Il letargo dei sentimenti (Ishiki no kashi) di Igort

Un giorno nel passato, mi ritrovai nel domani


Se oggi si cercasse di individuare un minimo comun denominatore, un collante intellettuale, che influenza e permea omogeneamente l’intera globalità, sarebbe abbastanza probabile veder svettare fra le prime candidature la cultura giapponese.
Il “giapponesismo” è ormai da diversi anni un vero e proprio fenomeno sociale sotto praticamente ogni punto di vista: chi è che oggi non ha mai sognato di andare in Giappone? Probabilmente, solo i fortunati che ci sono già stati (e che penso vorrebbero tornarci).


Ma se adesso diamo per scontato questo clima culturale, anni fa non era affatto così, tutt’altro. Prima della rivincita degli otaku, prima del cosplaying. Prima ancora di Akira, prima dello Studio Ghibli. Un mondo senz’anime e manga, senza sushi (!!!). Oggi vi parrebbe realistico? Non credo. Eppure, negli ineditamente neoliberisti e globalizzati esordi degli anni Ottanta, il Giappone era soltanto una misteriosa isola ai limiti del mondo: raccontarlo? Un azzardo, ancor prima che un’impresa.

Ci voleva ardore, curiosità. Approfondimento e studio, moltissimo studio. Lapalissiano specificare anche voglia e cultura. Ma, a prescindere da tutto, ci voleva il contesto adatto, il giusto clima di tensione artistica, quella condizione di turbamento che frustra la creazione oltre i limiti dei canonici dogmi culturali.

A cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta ad incarnare suddetta tensione fu il punk. Dentro il “God save the Queen” dei Sex Pistols il punk ha portato con sé la facilità nel produrre, nel generare cose: era importante che le cose esistessero, nella loro tangibilità. Perché per fare le rivoluzioni questo è il presupposto basilare, serve farle esistere.

A Bologna, nel 1983, la rivoluzione iniziò a tutti gli effetti ad esistere. Ce la si ritrovava tra le mani, assomigliava ad un libro ma non di meno ad un quadro. E aveva tante vignette. È l’effetto Valvoline, il collettivo che vede impegnati nel rinnovamento espressivo del fumetto nomi come quelli di Mattotti, Carpinteri, Brolli, Kramsky e – protagonista di oggi – Igort.


Arrivato da una precedente storia già contemplante il mistero dell’estremo Oriente (Goodbye Baobab, con Brolli ai testi), fra il 1983 ed il 1984 il fumettista sardo ambienta in un Giappone distopico e militare quella che, secondo il modesto parere di chi scrive, è una delle più grandi e visionarie opere a fumetti cui l’Italia abbia mai dato luce: Il Letargo dei Sentimenti.

Quella che potremmo definire come una fantascientifica spy-story russo-giapponese intrecciata a poligami drammi d’amore, è in realtà ancor prima il fumetto manifesto dell’essenza di Valvoline, al tempo uno fra i più riusciti tentativi di sondaggio dell’infinito narrativo potenziale che sta oltre il circondario del noto e razionale.

Il menage a troi fra Zusho – protagonista della storia, colto esteta bisessuale e dall’impiego dubbio (architetto, suppone lo stesso Igort) – Tsukuma – rampante militare ed amante di Zusho – e Naomi – archetipica femme fatale occidentale rielaborata in chiave sovietica – nasconde nel rigore delle sue trame il fischio nelle orecchie di uno sguardo post, anzi oramai meta-modernizzato, stralunato dagli spazi che si avvicinano, dai tempi e dalle culture che disgiungono nel ritmo alienante di un mondo, come si diceva prima, che ha oltrepassato il punto di non ritorno della globalizzazione.

La fluidificazione degli assiomi palafitti di un’ingestibile polifonia, lo sparpaglio di simboli e melodie, storie e proiezioni, corrobora quella condizione umana di atomizzazione propria dei primi anni Ottanta, gli anni che recidono il retaggio comunitario dei contrasti generazionali sessantottini verso una prospettiva sempre più egoriferita (l’LSD, droga collettiva, è ora eroina, droga solitaria; le chitarre infiammate di Woodstock fanno spazio agli zeri ed agli uni dei sintetizzatori; Easy Rider diventa American Gigolò, l’hippie yuppie), e per questo sempre più straniata.


Zusho, nel chiasso saturante (e quindi silenziosamente polare) della distopia che abita, oscilla in un dubbio costante fra passato e futuro, fra tradizione e reazione, fra amore maschile e amore femminile: un’esistenza dicotomica che non trova né un capo né una coda. Zusho, un pendolare dell’io, l’io, oramai, un concetto che ha perso di significato. Come uno specchio che si frantuma a terra.

Ed è dentro ciò che di tale specchio rimane, frammenti – amabili resti – senza un volto da specchiare, schegge di un io che è tutto (e quindi niente), che l’elettricità del blu e la vaghezza del verde constano coi brusii del grigio e del nero perseverante un componimento che balla come un valzer austriaco, e mentre armonici lillà sono voci dal passato che appaiono e scompaiono, tocca il pavimento con le punte dei suoi piedi, algido, tenue come una notte tormentata e dal ritmo impari, che aspetta solo di morire nelle premure rosse carminiche di un climax già rassegnato.

