Il racconto della roccia: il realismo magico di BeneDì
Se dovessi scegliere un aggettivo per descrivervi Il Racconto della Roccia direi suggestivo.
BeneDì, alla sua opera d’esordio, mette insieme un racconto ambizioso, capace di portarci indietro di un secolo nel sud della penisola arabica e di ammaliarci come fosse un’antica fiaba orientale.
Benjamin è ebreo, Hakim è musulmano. Sono cresciuti assieme in un villaggio dello Yemen, dove le due comunità hanno vissuto per secoli in armonia. Dopo un’infanzia passata quasi in simbiosi, un tragico evento sconvolge le loro vite e quella della loro società. Si ritroveranno da adulti a Vienna, dove cercheranno di ricostruire quanto accaduto per dare un senso a quella vecchia storia che non ha mai smesso di tormentarli. La comparsa di una misteriosa creatura metterà a soqquadro l’intero villaggio, facendo ammalare diverse persone. Chi è costei? Un djinn, un demone, o qualcos’altro? Ma soprattutto, in che modo riusciranno a farla scomparire? E se fosse tutta un'allucinazione di massa?
Due parole su BeneDì. Benedetta D'Incau nasce a Feltre nel 1997. Dopo aver frequentato il liceo artistico decide di iscriversi all’università presso la facoltà di Lettere moderne, mantenendo sempre un grande interesse per il mondo del fumetto. Nel 2019 partecipa a una mostra organizzata dal festival BilBOlbul a Bologna con il titolo "Taccuino selvaggio", ma è nel 2020, selezionata alla Maison des Auteurs di Angoulême per svolgere una residenza, che porterà al termine Il Racconto della Roccia. Un anno dopo, nel 2021, BeneDì partecipa alla call lanciata da Coconino Press per nuovi progetti/autori, che porta il fumetto ad essere pubblicato il 12 maggio 2023.
Bastano poche pagine per rendersi conto che Il Racconto della Roccia tutto sembra tranne che un lavoro d’esordio. Ciò che colpisce prima di tutto è il setting, che curiosamente è stato l’ultimo tassello del puzzle. BeneDì ha dichiarato infatti che aveva ben chiaro il soggetto, la storia che voleva raccontare, con quali snodi narrativi e quali sviluppi, ma soprattutto quali tematiche e riflessioni stimolare. Per poterlo fare al meglio era necessario trovare l’ambientazione adatta, che doveva possedere una connotazione specifica: essere un luogo a maggioranza musulmana che però avesse avuto storicamente una presenza ebraica nel suo territorio.
Dopo aver vagliato diverse opzioni, dal Nordafrica alla Turchia, BeneDì ha trovato nello Yemen la “location” perfetta dove ambientare il suo fumetto. Un paese che fino al 1950 circa non solo fu caratterizzato da una convivenza tra comunità musulmane ed ebraiche, ma che, soprattutto nei piccoli villaggi, rappresentò quasi un unicum di osmosi tra le due religioni. Ebrei e musulmani vissero insieme per secoli, mescolando la loro cultura, le abitudini, le leggende, i miti, cosa che si riflette moltissimo anche nelle loro produzioni culturali, musicali, artistiche, commistione ancora oggi conservata dagli esuli ebraici yemeniti.
Bisogna fare un plauso a BeneDì anche solo per la scelta coraggiosa del luogo in cui ambientare il fumetto. L’autrice ha il merito di portare nuovamente all’attenzione del pubblico un paese, lo Yemen, unico al mondo, che purtroppo sta morendo nel silenzio più totale, abbandonato a se stesso, dimenticato dalle grandi potenze e dall’opinione pubblica. È, ormai dal 2015, scenario di una sanguinosa guerra civile, descritta dall’ONU come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con quasi 400 mila morti, di cui il 60% a causa della fame, della mancanza di assistenza sanitaria e di acqua non potabile. A tutto questo si aggiungono 4 milioni di sfollati e una delle più grandi epidemie di colera mai registrate. Lo Yemen però non è sempre stato così. Gli antichi romani si riferivano alle regioni meridionali della penisola arabica col termine Arabia Felix, vista la ricchezza paesaggistica, di spezie e incensi, nonché snodo cruciale per gli scambi commerciali con Africa e India.
