Gipi, da unastoria a Stacy: appunti per provare a sopravvivere
Dieci.
“Dieci cosa? Mele? Pere?” direbbe la maestra Carmela, leggenda vivente delle mie scuole elementari. Dieci… goal? Tantissimi. O dieci case: molto poche. Dieci chiavi? Mah, forse un numero mediamente giusto, c’è quella del garage, quella della posta, quella del portone, quella di casa… forse alla fine un paio sono in disuso, ma sai mai, meglio averle nel mazzo.
Dieci tardigradi! Oppure dieci anni. Tantissimi. O pochissimi, dipende dal metro di paragone, perché su scala cosmica neanche ci si accorgerebbe del loro scorrere (che poi, fareste bene ad obiettare che su scala cosmica il tempo è un concetto rivedibile, ma io contro-obietterei che il tempo è concettualmente fallace su qualsiasi scala: un sacco di scale, un sacco di concetti, e alla fine arriveremmo a scordarci del perché siamo qui, perciò passiamo oltre).
Dicevamo: dieci anni. Su scala cosmica un nulla, ma su scala umana tutto il contrario. Quante cose possono cambiare in dieci anni? Io dieci anni fa pensavo che sarei diventato un famoso musicista, e avevo molti più capelli. Ora sono un po’ più disilluso e leggo i fumetti (ma quelli li leggevo anche vent’anni fa, a dire il vero). Sicuramente però, dieci anni fa non lessi alla sua uscita unastoria – ero troppo impegnato a salvare il mondo con la mia musica – mentre oggi, dieci anni dopo, ho letto Stacy. E anche unastoria, nel frattempo, sia chiaro. Pensandoci, chi nel 2013 lesse unastoria avrebbe mai pensato di leggere dallo stesso autore, nel 2023, Stacy?
Vi sfido ad alzare la mano. E non perché questi due fumetti siano diametralmente opposti, anzi, tutto il contrario: è la perfetta complementarità che stupisce. Il più ed il meno, capite? Gli abusatissimi yin e yang, il caldo con il freddo, il cacio con il pepe; non che l’uno sia incompleto senza l’altro, per carità. Ma come due buchi neri che iniziano un tip-tap d’orbita affusolandosi l’uno intorno l’altro, questi due fumetti si espandono a vicenda, si allineano per brevi palpiti e disegnano un tratteggio, un’intermittenza, che certamente parte da lidi oppositi e auspica ad altrove altrettanto speculari, ma che in quella contiguità iperbolizza il senso dei suoi attori come in un grandissimo gioco di vasi comunicanti.
Gli opposti che si completano: “lastoria” di Silvano, lo scrittore che, dimenticando il guizzo fantastico, perde la concezione di sé stesso fino all’aberrazione psichiatrica, e quella di Gianni, lo sceneggiatore che, fantasticando su guizzi dimenticati – sogni, dannato sia chi v’ha fatto, viene privato di sé stesso fino all’aberrazione umana. Nelle differenze ci sono più similitudini che diversità, fra il Silvano di unastoria, che rivive gli incubi di guerra del suo bisnonno Mauro al punto da straniarsi irrimediabilmente dal reale, ed il Gianni di Stacy che, intervistato mentre parla di una ragazza “burrosa” che ha sognato, Stacy, viene per questa gaffe irrimediabilmente cancellato dal mondo, pugnalato dai colleghi, ripudiato fino a diventare (qualcun)altro.
È chiaro come Stacy racconti, su una base di rimaneggiamenti autobiografici, il problema strutturale che affligge la cultura contemporanea, faziosa ed ostentata (od ostentabile, in egual misura), per questo idealista senza cognizione di causa, decontestualizzante perché decontestuale.
È però illuminante, tale sguardo sociale, se messo in contiguità di unastoria, che sì vive d’opposti ma che per questo amplia gli spettri d’azione di entrambi i racconti: da un lato la schizofrenia narrativa di Silvano che, in un mondo dov’è necessario un fil-rouge, un’uniformità identitaria definita, non sa più sussistere al di fuori della proiezione del suo bisnonno Mauro; dall’altro la schizofrenia narrataria di tutti noi, coevi di Gianni, che abbiamo perso il concetto di identità poiché non sappiamo più vivere al di fuori delle storie altrui, quelle storie cui necessitiamo, quasi come un bisogno organico, di appropriarci, talvolta rubandole, strappandole di mano, tirandole a noi al punto da fletterle in una ri-significazione decircostanziale che le rende ciò che non sono; o meglio, ciò che vogliamo che siano.
Un mondo, quello dei 2020s, dove tutti hanno qualcosa da dire, dove tutti raccontano e per questo non racconta più nessuno: il non-racconto è necessario per esistere, per apparire sulla mappa (per tutto il fumetto, i personaggi di Stacy si incartapecoriscono sulla scrittura della sceneggiatura per una serie tv di cui, man mano, emerge la mediocre idiozia: non a caso, sarà un successo), esattamente al contrario del mondo di unastoria, dove invece il non-racconto equivale alla non-vita, la perdita di una quadra comporta la totale dissolvenza psico-fisica, il vagabondaggio incosciente attraverso cortocircuiti di spazio e di tempo che potenzialmente potrebbero perpetuare in eterno, se noi lettori non avessimo la facoltà di chiudere il libro e bloccarne il flusso.
