Glitch, la dimenticata arte del sanguinamento
“Non ricordo l’ultima volta che mi son sbucciato un ginocchio.”
Non so se durante la scrittura di questo fumetto Officina Infernale abbia pensato alla cosa. Certo è che io, leggendo Glitch, il dubbio me lo son effettivamente posto: penso siano decisamente tanti anni che non mi capita.
È ironico che al contempo abbia visto online non so quanti video di gente infortunatasi nelle maniere più grottesche (può darsi anche che ne abbia riso, ma questa è un’altra storia…) e che, continuando a guardare, la sensazione di non potersi far male sia diventata con il tempo sempre più realistica. Se non altro ne sarà contenta mia madre, che durante la mia infanzia penso abbia passato metà delle sue giornate a disinfettarmi le ginocchia.
C’è un prezzo da pagare per questa presunta incolumità perpetua? Probabilmente sì, e credo sia un qualcosa come sapere a memoria la planimetria della cucina di Gianluca Vacchi, o ricordarmi quale sia stata l’ultima colazione dei Ferragnez. Spero che per mia madre sia un prezzo accettabile.
Un po’ meno sembra esserlo per Carlo Mayer, protagonista di questa storia, che all’alba dei suoi soli ottantasei anni (portati come un cinquantenne grazie alla cascata di medicine che, come tutti i suoi coevi, ha negli anni ingollato in quantità ciclopiche per scongiurare la tanto temuta idea di morte) altro non vorrebbe che morire.
Invece gli toccherà rimandare quando Spider, una sorta di coscienza digitale, si presenta per chiedergli di svolgere un lavoro, “una rottura”, che solo esperti giornalisti (o ex, in questo caso) come lui possono portare a compimento con semplicità. E come spesso capita ai reporter nei racconti di finzione (che poi, queste lettere nere su sfondo bianco che leggete mediate da uno schermo invece sono realtà?), da un banale lavoro saltuario è un attimo finir invischiati in un caso di pluriomicidi.
Entra in scena la questione principale, la morte: tutto in Glitch è avvolto dall’alone spettacolare della mediazione tecnologica, sulla cui azione anestetizzante si fonda la narrativa utopica che i vertici sociali (guarda caso non politici o istituzioni, il cui unico ruolo è quello di interpretare ruoli di rassicurante potere, ma magnati) hanno negli anni diffuso, o per meglio dire infuso, nel sistema cerebro-motorio dell’intera socialità tramite un meccanismo seduttivo di aspettative, capace di rendere credibile e vendibile lo storytelling dell’immortalità, un’utopia, concetto per sua natura impossibile (almeno in teoria), apparentemente realizzata. Il classico caso dell’asino e della carota.
Tutto questo è possibile grazie ad Hypertube, un gargantuesco non-luogo digitale dove ogni giorno la vita di tutti avviene effettivamente (lasciando così alla realtà materica la staffetta del nuovo non-luogo), sviluppato dall’iniziativa privata del ricchissimo e famosissimo Andrea Kurchner che, legittimando il suo operato proprio in quanto privato, ha potuto sviluppare questo mostro virtuale lasciando che le conseguenze effettassero socialmente e politicamente la vita di tutti senza che l’azione politica potesse (e/o volesse) intervenire. Kurchner è andato “oltre Dio”. O per meglio dire lo è diventato.
Dunque, in questa dinamica narcolettica perché narcisistica, nessuno si muove, nessuno esce mai di casa. Tantomeno, nessuno muore più. La fisicità è annullata dalla lussuria digitale, che per assicurarsi la comune devozione freme di sempre nuove divinità pop: star, icone, culti. Influencer diremmo noi.
Se Kurchner è Zeus, le divinità pop sono i suoi figli che popolano l’Olimpo di Hypertube, felici di farsi venerare incondizionatamente da orde di fan isterici ma, comunque, immobili.
L’anestesia così è servita.
Poi, in questo contesto delirante (eppur così realistico), un omicidio. E poi un altro ed un altro ancora. La rottura del paradigma, la minaccia all’utopia, il reale che interviene nella finzione dello spettacolo. Il nostro torbido e rinunciato Carlo Mayer è soltanto un passante in mezzo ai fuochi, ma tanto basta per coinvolgerlo irrimediabilmente nell’intreccio.
Intreccio che Officina Infernale spiattella su carta con tutta la verve hardcore che lo caratterizza, in un’aberrazione grafica che sporca, disordina, graffia la pagina come farebbe un pezzo dei Death Grips suonato ad un concerto di Dua Lipa: la pulizia puritana di un mondo sterilizzato dalla perfezione digitale prende forma nell’imperfezione del tratto umano ostentato, il glitch di grafite, che genera uno stile contrappuntistico dalla valenza metafumettistica di, usando un eufemismo, fare il gesto dell’ombrello a tutto quel sistema di valori che il suddetto Hypertube porta con sé.
Con una coscienza narrativa cyberpunk ed una visuale prettamente post-web, l’estetica di questo fumetto si sclerotizza come un grido di liberazione in una fusione di stili grafici che spaziano dal graphic design classico al collage della post-Internet art, forte di una indecifrabilità debilitante per gli occhi di noi lettori, fruitori compulsivi di immagini giornaliere, oramai abituati a significati spesso già dati e sempre più lontani dalla libertà interpretativa.
I colori, le loro combinazioni, sono i principali vassalli del messaggio dell’autore, in palette che alternano l’immaterialità del rosa e dell’azzurro alla visceralità del rosso e del nero, passando per la - straniante in alcuni frangenti ed esibizionista in altri - natura del giallo. Il tutto accompagnato da un blu rinunciato che colora le notti desolate, accese solo dalle traiettorie al led di interconnessioni casalinghe che, viste dall’alto, colorano lo skyline cittadino quasi fino a farlo sembrare l’interno di un processore per computer.
Andrea Mozzato (vero nome di Officina Infernale) riversa sulle pagine di Glitch tutto il suo rigetto nichilista verso un mondo che, a sua detta, sta prendendo una piega fin troppo malsana. Il problema, però, si pone proprio qui: pur presa coscienza di una specifica visione di mondo e di una conseguente posizione autoriale, l’accanimento (figlio di un ovvio e approfondito interesse) verso la questione alla lunga esonda verso il didascalico, privando parzialmente la narrazione di quella componente di libera interpretazione che invece le fantasie visuali consentono.
L’esempio più limpido del discorso è Carlo Mayer: pur vedendo nel personaggio la proiezione del disgusto autoriale verso la distopia-utopia descritta, il suo fare cinico e distaccato e la sua ostentazione nei modi e nel linguaggio volgare e arreso, risulta forse un po’ troppo cliché “personaggio-desolato-anni-Settanta”, solitario e nichilista, sfiduciato verso un mondo che non sopporta più.
Anche l’uso della violenza come atto simbolico, politico e portatore di cambiamento è senza dubbio la scelta narrativa migliore per la trasmissione del messaggio, ma la sua ripetizione quasi perpetua e volutamente grottesca la rende, pur al netto di un’efficace visceralità, una strategia narrativa infine leggermente esacerbante.
Certo lo stile di Officina Infernale è questo e lo sappiamo tutti, ma forse una minor impulsività o un minor accanimento avrebbero giovato ad un fumetto che, tolte queste critiche più che altro rammaricate all’idea di una perfezione per poco lontana, comunque rimane fra le migliori pubblicazioni, per lo meno italiane (ma io oserei anche di più), dell’anno.
Si ringrazia Feltrinelli Comics per questa perla: una lettura, un’esperienza, molto più che consigliata.
Quasi come sbucciarsi un ginocchio.