L’autrice ha fatto un lavoro di fino nel riprodurre al meglio un ipotetico villaggio nel nord dello Yemen, collocato tra gli anni 1890 e 1915, consultando una quantità enorme di testi e saggi, i più importanti dei quali riportati al termine del volume. La società che ci mostra BeneDì può sembrare qualcosa di singolare, ma lo Yemen è stato in effetti per millenni la patria di una nutrita comunità ebraica, presente nella penisola arabica da secoli prima della conversione di massa delle popolazioni locali all’Islam. Benché si trovino tracce di persecuzioni, violenze e vessazioni nei confronti della minoranza ebraica, le due comunità hanno saputo convivere fino a tempi relativamente recenti, tollerandosi a vicenda. Nei villaggi in particolare, come quello in cui viene ambientato Il Racconto della Roccia, hanno saputo costruire modelli di convivenza pacifica e cooperante, con le due comunità quasi in osmosi, come detto poc'anzi.
Ciò che ci troviamo davanti è un vero e proprio piccolo trattato sulla cultura ebraica e musulmana dello Yemen, con un focus in particolare, e non poteva essere altrimenti, sulla liturgia delle due religioni: si trovano molti riferimenti alla Torah e al Corano, alla cerimonia dello Shabbat, alle modalità con cui avviene la preghiera musulmana.
La rottura avvenne nel 1948 con la fondazione dello stato d'Israele, momento in cui si compromise definitivamente la relazione tra musulmani ed ebrei in molti paesi arabi, Yemen compreso. Se a questo si aggiunge la crescente instabilità politica e sociale della seconda metà del Novecento, si capisce come mai quasi la totalità delle comunità ebraiche yemenite sceglierà la via della migrazione. Nella storia viene dato spazio allo Yemen che fu, e che forse può ancora vedere la luce e ritrovare la stabilità necessaria a farne un luogo di cultura, di commistione e armonia, di prosperità e di bellezza.
“La fondazione dello stato di Israele” nel fumetto viene, se vogliamo, rappresentata dall’invocazione del piccolo Benjamin. È a seguito della comparsa di questa creatura misteriosa, che sembra punire gli uomini del villaggio, che i rapporti tra ebrei e musulmani iniziano a diventare più complessi, spinosi, fino a degenerare irrimediabilmente. Questo evento soprannaturale diventerà la miccia che innescherà una concatenazione di eventi che porterà le due comunità a separarsi. Fanatismo ed estremismo religioso prenderanno sempre più piede, guidati da personaggi che sfrutteranno la cosa a loro vantaggio.
Come riportato anche sul retro del volume, "in questa storia dalle mille ombre, tutti hanno voluto convincersi che la propria versione fosse quella giusta. Ma esiste dunque una verità? Una sola e unica verità?".
BeneDì ci accompagna in maniera egregia all’interno di questa progressiva deriva, sviluppando la narrazione su più piani, facendo sia salti tra passato, presente e futuro, sia tra la vita di Benjamin e di Hakim nel villaggio, attraverso le quali vengono mostrate le due comunità. Ad ogni ennesimo fatto sconcertante, musulmani ed ebrei coltiveranno sempre di più sospetto ed odio, fino a giungere all’inevitabile. In tutto questo solo l’amicizia tra i due bimbi, Benjamin e Hakim, per quanto messa a dura prova dagli adulti, sopravvivrà, unico vero motore per cercare di appianare le divergenze e risolvere l’enigma. Ennesima dimostrazione di quanto lo sguardo degli adulti sia facile da annebbiare, da suggestionare, e di quanto in quello dei bambini si nasconda spesso la verità.