Due vie opposte per perdere l’identità, l’una attraverso uno specchio in cui non riconoscersi più, l’altra attraverso uno schermo in cui riconoscersi in chiunque: la fragilità compassionevole del dubbio esistenziale da un lato, il patetismo pietoso dell’ostentazione faziosa dal lato opposto. Un’ostentazione, peraltro, che Gipi ci ricorda essere legata solamente a dinamiche di potere e competizione, a meccanismi di uomo-mangia-uomo che a ben guardare non sono tanto diversi da quelli della guerra armata raccontata in unastoria: cambiano i mezzi, i modi, passano gli anni, ma è lo stesso gioco al massacro. Ognuno per sé, sempre e comunque.
È come si diceva all’inizio, un misterioso intersecarsi fra questi due fumetti, un flirt che, prima di ogni altra cosa, parla precipuamente di umanità, di esseri umani; che sia attraverso il lirismo acquerelleo, il ritmo elegiaco e la paidia degli oblii paesaggistici di unastoria, o che sia attraverso l’impeto drastico e disilluso del tratto facinoroso di Stacy; che sia attraverso l’onirico di dieci anni fa od il muscolare dell’adesso, che sia attraverso un fumetto che è uno spirito spezzato o un altro che è un braccio rotto, il punto aureo è sempre questo ciclo inespugnabile di dispersione dell’essenza, in un caso attraverso un’auto-rappresentazione aleatoria della più cruda realtà – la guerra – che si dissolve in immagini di plurimo senso ed intastabile scorza, e nell’altro tramite la concretizzazione del finzionale che come un pugno in faccia diviene più reale del reale, al punto da frantumare e distruggere quel quotidiano e quell’ordinario, rei di essere incapaci di rappresentare “realmente una realtà” che, in quanto realtà e non reale, è tutta finzione.
Essere umani non è allora così semplice. “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” si chiedeva Paul Gauguin: domande un po’ troppo grandi per pretendere una risposta univoca; si può però provare a unire qualche puntino, e chissà che fra migliaia di anni – salvo estinzioni poi non così remote – qualcuno riesca a cavarne fuori un senso.
Certo si corrono dei rischi ad indagarci così a fondo, e questi due fumetti sembrano essere un perfetto manuale per non scivolare negli abbandoni dell’io. O chi lo sa, forse sono piuttosto una guida, qualora dovesse capitarci. Perché ben osservando, tra queste tavole, tra queste vignette che si accendono e si spengono come interruttori del racconto, è un attimo perdersi in un doppione, nel proprio bisnonno o in un nostro sosia demoniaco; in un albero o in una burrosa ragazza sognata una notte; è un battito di ciglia e ci si ritrova nel proprio doppio, come in un film di Hitchcock, o davanti ad uno specchio (o uno schermo).
E a quanto sembra uscirne è un gran casino, perché il doppio, in quanto tale, ci è complementare: come ce ne si libera? O meglio, ce ne siamo mai liberati? E se ce ne liberiamo, cosa resta di noi? Siamo compromessi, o forse lo eravamo prima, prima di conoscerne l’esistenza, prima che per noi questo doppio esistesse, che prendesse una forma. E se invece prima non fosse esistito? Se si fosse formato poi, il nostro doppio? Cos’eravamo, o cosa siamo rispetto a ciò che eravamo? Chissà se Stacy allora è sempre esistito, dal momento in cui unastoria ha preso vita: forse leggendo le pagine di quel fumetto, dieci anni fa, si intravedevano già degli echi di questo fumetto ora, insinuarsi con la sua ruvida alopecia nelle composizioni rezze che hanno reso Gipi il maestro che oggi, insindacabilmente, è.
E che continua ad essere, nel suo racconto di esseri umani, sempre più spiccatamente umani. Talvolta più umani degli umani che li leggono: i personaggi di Gipi, alla fin fine, cercano soltanto di sopravvivere; alle cose, alle persone, a sé stessi. Proprio come noi che sfogliamo.
E non è questione di empatia, attenzione. È questione di granula, di sangue che sgorga. Nel pennino, nel pennello. Nelle brutte rughe, nelle bestemmie, nelle masturbazioni. È questione di rituali, di filastrocche, piccoli trucchetti segreti per galleggiare mentre si sgraffigna un pugno d’aria, con la mente già al successivo: è «l’uccellin della comare» di Silvano, il «tornerò» del bisnonno Mauro, o il «non parlare mai di Stacy» di Gianni. Combinazioni di suoni, prim’ancor che di parole, per resistere, mantenere quel briciolo di dignità umana che anche noi, oramai, tendiamo a disperdere nel calderone dell’antipodica dignità sociale, della realizzazione lavorativa, dell’utilità produttiva, costantemente all’erta per non venir cestinati dal mondo come Gianni, o per non diventare zavorre come Silvano.
Conviene allora leggere questi fumetti, leggere tutto Gipi a dire il vero, e prendere qualche appunto per ricordarsi come provare a sopravvivere. Perché non dovrei neanche stare a dirlo, ma quegli ominidi disperati fatti di bitorzoli d'inchiostro siamo noi. Con i nostri girovagare dentro gli altri, o per orizzonti infiniti – flaneur del nulla – a cercare un non-so-cosa che da un’altra dimensione chiama, con quel suo sapore di non dato, di irresolutezza, che inseguiamo forsennati per scappare dalle certezze e dai dogmi del benessere del moderno, sempre più sopente, sempre più stringente.
Dobbiamo sopravvivere al nostro tempo, ed è per questo che ci sarebbe davvero utile avere un mantra, una nenia come quelle di cui sopra…
Fa’ buon viso a cattivo gioco? Naaah.
È meglio essere furbi che santi? Neanche.
Ah, un momento… no, niente.
Ecco, ci sono:
non parlare mai di Stacy, è la modernità che lo domanda.
Japo Corradini