Omnilith – Troppo potere da tenere fra le mani

 Il prezzo di un'utopia

Qual è il prezzo di un’utopia?

Dopo aver letto questo fumetto, la risposta più ovvia sembra essere: “un Omnilith”.

Che poi è ciò cui l’operato della scienza moderna auspica dai tempi della seconda rivoluzione industriale, no? Una gigantesca e pura fonte di energia, un sole portatile e – teoricamente – inesauribile dal quale attingere per consentire al mondo tecno-industrializzato una sopravvivenza che non vada a scapito dell’ecosistema terrestre.

L’Omnilith è il sogno realizzato, una mini-supernova nata misteriosamente dal combattimento fra due wrestler e dall’energia che esso ha scatenato e che, neanche il tempo di cambiare vignetta, è stato preso e occultato da una multinazionale perché potesse essere sì una fonte di contrasto ai cambiamenti climatici e all’inquinamento globale, ma al contempo anche una buona scusa per costruirvici attorno un ecosistema mediatico di lottatori, i cui scontri hanno tanto un fine benefico di “ricarica” dell’Omnilith, quanto uno lucrativo di narrativa spettacolarizzata.

In questo star system eco-friendly spicca il nostro protagonista Doc Vampire, campione assoluto della competizione per il settimo anno di fila, che dall’alto del suo ego spasmodicamente pompato si trova presto a dover mettere in dubbio la comodità della realtà che abita, ritrovandosi – suo malgrado – in un’indagine che andrà a rivelare quanto di più marcio si possa trovare negli armadi dei potenti.

Nell’impostare il racconto ed il suo mondo Lorenzo Mò non sbaglia una virgola: il background è chiaro, una fantascienza plausibile in una metropoli prossima e decadente, mentre i personaggi sono tutti perfettamente contraddistinti, sia caratterialmente che visivamente, grazie ad un lavoro di character design che si tuffa a piè pari nell’iconografia dell’animazione nipponica – con evidenti rimandi all’Uomo Tigre – e statunitense – dai molleggi disarticolati a mo’ di Looney Tunes alla gommosità Hanna-Barbera dei tempi d’oro – senza dimenticare quel suo tocco alla Jacovitti che qui si mescola all’immaginario di Akira Toryama e dei suoi combattenti, nella plasticità delle pose e nei ritmi delle zuffe.

Senza macchia è anche l’organizzazione visuale del fumetto, le cui griglie molto rigide ed il ritmo quadrato che ne consegue ricordano quasi un gigante come Gene Luen Yang, maestro non solo del montaggio ma anche delle palette di colori, che in questo fumetto – oltre che essere utili ad un'ulteriore riconoscibilità visiva generale – sono fondamentali per risaltare le estetiche dei personaggi e dei loro costumi e per ammalvirle con gli sfondi. In particolare il rosso guida il concerto cromatico: un colore carnale, intenso come quello del sangue, della rabbia, dell’amore, della passione; è il colore tramite cui mettere in scena le pulsioni emotive dei protagonisti, il vigore ardente – e violento – che li guida. Il risultato?Un’immediatezza quasi “haringhiana”, una staffetta di piccole pop arts.

In quanto a riconoscibilità ed estetica, insomma, dieci e lode. E dubito che qualcuno avesse grandi dubbi da questo punto di vista.

C’è un però. Ed è gigantesco: questo fumetto è un racconto di personaggi, su questo non ci piove. Ciò rende inevitabile che il carisma, tanto grafico quanto d’indole, degli stessi sia in primo piano. Il problema però si pone quando ci si chiede: “cosa c’è oltre questi personaggi?”

Forse, troppo poco. Il tema del cambiamento climatico non solo è un tema delicato e caldo, ma anche molto, molto complesso. Ed il solo inserimento nel racconto di un oggetto/entità con le specifiche dell’Omnilith presuppone una riflessione di base a riguardo. A maggior ragione se questo è il perno di tutto lo svolgimento. L’Omnilith incarna quella crasi natura-cultura, quel compromesso fra uomo e Terra che la filosofia ha indagato in questo caso da molto prima delle rivoluzioni industriali. Si sono spese miliardi di parole a riguardo in ogni epoca, peraltro senza mai trovare una conclusione ad un dibattito che ha acceso molte fra le più grandi menti della storia dell’uomo. E per carità, nessuno avrebbe preteso di vedere un Simposio 2.0 con Doc Vampire & co seduti ad un tavolo per discutere della cosa. Ma la questione ambientale è menzionata solo sporadicamente e quando menzionata è limitata a rumore di fondo, variabile nota ma non determinante. A ciò si aggiunge l’aggravante di un contesto come quello metropolitano che sì, esclude per definizione la componente naturale, ma che non permette al lettore di capire l’effettivo impatto che l’Omnilith ha sulla globalità: non fosse stato la più importante risorsa politico-energetica del pianeta, il problema non si sarebbe posto. Ma se il peso effettivo dell’oggetto è questo, dev’esserci una eco tangibile.