BeneDì cattura in maniera eccelsa un particolare momento della storia dello Yemen ma non solo, ovvero quando all’inizio del ‘900 un sacco di avventurieri di origine ebraica, come lo stesso padre di Benjamin, si misero in cammino verso la penisola arabica. Questi diffusero l’haskalah, l’illuminismo ebraico, creando una spaccatura nelle varie comunità che fino a quel tempo erano rimaste di fatto sotto una campana di vetro rispetto al “progresso europeo”, ancorati alle loro tradizioni, e con esse alle leggende e ai miti tramandati di generazione in generazione. Dalle città ai piccoli villaggi le comunità ebraiche si spaccarono in due, tra coloro che abbracciarono la novità europea e coloro che la rigettarono. È anche a causa di queste “incursioni” che i musulmani iniziarono a guardare con sospetto coloro con cui avevano vissuto fino a quel momento. BeneDì ha saputo affrontare e raccontare tutto ciò in modo eccezionale, sottolineando come proprio attraverso queste fessure rischino di penetrare fanatismo e ideologie estremiste.
Riguardo a queste ultime, l’autrice compie uno sforzo ulteriore ponendo un focus anche sul ruolo della donna nel mondo arabo, e lo fa in maniera inusuale, sfruttando quanto scritto nella Sura XVI del Corano. È in questa ripartizione del testo sacro per i musulmani che vengono glorificate le api come modello perfetto di società, col miele rappresentato come simbolo di guarigione spirituale e materiale. I più scaltri avranno già immaginato dove BeneDì vuole andare a parare: è quanto mai singolare che una società dominata da una femmina, o meglio da una regina, sia glorificata all’interno del testo sacro di una società patriarcale come quella musulmana (anche se pure quella ebraica non è da meno).
Il villaggio rappresentato dall’autrice non fa eccezione in questo, anche se a un certo punto del racconto, a seguito dei ripetuti attacchi della creatura misteriosa, viene presa una decisione: a nessun uomo, essendo solo loro i bersagli del djinn, sarà più concesso esercitare nessuna attività, nemmeno uscire di casa. Per permettere al villaggio di sopravvivere, le donne musulmane ed ebree inizieranno così una cooperazione forzata prendendo di fatto il posto degli uomini, i quali, ormai accecati dalla paura e dal fanatismo, tenteranno di opporsi portando sul piatto motivazioni becere e inutili, tra cui la più stupida quanto banale è ovviamente quella della donna che deve “stare al proprio posto”, senza “prendersi troppe libertà”. Ed ecco che per mantenere lo “status quo” si scopre come ai piccoli venga insegnato che le api sono governate da un AB, padre, e non da una “regina”. Attraverso pochi dialoghi ben piazzati BeneDì evidenzia in maniera sublime l’importanza che ha il linguaggio nel “cambiare le cose”.
Tutto quanto appena detto viene veicolato alla perfezione anche grazie al tratto dell’autrice feltrese, con uno splendido cartooning che ci regala un’atmosfera molto arabeggiante. Diversi accorgimenti contribuiscono a creare questa sensazione, a partire dalla scelta di utilizzare piccoli tratteggi per “riempire” le tavole, che risulta ottimale anche per suggerire che si sta raccontando qualcosa di passato, e che difficilmente tornerà. BeneDì gioca poi molto anche con le nuvolette all’interno delle vignette. Oltre a espedienti semplici quanto efficaci, come quello di alterarne i bordi in base ai toni di chi parla e a cosa sta dicendo, l’autrice si spinge più in là. Spesso troviamo discorsi “spezzettati” in due o più parti, quindi con più nuvolette collegate tra loro, espediente interessante sia per scandire le pause/i silenzi durante i discorsi dei personaggi, sia per sfruttare al meglio lo spazio sulla tavola.
Nella sua opera prima BeneDì ha inserito tutte le sue influenze da lettrice onnivora qual è: se il character design, in primis volti, espressioni e gestualità, dei personaggi ricordano molto il mondo dei manga, il paneling ricorda molto più il panorama del fumetto franco-belga.
Il Racconto della Roccia è un esordio di quelli dirompenti, che lascia inevitabilmente il segno. BeneDì parte in quinta collaborando con una delle case editrici di fumetti più importanti in Italia, probabilmente la più rilevante per quanto concerne il fumetto d’autore, con un'opera appassionante frutto di un ampio lavoro di ricerca. Un nome, il suo, da tenere d’occhio negli anni a venire.
Andrea Martinelli