Essentials: Batman di Steve Englehart
Trovo sempre emblematico come una delle più grandi forze del fumetto di supereroi sia anche una delle sue più grandi debolezze.
Perché, certo, è vero che avere un cast di autori che si susseguono alla guida di questo o quel personaggio sia una forza straordinaria nell'industria, che permette di rimodernare e lasciare vivo un concetto intelligente finché esiste qualcuno in grado di portarlo avanti, ma d'altro canto, chi è che decide che quello che verrà dopo è davvero migliore?
Ogni lettore di fumetti un po' scafato ha il suo personaggio preferito ed il suo ciclo di fumetti a lui dedicato preferito, è indubbio, ma anche chi i fumetti non li ha mai letti ha una versione del personaggio che detesta, perché è molto più facile essere arrabbiati che contenti, ma alcuni lettori hanno invece qualcosa di particolare: una versione del personaggio che tutti ignorano, pur conoscendola benissimo, e il Batman di Steve Englehart è proprio questo.
Ma iniziamo dal principio: sul finire degli anni 70, la DC Comics stava arrancando nelle vendite nella sfida eterna contro la Marvel, e quindi provò a fare tutto quello che aveva sempre fatto negli anni quando aveva un concorrente: provare a mangiarselo. E così, in una serie di assunzioni “bomba” di grandi talenti ex Marvel, sotto l'egida dell'editor Jeanette Khan, farà la sua apparizione in casa DC Steve Englehart, un giovane talento... che aveva deciso di trasferirsi in Europa e lasciare il mondo del fumetto l'anno dopo. Alla DC i termini stavano bene lo stesso, e così Steve fu messo a lavorare su Justice League, e su Batman a partire dal numero 469 della testata Detective Comics, da principio coadiuvato da Walter Simonson, ed in seguito dai disegni di Marshall Rogers.
Dapprima, Englehart lavorò alla serie con il famoso “Metodo Marvel”, ovverosia scriveva solo la trama, la passava al disegnatore ed inseriva i dialoghi in seguito, ma con l'arrivo di Rogers deciderà di sceneggiare alla maniera DC, raccontando tutto quello che doveva succedere in ogni pagina, e fu magia entrambe le volte, anche se la seconda fu un pelo più efficace nel parere di chi scrive.
Questo perché Simonson è forse uno dei più grandi autori completi che la storia del fumetto americano ricordi, e dà il suo meglio quando è parte integrante della concezione della storia, come nel suo immortale Manhunter con Archie Goodwin, e quindi i suoi numeri sono sicuramente potentissimi, ma sembrano anche più goffi e fuori posto, rispetto a quelli di Rogers, che è un altro grande maestro dell'illustrazione, ma anche molto più capace a seguire senza problemi una regia non sua.
La parte illustrata da Simonson è un po' l'antipasto della visione che aveva Englehart per il Cavaliere oscuro, e vediamo il nostro eroe venire a patti contro un nuovo supercriminale, il Dottor Fosforo, il cui corpo ricorda uno scheletro in fiamme; le sue origini, collegate con grande forza ai problemi reali del mondo, sono solo uno dei molteplici rimandi alle storie anni 40 di Batman, dove la sensazione era sempre di più quella di trovarsi in un oscuro film del terrore tedesco, piuttosto che sulle pagine colorate di un fumetto di botte.
Inoltre, proprio in queste prime storie ci vengono anche introdotti due personaggi importanti: il mafioso Rupert Thorne, che controlla anche gli ambienti buoni di Gotham City, e Silver St. Cloud, organizzatrice di eventi mondani che suscita molte simpatie in Bruce Wayne.
I disegni di Simonson sono molto più classici del Simonson che vedremo negli anni 80: carichi, possenti e granitici, forse uno dei Simonson più puramente Kirbyani mai visti, con un Batman che torreggia sui criminali, ma che quando diventa Bruce Wayne sembra quasi rimpicciolirsi, in una scelta puramente grafica che getta il realismo fuori dalla finestra per concentrarsi sull'azione bombastica, che vede un armadio prendersi a cazzotti con un mostro infuocato, che si lancia in una serie di pose d'azione.