La vibrazione del tratto di Igort è la grande poesia di questo testo, la veemenza cinica dei suoi spigoli e delle sue geometrie vaneggianti, che agitano lo sguardo distolto di un cielo che è «una lastra d’acciaio rigata dalle stelle», ma che altresì esplodono inspiegabilmente l’empatia di un altro sguardo, il nostro, plagiato dalle prospettive impossibili dei campi, dai volti assoluti dei personaggi, veri e propri «oggetti di design che soffrono», statue di marmo bianco a cui il tempo sembra aver dato una tinta grigia.

Un disegno dalla sensibilità rinascimentale (a guardar i personaggi negli occhi si rischia di rivedere i volti di El Greco) ed al contempo d’ispirazione innegabilmente futurista, un disegno reso un unico movimento dall’organicità del ritmo dettato dalle vignette, quel movimento che appunto è stato tanto il cruccio del futurismo quando riversatosi su tela. Il muoversi di tale fumetto è però un atto impercettibile, un flirt con l’immobilismo: il racconto di Zusho è un tuono mancato, un moto inerme. Immoto.


L’istante è il tutto e viceversa allora. Siamo bloccati nel tempo, non è passato né futuro (telefoni o automobili di domani dal design alla 1930s sono un forte indizio). Il non-tempo, regime della pittura metafisica. Idealisticamente agli antipodi con il futurismo, eppur che qui scalpita come uno spettro infestante, una presenza nei corpi di protagonisti ora uomini ora manichini: Zusho e Naomi che scappano dal tedio del geghegè di una festa altolocata - «la sfilata della vacuità» - statici si accompagnano, si guardano, si dicono addio proprio come gli Ettore e Andromaca di De Chirico, mentre sullo sfondo di spiazzi interminabili abitati da ombre procrastinatrici (altro scenario che ricorda la metafisica) architetture bauhausiane forsennate fondono il cielo con la terra, l’organico con l’inorganico, il cemento con la carne, con una prepotenza a tratti indagatoria ed affascinata da quel grottesco rapporto che vede protagoniste natura e tecnologia.

La storia di Zusho è così soltanto un palpito, un incanto momentaneo che nella sua “momentaneità” soffre un passato senza fine ed un futuro senza principio, malcapitato fra queste due mura che si avvicinano con passo ineluttabile (il che, sarò forse troppo romantico, mi ricorda la figura dell’autore intento a confrontarsi con tradizione ed innovazione, cercando di uscirne indenne). Una vita, un’anima, che sono una singolarità. Quelle singolarità perse nella volta celeste, che proteggono dal gelo spaziale l’eternità dei loro pensieri, perpetuati dal silenzio tutt’intorno.


Il Letargo dei Sentimenti tutto, volendo ben vedere, è una singolarità: un fumetto breve, dalle dimensioni “thelongtomorrowiane”, che nella precisione della sua impostazione (una splash page in apertura e una in chiusura contengono una struttura fissa di tre righe per pagina), nella placidità del suo minuto scorrimento contiene un cosmo di possibilità, tutte le schegge dello specchio di cui sopra che riflettono ogni volta un’evenienza dalla natura inaspettata, un universo parallelo mai uguale al precedente che rimbalza da cyberpunk a steampunk, da biopunk a decopunk: quale che sia la definizione di genere che gli si voglia assegnare (posto che sia davvero necessario), non c’è dubbio sulla parola punk. Che, come si diceva all’inizio, fa rima con rivoluzione.

Rivoluzione che per me assume un valore anche strettamente personale.
Comprai Il Letargo dei Sentimenti diversi anni fa, attratto dalla copertina. Non ci capii niente, ma d’altronde era un’età in cui a malapena eri in grado di capir qualcosa di te stesso. A metà della storia, incapace di trovarci un senso e forte della mia brufolosa superbia adolescenziale, smisi addirittura di leggerne le parole.

Continuai però a sfogliare, guardando i disegni. Pensai che fossero bellissimi, e che avrei potuto saccheggiarli per potermi spacciare come nuovo prodigio pittorico delle mie scuole superiori. Se non fosse che nel rapinare il lavoro di Igort mi accorsi di quanto difficile fosse creare qualcosa di anche solo avvicinabile a quel tratto.
Offeso, rinunciai e misi il fumetto in punizione in libreria.

Inconsciamente però, quel momento mi cambiò: non lessi più un fumetto allo stesso modo. Fu come aver riacquisito la vista, o averla per la prima volta (e dire che porto gli occhiali dalla prima media). Ogni pagina letta o riletta era uno sbocciare di dettagli tale che venne da chiedermi se d’un tratto tutti fossero diventati dei campioni di disegno fastidiosamente dotati.


Con il tempo, fortunatamente, capii la mia stupidità. La accettai, e allora ripresi in mano questo fumetto: non posso dire che ne capii più di prima, ma se non altro finii di leggerlo tutto. E poi lo rilessi ancora, e ancora…

Questo articolo – assolutamente non richiesto – non è solo uno spassionato consiglio a recuperare un must nostrano come Il Letargo dei Sentimenti, ma anche un modo per fare gli auguri di compleanno ad un autore le cui storie negli anni mi hanno accompagnato quasi come delle sorelle maggiori.
Perciò tanti auguri, sensei, ci vediamo in un passato che racconterai, o in un futuro che hai già raccontato.

Japo Corradini



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