stessi spietatamente sincero, ci si dovrebbe chiedere cosa non è Shady rispetto a tutto il resto: questiona, ma cosa? Come? Perché?

La critica che faccio a questo fumetto è soltanto questa: per apprezzarlo, bisogna dare per assodato che dica il vero. Eppure la sua questione è proprio la vendita della verità. C’è un piccolissimo cortocircuito che potrebbe esaltare o condannare il tutto, può essere un bene come un male: per citare uno dei più controversi artisti del moderno, “l’opposizione è necessaria affinché le cose siano”.

Japo Corradini

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