Maw: un horror su un odio accecante
Isola di Angizia, al largo della Virginia. Qui si trova una comunità di sole donne, chiusa agli uomini e protetta, guidata da Diana Spiro. Un posto in cui ritirarsi dal resto del mondo, in cui curare le proprie ferite e trovare amiche, sorelle accanto alle quali sentirsi al sicuro. È qui che si recano Wendy e Marion, due sorelle, diverse tra loro come possono esserlo il giorno e la notte.
I capelli biondi di Wendy rispecchiano tanto il suo carattere solare quanto la sua vita: un marito ricco, due figli che la amano, quella vaga noia che nasce dalla mancanza di problemi. Marion, invece, ha i capelli neri come la notte e, probabilmente, come il suo animo: sopravvissuta a uno stupro, non ha mai trovato un modo valido per sfogare la sua rabbia. Si è rifugiata nell’alcol e ha smesso di credere di poter dare una direzione alla sua vita. È stata Wendy, infatti, a trascinarla sull’isola. Carica di entusiasmo, Wendy è sicura che Diana e le altre donne troveranno il modo di guarire le ferite nell’animo di Marion.
Tra alberi in fiore, ghirlande e pozze d’acqua limpida, le donne, vestite di tuniche bianche, raccontano le loro ferite come se partecipassero a un rituale senza tempo, unite dallo stesso dolore. Fuori dalla comune, però, il mondo continua a girare e Diana e le sue “adepte” non sono affatto ben viste dagli uomini che vivono sull’isola. A farne le spese, ancora una volta, è Marion. L’alcol è l’unica soluzione che ha saputo trovare a quanto le è successo ma anche questa volta si ritroverà con un uomo pronto a drogarle il drink ed abusare, insieme a un gruppo di degni compari, di lei. Ma adesso, sotto lo sguardo di Diana, qualcosa cambia per sempre in Marion.
Diana le racconta il motivo per cui ha fondato la comune, il modo in cui la fede nella Grance Madre le ha dato la forza di cambiare vita, di smettere di essere una vittima. Guardando negli occhi di Marion, Diana rivede la sé del passato e prova a vincere le resistenze della ragazza e convincerla a unirsi al suo gruppo. Ma Marion è cambiata molto più di quanto Diana osasse sperare: non è soltanto un percorso di consapevolezza il suo, ma un mutamento radicale del suo corpo che pian piano la trasformerà in una creatura mostruosa, una belva in cerca di vendetta…
Mescolando elementi magico-religiosi, fantasy e horror la storia scritta da Jude Ellison S. Doyle, illustrata – in modo decisamente affascinante, soprattutto nelle tavole più crude – da A. L. Kaplan e colorata con grande attenzione dei cambi di atmosfera da Fabiana Mascolo, muta rapidamente registro, scivolando nell’oscuro abisso di un femminino inumano, mostruoso e terrificante, una Grande Madre divoratrice che trova pace e purificazione solo attraverso la sua furia sanguinosa, una furia che non risparmia nessuno. E tutto questo funziona benissimo se vogliamo leggere MAW come una classica storia dell’orrore in cui antiche divinità si risvegliano in tutta la loro brutale potenza coinvolgendo la protagonista e rivelando i piani oscuri che hanno portato alla loro evocazione, ma… perché parlare di femminismo? Ho iniziato questa storia con altissime aspettative che sono state deluse e vorrei provare a spiegare il perché.
Guardare alla realtà con ottica femminista – anzi, meglio, transfemminista, includendo quindi anche le altre discriminazioni e oppressioni in senso intersezionale – vuol dire guardare alla realtà con uno sguardo critico e politico, comprendere come ogni singola storia personale sia parte di un sistema più grande che coinvolge molto più che le persone direttamente interessate: vuol dire provare a comprendere gli aspetti culturali del contesto in cui quella vicenda si è svolta, e quindi anche quelli economici e storici, vuol dire provare a capire come le politiche di gestione del territorio funzionano – o non funzionano – tenendo in conto, ad esempio, i sistemi educativi e scolastici, i tassi di disoccupazione (in particolare quella femminile), il welfare, eccetera. Anche quando poi queste riflessioni vengono calate in un contesto fantastico, non possono essere ignorate.
Inoltre, nessuna lotta alla discriminazione può essere una lotta personale, nessun problema collettivo può trovare una soluzione individuale, e meno che mai si può ridurre il femminismo all’equazione donna=vittima/buona, uomo=carnefice/cattivo. In MAW accade proprio questo: quella creata da Diana è una comunità fuori dal mondo, scollegata dalla realtà, gestita grazie alla ricchezza di una singola persona, il cui scopo non è migliorare la vita delle donne che sono arrivate a chiedere aiuto, non è quello di aiutarle a riprendere in mano la propria vita e reinserirsi nella società, ma solo la vendetta – desiderio più che giustificabile e comprensibile, ma che non è abbastanza. Una vendetta personale, un sentimento di odio alimentato solo dalle emozioni più intime e private che non prova neppure a immaginare una soluzione sistemica a quello che è un problema sistemico.
Per di più, neppure questa millantata sorellanza è tale, l’autoreferenzialità di Diana è spropositata e lei si dimostra capace di passare sopra al benessere di chiunque pur di ottenere ciò che vuole (non entro nel dettaglio per evitare spoileroni, ma leggete e capirete). Le figure maschili che compaiono nella storia sono tutte crudeli, stupide e grottesche, quasi la caricatura dello stupratore che vive solo in funzione dell’odio che nutre verso le donne in quanto tali. Vittime o carnefici, non c’è molto altro a caratterizzare lә personaggә. MAW è stato fatto passare, già dal sottotitolo, come una storia di lotta al patriarcato, ovvero a un sistema oppressivo che ha secoli di storia alle sue spalle e che è presente in praticamente tutto il mondo.
E, a mio modestissimo avviso, questa storia non lo è. Non è una storia di lotta – o di vendetta – contro il patriarcato. È la storia di un odio che acceca e che non consente altre azioni se non la soddisfazione del proprio desiderio di vendetta, quali che siano i disastri che questa può causare. Il transfemminismo non ha nulla a che fare con tutto questo e la lotta al patriarcato non si fa trasformandosi in mostri, non si fa trascinando con sé chiunque nel dolore e nella distruzione per cercare una cura alle proprie ferite. Quel sottotitolo non causa soltanto aspettative che vengono disattese, ma travisa completamente il senso della lotta al patriarcato, svilendola in una lotta insensata tra maschi e femmine che nulla ha a che vedere con il transfemminismo, una lotta che umilia tanto gli uomini – incapaci di essere qualcosa di più che esseri crudeli e violenti – quanto le donne – vittime che possono appellarsi solo a una divinità vendicatrice.
Tornando alla storia, in definitiva MAW, edito in Italia da Tlon, è un fumetto horror che funziona, nonostante alcuni passaggi un po' prevedibili, anzi, funziona proprio perché in questo non tradisce nessuna delle aspettative che ci costruiamo durante la lettura. I disegni di A. L. Kaplan conciliano l'eleganza dellә personaggә con le forme grottesche del male incarnato, mentre i colori di Fabiana Mascolo sottolineano il mutare dell'atmosfera man mano che gli eventi seguono il loro corso.