Il tutto, chinato con un'ottima attenzione al chiaroscuro di Al Milgrom, che in alcuni tratti forse esagera, rendendo il tratto di Simonson molto più pesante e meno aggraziato rispetto a quello che sia di solito, ma che comunque funziona molto bene nelle scene più frenetiche, e un pelo di meno in quelle mondane.
L'arrivo di Rogers, cambia le carte in tavola, non tutte, ma di sicuro le cambia. Il ritmo diventa più calzante, il look della serie diventa più omogeneo, e soprattutto, arrivano un sacco, ma un sacco di vecchie facce note.
In questa “seconda parte” infatti, Englehart decide non solo di continuare ad investire nei suoi nuovi personaggi, ma recupera anche un paio di vecchi avversari di Batman anni 40 dimenticati dai più: lo psichiatra malvagio Hugo Strange ed il tiratore scelto Deadshot (il cui nuovo costume ideato da Rogers è talmente iconico, che il personaggio lo usa ancora oggi), oltre a darci un paio di avventure con antagonisti il Joker ed il Pinguino, più una breve ma simpatica apparizione di Robin.
Ed è qui, che il ciclo si toglie le rotelle, e ci rivela che non era una bicicletta, ma una moto da corsa. Vedremo Batman al suo meglio, in tutti i sensi: lo vedremo affrontare i suoi demoni personali, e vederemo questi stessi riflessi nei suoi nemici, lo vedremo essere umano, dietro e con la maschera, mostrandoci il suo rapporto sia con l'amico di sempre Robin, sia una struggente storia d'amore con Silver St. Cloud.
Lo vedremo affrontare criminali da strada, e supertizi che si trovano in mezzo ad oggetti giganti, in un omaggio non troppo nascosto al tic di Milton Finger, il vero padre di Batman che usava quello stratagemma spesso e volentieri. Vedremo un Joker completamente folle ma calcolatore, insomma, vedremo un Batman concentrato.
Non ci sono molti altri modi per spiegarlo, Englehart mette in otto numeri tutto quello che è Batman, nel profondo del suo essere personaggio, senza scuse, senza pretesti, senza orpelli: un bambino spaventato, che vuole che nessuno abbia più paura, e che sa benissimo che si troverà davanti ad una sfida impossibile, ma poco conta, perchè lui ha fatto una promessa.
Tutto questo ovviamente condito da un Rogers in forma smagliate, che mostra un tratto così cangiante da far paura, estremamente fino e delicato un attimo, e poi granitico nei primi piani, con una gestione del pathos sublime. Certo, i volti, i personaggi di Rogers non sono il suo forte, non lo sono mai stati, ma quella che è da sempre la sua più grande abilità, è il design. I personaggi, gli spazi, l'uso delle vignette, se Simonson era il Kirbyano della situazione, Rogers è il Wallace Wood del ciclo, altro grande, grandissimo maestro di stile, della nona arte.
Gli effetti grafici di Rogers sono da urlo, in una pagina dove il Joker appare sullo sfondo, la sua risata prosegue per tre vignette, serpeggiando fra gli spazi vuoti fra un disegno e l'altro, quando Batman colpisce un nemico con un uppercut, il nemico finisce dentro la “O” dell'onomatopea “POW”, dimostrando un occhio giocoso ma così intelligente da avere pochi rivali nell'industria.
Aiuta anche, che Rogers fosse chinato da Terry Austin, uno dei pennelli più precisi dei comics, un sultano della china che riusciva a rendere anche lo sfondo più semplice un qualcosa dove perdersi per ore ed ore, ed abilissimo in questo caso nel gestire quell'enorme macchia d'inchiostro che è il mantello di Batman, facendolo sembrare quasi vivo.
Negli anni 70, questo ciclo fu definito dai critici “Il Batman definitivo”, e passati quasi 50 anni, nel parere di chi scrive, questa definizione resta ancora bella solida.
Ci sono state storie di Batman più coinvolgenti? Certo. Ci sono state storie di Batman più emozionanti? Certo.
