Il graphic novel dell’autore svedese, edito in Italia da Saldapress, ci conduce in una dimensione onirica e surreale senza rinunciare a una buona dose di critica e satira dell’industria del benessere
Nel 1929
Buñuel e
Dalí mostrarono al mondo lo squarcio orrifico e doloroso di un occhio di donna, esponendo al pubblico una metafora tanto
disturbante quanto necessaria: era ora di vedere la realtà nella sua essenza, di accettare ciò che era scomodo nonostante, appunto, la natura insopportabile della visione. Il Surrealismo non lasciava più spazio a ipocrisie e fughe dalla crudezza inevitabile celata dalla psiche a dal subconscio, e il cortometraggio
Un chien andalou era il portatore sano del messaggio in questione.
Questo paragone non risulta eccessivo di fronte alle tavole ipnotiche - come solo l’horror sa essere - di
Erik Svetoft, autore svedese dell’intricato
Spa, presentato nella versione italiana in anteprima a Treviso Comic Book Festival 2023 ed edito da Saldapress.
Scorrendo le pagine di questo fumetto corposo ed esteticamente travolgente si viene catapultati in un mondo estremamente dark,
onirico e pulp. Le componenti si mescolano donando un’atmosfera surreale eppure al tempo stesso tragicamente concreta. La luce, artisticamente presente, sembra non pervadere mai gli ambienti perché la chiave di tutto risiede nella costante e
avvolgente penombra, che si trasforma a lungo andare in un elemento quasi confortante. Non mancano gli echi al giapponese
Junji Itō, tra immagini mostruose, la spinta visiva verso un senso di nausea, strutture disorientanti e ovviamente il sangue, che in fumetti come questo diviene una chiazza nera, pregnante e profonda, dove lo sguardo si perde come fosse una via di fuga. Echi che rimbalzano anche in
Noah of the Blood Sea di
Yu Satomi e più morbidamente in
Takopi’s Original Sin di
Taizan5.
Lo stile del disegno è estremamente
lineare, nonostante le tematiche e i grovigli presenti nel graphic novel. A dominare sono
tratti essenziali ma non grossolani, caratterizzazioni tutt’altro che realistiche ma ben delineate e riconoscibili. Nonostante la
collosità di alcune scene e l’astrazione generale, niente è mai preda del caos: aleggia un certo
rigore, una certa calma pur negli snodi che dovrebbero essere sconquassanti. Spesso Svetoft ricorre a
simmetrie e forme geometriche, a
pattern ricorrenti e le tavole hanno schemi molto semplici.
Splash page dense e caleidoscopiche si alternano a pagine dal numero di vignette variabile ma mai esagerato, ogni scena è chiara e ariosa e non vi sono azzardi di inquadrature e prospettive, la visione frontale la fa da padrona data la stretta
bidimensionalità delle figure. La totale assenza di onomatopee e i testi assai brevi che riempiono i balloon contribuiscono senz’altro all’
austerità dell’atmosfera.
La storia origina da una macabra scena osservata pigramente da una coppia, attraverso la finestra di un appartamento. I due,
inespressivi - come si dimostrano essere tutti i personaggi, fatta eccezione per la rappresentazione sporadica di movimenti facciali che mimano sarcasmo o cattiveria - non mostrano la minima preoccupazione o empatia, nemmeno quando si rendono conto che nell’abitazione sono disseminati
cadaveri in putrefazione. Decidono così che tutto ciò che serve è una vacanza rilassante alla spa per dimenticare l’accaduto e sperare che al loro ritorno la situazione sia migliorata.
Questo graphic novel si ripropone come una critica alla tanto declamata
industria del benessere, da intendersi propriamente come un’azienda in grado di produrre la felicità, il comfort e restituire a esseri umani ormai irrecuperabili una parvenza di agio, privilegio e fortuna. In realtà ciò che traspare dalla stomachevole messa in scena degli inservienti è una ripetizione a cui siamo così abituati da risultare ridicola: “
Un’oasi lontana dalla vostra vita quotidiana”, “
Un luogo per godere del vostro tempo libero”, “
Uno spazio per fare nuove esperienze”, “
Uno sguardo nuovo per nuove prospettive”. Questo copione a cui attenersi, propinato all’infinito, mostra la limitatezza di persone che ormai si accontentano di un momento di pace preconfezionato, che credono alla favola della redenzione, della rinascita e del ritrovamento del sé. Ma Svetoft, in maniera intelligente e grottesca, smonta pezzo per pezzo la pantomima, accostando agli slogan di benvenuto personaggi abietti e contorti,
confusi, deteriorati.
