Corpicino – Fenomenologia dell’uomo mediatizzato
Di cosa parla questo fumetto?
Domanda non scontata. Non tanto per il contenuto della risposta – che bene o male è evidente in ogni pagina, diegetica e non – quanto più per la forma. E pur essendo l’espressione “la forma è sostanza” abusata al punto de-sostanziare qualsiasi formalizzazione, talvolta serve arrendersi alla vittoria di questo plasticismo linguistico ed utilizzarlo.
Perciò, di cosa parla questo fumetto? Darvi una mia sintesi sarebbe, oltre che facile, semplificatorio. Penso sia molto più illuminante il riassunto che una competente (?) giornalista fa, ad inizio storia, destreggiandosi stentatamente in quel nugolo di lacrime di coccodrillo che è la folla assetata di telecamere alle sue spalle:
«Stanotte su questa tranquilla provincia si è abbattuta, implacabile, la tragedia. Poco lontano da qui, nel luogo ormai ribattezzato “Il Bosco dell’Orrore” è stato trovato il corpo senza vita del piccolo Marcellino Diotisalvi, brutalmente ucciso.» […] «Il piccolo Marcellino Diotisalvi è un tenero bambino di otto anni, allegro, solare, pieno di vita, fino a ieri sera, quando la morte lo strappa ai suoi affetti in quel maledetto bosco dell’orrore. Quale abominevole mostro disumano può aver voluto uccidere un bambino, colpevole solo di essere innocente? Il suo corpicino, straziato, martoriato, abbandonato da solo nella nuda terra.»
Senza sfociare in lezioni di sintattica, analizzerei per un momento queste frasi… concedetemi del cinismo: un omicidio, quale che sia la categoria della vittima, è una cosa disprezzabile, penso saremo tutti d’accordo. Il problema è, appunto, la messa in forma di quando lo si racconta. E una morte è senza dubbio un dramma per chi le sta intorno, una tragedia… ma volete mettere a paragone l’enfasi dell’articolo determinativo? Impagabile. Step uno completato: unicizzare, sensazionalizzare. Pancia colpita, attenzione guadagnata.
Step due: la vittima non è un bambino. Troppo facile così. La vittima è una lista della spesa di aggettivi incarnata in un minuto essere umano. La vittima è un tenero, allegro, solare, pieno di vita (questa mi fa davvero ridere) bambino, che – oltre al danno la beffa – è stato brutalmente ucciso. Capito? Brutalmente.
Step tre: nel caso non fosse chiaro, ricordiamolo ancora: brutalmente. Vi pare interessante un corpo senza vita quando questo può essere anche straziato, martoriato, abbandonato nella nuda terra? Molto meglio in questo modo, non credete? Anche questo passaggio è stato completato: indignazione assicurata.
Ciliegina sulla torta: la colpa dell’innocenza. Geniale. Chissà se la nostra giornalista descriverebbe così una qualsiasi altra vittima di omicidio, magari neanche fanciulla. Ma in fondo sticazzi, no? Il ciclo è concluso: emozione lucrata, trend topic generato, possiamo andare al bar a festeggiare, il resto lo farà la gente.
Ecco, “la gente”. Quale importante espressione. La collettività ma detta con meno lettere; perciò dal suono più umano, più enfaticamente democratico e quindi più coesivo. Quasi patriottico, nella patria del mondo. Un sinonimo positivo de “la massa”. O forse un eufemismo.
Perché cos’è “la gente”? Quando la chiamiamo così, probabilmente un collettivo di esseri umani che coesistono paritariamente dividendo quelle risorse scarse tramite cui regolano e “comfortizzano” le proprie vite. Ma forse la chiamiamo così perché chiamarla “massa”, “folla”, “calca” ci metterebbe davanti ad una verità troppo scomoda da accettare: viviamo accanto al prossimo fintanto che i nostri spazi vitali restano inviolati. Quando non succede, “la gente” scompare. Rimane il gregge, l’accozzaglia, che lotta per la sopravvivenza.
Ecco un’altra importante parola, “sopravvivenza”. La perfetta giustificazione per la nostra rabbia, lì, sulla punta della lingua, che flirta con le papille gustative grazie al suo aroma sanguinolento, che non genera le folle in funzione di un evento deplorevole, no. La rabbia se le tiene calde nel fagotto, le folle, pronte a scattare come un coltellino svizzero non appena per la strada una papabile bestia sacrificale passeggia ingenua. Una scusa per motivare la scissione atomica della buona condotta, lo scarico nevrotico.
Si giustifica così, la sopravvivenza nostra, del nostro stile di vita, dei nostri rapporti sociali, della nostra cultura, eccetera: quando si arriva al sodo, noi indignati protettori del quieto vivere siamo in fondo soltanto lo specchio riflesso dell’additata vittima sacrificale, nemica di questo presunto bene collettivo, e anzi, chiunque ne è il potenziale successore, il prossimo agnello votivo, perché è un attimo mettere il piede nella scarpa sbagliata.