Parliamo comunque di fumetti datati, i dialoghi non sono certo taglienti né realistici, spesso e volentieri ci troviamo delle didascalie inutili che ci spiegano come “Batman usa la sua forza straordinaria per sollevare il criminale da terra”, dimenticandosi che il fumetto sia un medium visivo, quindi le cose le vediamo anche se non ci vengono spiegate, e tutte le analisi delle dinamiche sociali sono all'acqua di rose... Però...
Però, questi sono otto numeri completi. Otto numeri per i quali non ti serve aver letto nulla di Batman, perchè tutto ti viene spiegato con grande facilità e naturalezza, perchè si toccano tutti i punti importanti non solo di una grande storia di Batman, ma di una grande storie in generale.
La grande, grandissima forza del Cavaliere oscuro creato da Bill Finger (su di un nome inventato da Bob Kane), è sempre stato il suo essere estremamente flessibile. Batman nasce come un mischione di trecento personaggi già esistenti, che per un miracolo di ingenuità e talento funziona quasi sempre, in qualunque contesto narrativo, se non ci si dimentica di aver di fronte un uomo, in un mondo di uomini.
Ed è sempre difficile scrivere bene un personaggio come Batman, un personaggio che ha alle sue spalle decenni di storie, tutte diverse, tutte tenute assieme con lo sputo, un personaggio che è amato da molti, ma per modi completamente diversi.
C'è a chi piace Batman perchè non ha superpoteri, c'è a chi piace perchè fa cose ganze, c'è a chi piace perché lo vede come ispirazione, c'è a chi piace perché piace a tutti. E va bene così, è il bello di queste icone: è nella loro natura cambiare faccia a seconda di chi le guarda.
Però, se chiedete a me (e siccome questa è la mia rubrica, immagino che lo stiate facendo), per quanto un personaggio possa cambiare, ha bisogno di un centro, di un qualcosa da cui non deve mai troppo allontanarsi per restare sulla cresta dell'onda, anche se sei la terza idea più furba mai avuta in un fumetto di supereroi.
Englehart, questo centro se lo tiene stretto al cuore, ci costruisce tutta la sua narrazione, tutta la sua epica, in soli otto numeri che scorrono velocissimi lasciandoti a bocca aperta per quanto reggano ancora ora.
Ma soprattutto, ogni volta che leggi, guardi, ascolti, giochi un'avventura di Batman venuta dopo questo ciclo, ci trovi un po' di Englehart, Rogers e Simonson.
Perché, certo, “Definitivo” è un parolone, io stesso ho detto che tutti si dimenticano questa storia, ed è una classica iperbole da internet, sono sicuro che qualcuno di voi questa storia ce l'ha tatuata sul cuore, e qualcuno invece la vuole morta, ma poco conta: qui, non solo si è tenuto il centro di Batman, ma ce ne hanno aggiunto un pezzetto.
Vanno bene le atmosfere gotiche, vanno bene i rimandi al passato, ma poche storie incapsulano così bene quel senso di vittoria di Pirro che è il concetto stesso di Batman.
Batman, un bambino che giura che non ci sarà più crimine, e ci riesce, tanto che crea del supercrimine per stare al passo con lui, ma che lo stesso non potrà riavere indietro quello che ha perso.
La relazione con Silver St. Cloud, matura, reale, tangibile, del tutto legata ad una vera razionalità, ad una serie di momenti di cuore e di pancia, è emblematica in questo senso, tanto che trova degli echi in tutte le altre relazioni che Batman avrà mai nella vita.
Il rapporto con Robin, che si alterna fra il serio ed il giocoso, che pianta i primi segnali del Batman padre, più che fratello maggiore, l'idea di Gotham come una città infernale dove nulla è come sembra.
Insomma, se vi piace Batman, sarà per il motivo che preferite, io non sono nella vostra testa, ma è anche merito di questi otto numeri.
Un ciclo che inizia col fuoco, continua con la pioggia, e finisce con un'alba, che ci ricorda che la lotta, è sempre di fronte a noi. Ma anche che il male, non ha nessun luogo dove nascondersi, fino che Batman resta in piedi.