In questa cornice troviamo un direttore d’albergo vittima del sogno paterno, sogno edulcorato a cui spesso i figli sono sottoposti con senso di inferiorità, che si rivela però inconsistente come tutti i progetti di uomini egoisti e senza talento. Ci sono i problemi con la regolarità nelle ispezioni sanitarie e i soldi sottobanco per metterle a tacere, operatori che sgobbano in lavanderia mentre al piano di sopra si vende il relax e “lo stare bene”, dipendenti che praticano il consueto bullismo con l’ultimo arrivato. Appaiono clienti facoltosi che non rinunciano alla lamentela pretendendo “il meglio” senza nemmeno sapere cosa sia davvero. L’
idillio svanisce, pagina dopo pagina, infangato da una disgustosa
sostanza viscosa, che pian piano si fa largo tra i corridoi e nelle stanze, così come
misteriose forme animali si mescolano a ricordi dai tratti inquietanti e cartooneschi.
E mentre tutto ciò viene disvelato, senza apparente giudizio ma con fermezza, i clienti si accalcano nelle vasche e nei luoghi della salute con
inspiegabile placidità. Come se ansia, dolore, paura che prendono noi che li osserviamo non fossero contemplati, come non lo è però nemmeno la gioia. Regna l’
apatia, ognuno di loro prende le distanze dai propri problemi senza volontà di risolverli, senza nemmeno interrogarsi sulle soluzioni possibili. Solo uno spiraglio, a un tratto: la coppia che abbiamo lasciato in un soggiorno pieno di cadaveri si chiede “Abbiamo sbagliato qualcosa?”. Cade in un “Non lo so, forse sì” l’amletico dubbio, senza ulteriori indagini. I corpi nel loro appartamento potrebbero dunque essere una metafora non troppo sottile della
decomposizione lenta delle relazioni umane, senza scampo eppure lasciata a sé stessa, nell’incapacità di fronteggiare la realtà, di trovare il coraggio di cambiare. Ormai, nell’ottica di Svetoft, ogni cosa è
senza speranza ma ancora fingiamo di non vedere la gravità della situazione. Ecco il perché dell’accostamento con l’opera di Bu
ñuel e Dalí.
Svetoft affianca stereotipi a tratti “da commedia” a un profondo e giustificato
cinismo, lasciando al lettore un retrogusto di smarrimento e amarezza e l’
urgenza di riflettere. Perché in fondo ognuno di noi, almeno una volta, è caduto nella trappola del benessere in pacchetti, meglio se con sconti ad hoc. Ognuno di noi ha cercato di evadere dai problemi del quotidiano utilizzando l’espediente salvifico di un bagno caldo o un massaggio ayurvedico. Nel momento più basso ci siamo ripetuti che “mens sana in corpore sano”, prendendo tempestivi provvedimenti nel weekend tra una settimana di lavoro asfissiante e l’altra. Leggendo capiamo semplicemente di non essere speciali. Non che non lo sapessimo, ma qualcuno - Svetoft - l’ha messo nero su bianco per noi, e ci invita a tornare su quei cadaveri in salotto e a non fuggirne.
Terminato il libro, dopo un finale dal sapore delle chiuse di Lanthimos (si legga: di The Lobster) si rimane a fissare il vuoto. Innanzitutto, alla ricerca di una comprensione profonda. E in secondo luogo, nella realizzazione che quel che Svetoft dice è la verità, anche se potrebbe essere solo un sogno. Perché sperare che sia tutto un sogno è la facile scappatoia dagli incubi più terribili, come lo è Spa. Ma stavolta non ci sarà alcun brusco risveglio.
Aurora Galbero