La metropoli, per altro, è un’altra questione che questo fumetto non approfondisce. È dai tempi di The Long Tomorrow - quando la fantascienza ha, fra le altre cose, incontrato le teorie urbanistiche - che gli ambienti metropolitani hanno assunto una propria specificità narrativa, incanalando in sé stessi molti strumenti utili alla critica delle contraddizioni caratterizzanti il mondo tardonovecentesco. Qui la metropoli è sì fatiscente e sgarrupata, ma solo grazie alla scorciatoia della periferia, con tutti gli stereotipi contestuali che la parola porta con sé. La città, la metropoli, non si vede mai per davvero: posto che l’intenzione alla base potesse avere un valore di biasimo, senza una vera contrapposizione luci del centro-degrado del suburbano la critica sottesa all’uso della periferia diventa disadorno sofisma.

Le metropoli, dall’alto delle loro architetture strabordanti e falliche, rappresentano tutti quei principi di appariscenza che stanno alla base delle società contemporanee, società esclusive ed elusive nei confronti dei veri problemi dei singoli abitanti e forgiate su immagini ed immaginari che sono mera illusione, vetrina e distrazione: gli star system, ecologie corroborate dall’operato dei grandi conglomerati mediatici. E neanche a farlo apposta, ecco un’altra questione che Omnilith accenna e non approfondisce.

Si è da poco conclusa la serie tv Succession – consentitemi questo sfogo poco elegante: capolavoro assoluto! – che in quasi quaranta ore di racconto ha potuto mostrare soltanto i due estremi delle comunicazioni mediatiche: la radice e la fruizione. E nonostante l’acutezza della serie tv, la narrazione ha escluso la complessità dell’intero processo di generazione di quei contenuti che poi guidano le opinioni del mondo, proprio perché troppo articolato per il tempo a disposizione (4 stagioni, 39 episodi). Anche in questo caso, nessuno si aspettava di leggere questo fumetto e incontrare di nuovo la famiglia Roy, ma tutta la questione non può esaurirsi in una manciata di vignette, e il motivo è lo stesso sotteso al trattamento della questione ambientale: è un punto cruciale, attorno a quale ruota tutto quanto. Serve scavare più a fondo.

Cercando di riassumere, perciò, Omnilith è un fumetto dagli indubbi pregi, ma con un grande difetto: il pop.

E attenzione: il pop – che poi, cosa vuol dire pop? – è fantastico, questo è fuori discussione. La generazione di immaginari e personaggi dentro i quali proiettarsi, le infinite alternative fra mondi possibili, la cascata di significati non dati, ecc… sono fra le armi più potenti di cui una storia possa godere. Ma il pop, in quanto estroverso ed eccentrico, ha la tendenza di mangiare il terreno altrui se non lo si addomestica a dovere. E quando questo prende il sopravvento, con i suoi colori sgargianti, con l’adrenalina e la frenesia della sua azione, con il suo intrattenimento patinato, il resto viene fagocitato irrimediabilmente.

Omnilith è bello, bello da guardare, bello da sfogliare; il ritmo è sempre carico di stamina e guida lo sguardo senza indugio garantendosi l’attenzione che cerca dall’inizio alla fine del racconto. Ma questa frenesia, questa danza sgargiante, trasformano una partenza carica di questioni in un arrivo dimenticatosi di cosa avrebbe voluto (o potuto) dire. Un intrattenimento che non scava più a fondo del dovuto, godendosi il suo party di personaggi senza porsi il problema di come sarà ridotta la casa il mattino seguente.

E dato che tutto ciò che di buono fa questo fumetto è anche ciò che già tutti ci si aspettava da Mò, e che quindi si è tesi a dare per scontato ricordandoci del lavoro sensazionale fatto con Dogmadrome (fumetto che lo ha portato alla vittoria, fra i tanti, del Premio Bartoli come miglior promessa del fumetto italiano nel 2019), Omnilith non riesce ad elevarsi oltre il già noto.

In conclusione, questo fumetto rimane un’opera modesta, divertente e sicuramente ammaliante da guardare, ma che si perde nel tentativo di dare un po’ di più di un semplice intrattenimento sci-fi/noir (sulla cui superficie si adagia troppo quietamente) che, fosse stato in toto il focus del racconto, avrebbe reso il fumetto funzionalmente coerente nel suo complesso: temi come quelli che l’oggetto Omnilith porta con sé sono probabilmente troppo discordanti e articolati rispetto ad una storia dalle intenzioni e dimensioni evidentemente altre.

Forse in generale una qualunque storia non sarebbe in grado di esaurire tutte le questioni chiamate in causa: viene da pensare che, se è davvero un Omnilith il prezzo da pagare, è facile capire perché le utopie siano in fin dei conti impossibili.

Japo Corradini

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