Juliette di Camille Jourdy: i fantasmi ritornano in primavera

Una lettura placida ed intima

La noia. Antonioni ci ha costruito una carriera. Cosa che, probabilmente, non avrebbe potuto fare oggigiorno. Che sia un bene od un male (il dibattito in questa sede non ci interessa particolarmente), la condizione esistenziale che tutti condividiamo in questo momento non concerne nelle sue dinamiche l’atto dell’annoiarsi, placidamente trasformatosi – nella baruffa metropolitana – in un incrocio fra anomalo ed eretico.

La città si è presa il palco, il proscenio della storia: pur ammesso che al di fuori del suo chiasso qualcosa ci sia, quel qualcosa è poco di più di un museo, o per meglio dire, mausoleo. Chi sta al di fuori della città non sembra avere diritto al tempo futuro, appena appena al presente. Resta il passato, che a chi corre sulle metro certo non alletta il palato, con cui i cosiddetti “provincialotti” sembrano aver firmato un patto che è un pantano.

E allora vien da chiedersi se il famoso treno in grado di viaggiare indietro nel tempo non sia già stato inventato e se Juliette, protagonista della nostra storia, non ci sia salita nella prima pagina (in effetti precedente anche il frontespizio).

Juliette che, come un fantasma, scappa dalle nevrosi parigine per disciogliersi fra i fantasmi di provincia, gli assopiti, le agresti anime incastrate nei labirinti a specchio delle villette a schiera e dei baretti di piazza. Ci troverà quel vino sgasato di suo padre, agli antipodi con l’acqua naturale frizzata con il gasatore che è sua madre; senza scordarsi della recita perpetua di sua sorella maggiore, ormai veterana della famiglia nucleare. Infine ci troverà Georges, ermafrodita con il bancone del Bar Tropical e con le sue birre. 

Un bel mosaico: che la tanto bistrattata cittadina fuori mano nasconda molte più trame di quel che si pensi? Forse. O forse è soltanto questione di umanità. Perché l’incomunicabilità propria e altrui è un – se non il – must degli esseri umani dall’alba dei tempi, e che ci si trovi sperduti fra i campi o nell’epicentro della socialità, prima o poi tocca a tutti di scomparire dentro sé stessi.

E allora ecco che la mediocrità ingenua del paesotto inaspettatamente corre in aiuto di coloro che stanno iniziando pian piano a smaterializzarsi: i suoi silenzi che ninnano, perpetui, i pensieri più astrusi; il suo tradizionalismo testardo tramite cui osservarsi, questionarsi; soprattutto, l’egida del suo amplesso con la natura, quella natura invadente e costante, policromatica e profonda, che diluisce pian piano le idiosincrasie metropolitane spianando la strada per una camminata all’indietro in sé stessi. Perché spesso la soluzione l’abbiamo già avuta lì, sottomano, e semplicemente non ci abbiamo fatto caso. 

In qualche modo, la secolarità che un prato verde ed il suo terriccio malmesso portano con sé sembra essere la più rassicurante delle opzioni per darsi un senso, spogliarsi nel suo abbraccio. Una quiete naturale che per un’esistenza cementificata come quella di Juliette è per forza di cose innaturale, e che Camille Jourdy rigenera su carta in uno stile che è riassumibile con una parola: garbo.

Il ritmo viene ucciso, le vignette con lui: in questo regime di sopita libertà, monotona meditazione, l’ottundente geometria delle vignette avrebbe stonato come un grattacielo in piazzetta; il disegno è così contiguo e dolce, una riduzione al caramello su un impasto di pan di Spagna, le immagini comunicano senza il timore di invadere i perimetri altrui, o forse comunicano proprio facendolo, sovrapponendosi: un po’ come fanno i ricordi, tutto sommato. 

L’anti-narrazione di questo fumetto/ricordo è allora tenue, come le personalità fragili di chi la abita, che fra manie assurde, ipocondria e solitudine compaiono su degli sfondi timidi in quella loro formosità che all’acquerello aspira, ma che in un pantone si realizza, colorandoli come un’ambizione mancata od un’ordinarietà accettata. Il tutto mentre il parlato scorre facile e corsivo, un’ondulazione emotiva, un non detto.

La grande bellezza di questo fumetto sta quindi proprio qui, nella sua semplicità e soprattutto nella sua immediatezza, che solo autori dal grande acume possono raccontare senza scadere nel capzioso e nel sofismo: come si suol dire, si può raccontare una storia semplice in maniera complessa, ma sarebbe meglio raccontarne una complessa in maniera semplice.

Camille Joudry fortunatamente sceglie la seconda opzione e realizza un fumetto che è un gioiellino, una storia dalla delicatezza naturalistica e dal realismo privo di caratteri extradiegetici che molto ricorda Eric Rohmer ed i suoi film bavards, dove parole su parole si allineano e poi si scontrano, recitano e temporeggiano, con al contempo una narrazione che gioca ed ironizza strizzando l’occhio ad un grottesco comico e poetico, talvolta solitario, che nella sua paidia sembra talvolta congiungersi con l’assurdo di fumetti come Il Signore di Montetetro di Jacques Tardi e Jean-Claude Forest, e con la tradizione francese di quegli anni, così sensibilmente ironica.

Non a caso, è con Juliette – I fantasmi ritornano in primavera che l’autrice ha consolidato il suo nome in patria – e non – come uno dei volti di punta del nuovo fumetto francese; ed oggi, grazie ad Oblomov Edizioni, Juliette arriva anche in Italia e noi non potremmo esserne più contenti: in un autunno che si è aperto con il canonico brusio del Lucca Comics (con l'incommensurabile flusso di pubblicazioni conseguenti), una lettura così placida ed intima, forse, potrebbe regalarvi un momento di relax di cui non sapevate di aver bisogno: provare per credere.

Japo Corradini



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