Ma chi decide quando e come giudicare l’accettabilità, la “giustizia” – o meno – di un evento piuttosto che di un altro?
Ovviamente, l’imponente voce dei media. Una delle grandi questioni postmoderne (se non la grande questione… ho ceduto anch’io al fascino dell’articolo determinativo, chiedo venia), quei mezzi di comunicazione sempre più protagonisti delle nostre giornate, estensioni sensoriali sempre meno artefatti culturali perché sempre più cultura; quei mezzi di comunicazione così egocentrici eppur così popolarmente diluiti, cercano l’attenzione di uno sguardo mentre guardano dall’alto. Si espandono, si complicano, e nell’espandersi ci uniscono. Ma unirci, tagliare fuori sempre meno occhi ed orecchie, vuol dire rinunciare sempre più alla complessità: il dibattito si democratizza, si semplifica. Il fatto diventa cronaca, il racconto slogan. Spettacolo. Poca testa, tanta pancia. Emozione, identificazione, indignazione. Come detto la rabbia c’è già, basta solo indirizzarla prima lì, poi qui, poi altrove ancora. Dove fa più comodo insomma.
Noi con gli occhi a cuoricino che bramiamo quello spettacolo. D’altronde c’è andato quel normalman, quel signor nessuno, perché non anche io? E se il proverbio dice il vero, se il fine giustifica i mezzi, che differenza fa lucrare sulla morte di un bambino piuttosto che su un qualsiasi altro evento di massa?
Ed è qui che casca l’asino: come ci siamo arrivati, com’è successo che la morte di un bambino sia diventato un evento di massa? Com’è possibile che sia diventato accettabile?
Corpicino parla di questo, e di molto altro. Anzi, in un certo senso è legittimo dire che Corpicino, dall’alto del suo predittivo scetticismo, parla di tutto ciò che l’uomo sociale è ed è diventato. Perché il mondo che Tuono Pettinato racconta con spiazzante acume non è solo quello del suo 2013 ma anzi, è il mondo di oggi – nella sua atmosfera di tripudi popolari, collettivo (nel bene e nel male), ideologicamente contorto, massmediaticamente gremito, compiaciuto nella frenesia del suo rumore – dieci anni in anticipo. Come diceva McLuhan, «l’artista è un’antenna» e come tale intercetta il cambiamento ben prima che la comunità possa farlo, porgendoglielo in dono. Come racconta un vecchio detto (oggi sono in vena di frasi fatte, sarà il parlare di cronaca…): “il genio non è colui che inventa qualcosa da zero. È colui che per primo vede ciò che già c’è”.
Pare che Tuono Pettinato ci abbia visto molto bene, allora. Dentro quei bianchi e quei neri dei suoi “disegnetti”, come li chiamava lui, deve aver visto feed scrollati con innocente compulsione dispensare briciole di realtà che corroborano anemie di criterio, e deve averlo odiato. Dentro quei bianchi e quei neri dei suoi disegnetti dove ha invertito la semantica comune dei colori, dove l’ipocrita recita del ruolo sociale, della qualità civile, si tinge di un bianco finto tonto che ostenta sicumera, e dove il requiem cromatico del nero si scopre portatore di luce e verità, una stretta di sincerità dove i personaggi si rifugiano per dirci cosa sono per davvero, perché «gli abissi non conoscono le bugie. Non giudicano. E nel buio e nell’oblio custodiscono ogni piccolo segreto».
Corpicino è un fumetto dal valore capitale, a maggior ragione se letto adesso. E non soltanto per la lucidità dell’analisi antropologica. Perché fra queste pagine c’è una lezione fondamentale per il fumetto del 2023: in un mondo sommerso da un diluvio di tavole e tavole (possibile grazie a tecnologie di supporto sempre più potenti), dove tutti vogliono disegnare e mostrare, dove sembra sia obbligatorio vantare la tecnica del segno e – in tal senso – dove il concetto di valore estetico è entrato in crisi, Corpicino riappare da dieci anni di purgatorio con un tratto sì riconoscibile, ma incredibilmente semplice e strafottente, immediato, e soprattutto con un qualcosa da dire, detto forte, fortissimo, e chiaro, chiarissimo. Perché anche la più fantastiliardica scarica di tavole della storia, senza niente da dire, rimane solo una sessione di falegnameria allo specchio, per dirla con gentilezza.
Corpicino di Tuono Pettinato è un bellissimo regalo, un’eredità artistica immensa, una di quelle opere per cui val la pena scomodare tale definizione. Perciò lasciate che i Saturni di questo mondo, mentre banchettano dei loro figli, provino pure ad ipnotizzarci con tutte le balle che gli pare, tanto si spegneranno misere nella baraonda del vociare, e leggete questo fumetto: non ci troverete frasi fatte né proverbi, promesso.