Retrocomics 08 - La critica secondo Federico Guglielmi
“Nella mia carriera nella musica ho conosciuto centinaia di artisti, ma se mi chiedono quale sia l’incontro che più mi ha emozionato rispondo senza esitare “Stan Lee!”.”
Appuntamento autunnale con Retrocomics, la rubrica che vi ricorda che odiare il qualunquismo è cosa buona e giusta e che la critica è spesso mossa d’amore.
Oggi interviene Federico Guglielmi, uno dei più preparati e importanti giornalisti musicali (e non solo) italiani. Seguo e leggo Federico da più di vent'anni e oltre ad apprezzare il suo modo di scrivere ho sempre amato la sua onestà intellettuale nell’affrontare e costruire una critica responsabile e parziale nel senso migliore del termine (l’imparzialità lasciamola ai personaggi delle favole).
In più Federico è un grande appassionato di fumetti e, nel corso della sua carriera, ha lavorato per alcune case editrici italiane, tra cui Magic Press e Marvel Italia. Se volete farvi un favore seguite il suo blog.
Cominciamo? Cominciamo.
Partiamo subito a bomba. Cosa definisce un critico?Premetto di non amare molto la parola, perché per qualche motivo ha assunto, a livello di immaginario collettivo, una valenza negativa: tanti, sentendo “critico”, pensano a una sorta di borioso intellettuale che pontifica dall’alto di competenze magari anche limitate e che, di solito, esprime opinioni sprezzanti. Per me, invece, un critico - uno serio, va da sé - è qualcuno che ha studiato e continua a studiare determinate materie, che sa analizzarle da più punti di vista e contestualizzarle, che sa fornire valutazioni e giudizi basati principalmente su fatti oggettivi - anche se ovviamente offre anche pareri personali, che comunque dovrebbero essere accessori - e che sa esporre il suo pensiero in modo puntuale e possibilmente comprensibile a tutti, a voce o per iscritto.
Nel mio campo specifico, il “critico” è spesso descritto come un frustrato che avrebbe voluto fare il musicista e che, non avendocela fatta, si sfoga parlando/scrivendo per lo più male di quanti fanno musica. Questo non è solo molto stupido ma è anche assai triste, specie per chi - come me, ad esempio - non si riconosce nel ritratto di cui sopra. Non a caso, quando mi chiedono di definirmi, preferisco termini come giornalista, cronista, studioso, divulgatore.
Non ritieni che la divulgazione si sia spaccata a metà? Mi spiego: nei media tradizionali si parla molto di musica, fumetti, libri ma sempre con un occhio al passato, in modo quasi istituzionale; nei nuovi media (che poi troppo nuovi non sono), invece, si parla spesso di un eterno presente (eccezion fatta per i videogiochi dove è forte l’area retrogamers). Ho l’impressione che entrambe le divulgazioni siano fatte in modo spesso superficiale e cercando di accantonare una critica ragionata.
L’informazione vive tempi molto difficili. La Rete ha sconvolto tutte le regole senza crearne di nuove universalmente accettate e grande è la confusione sotto il cielo. Diciamo che la Rete, rapida e superficiale per natura, non favorisce granché i discorsi più articolati e complessi, quanto meno sul piano della divulgazione rivolta al pubblico di massa; va un po’ meglio con l’informazione solo “per adepti”, diciamo. A me tutto sembra diventato più superficiale, sia perché il ritmo della vita è frenetico e quindi pochi hanno voglia di soffermarsi sulle cose (basti vedere quanta gente, in Internet, commenta un articolo avendone letto solo il titolo), sia perché chi scrive sembra in linea di massima più interessato a dare la notizia in fretta che alla qualità della notizia stessa. Sul parallelo nuovo-vecchio, è lecito pensare che il cosiddetto vecchio sia più interessante in quanto “storico”, “mitico” e ormai incasellato da qualche parte, mentre il nuovo - reale o presunto - si presta solo a quel sensazionalismo di infima lega legato alla ricerca del click che è un’altra delle piaghe dell’informazione contemporanea. Per il nuovo, il più delle volte si copiano i comunicati stampa, per il vecchio si copia wikipedia… o, almeno, lo fanno gli addetti ai lavori più giovani, che chiaramente non hanno una memoria storica e quindi si arrabbattano come possono… tanto, per quello che (non) gli danno e per la generale scarsa attenzione della platea di massa a quello che (non) legge, chi glielo fa fare di sbattersi? Quello che mi chiedo io, però, è: “se questo è la situazione della professione giornalistica, perché non dedicarsi ad altro? e perché tutti vogliono scrivere, specie quando non sanno proprio farlo?”.
Ma no, quale impermeabilità! Credo che il confronto dialettico tra persone competenti sia fondamentale per la professione, ma purtroppo oggi, almeno in molti media, la “redazione” intesa come luogo fisico dove ci si incontra e si dibatte non esiste più o quasi più. All’inizio della mia carriera nel 1979, appena diciannovenne, ho inconsapevolmente sofferto la situazione, che per quasi tutte le riviste specializzate era già così: in pratica comunicavo con una sola persona alla quale facevo proposte che puntualmente venivano accettate, per poi consegnare articoli - bruttarelli, devo ammettere - che erano pubblicati così come li avevo scritti… anzi, con l’aggiunta di quantità industriali di refusi. Nessuno mi insegnava nulla, nessuno mi dava suggerimenti, e questo mi convinceva di far bene, di essere “bravo”. Ci ho messo un po’ a capire che in realtà chi doveva guidarmi non aveva le capacità per potermi guidare, a livello tecnico - di scrittura, insomma - e di etica professionale, e solo allora ho iniziato a trovarmi da solo i miei spesso inconsapevoli “maestri” allo scopo di migliorarmi. Quando in seguito mi sono trovato a rivestire i ruoli di coordinatore, caporedattore o direttore ho sempre cercato di insegnare agli aspiranti colleghi tutto quello che avevo imparato su come funziona il mestiere e su come svolgerlo nel modo secondo me migliore.
Se questi luoghi fisici o virtuali esistono, sono invisibili anche a me. A differenza del dilettantismo e del pressapochismo, che invece vedo benissimo.
La grandezza del settore in cui si opera è importante? Te lo chiedo perché il settore fumettistico italiano è decisamente piccolo con il risultato che spesso il critico/recensore conosce anche personalmente gli autori di cui parla e potrebbe essere più facilmente influenzato.
Beh, certo, un peso ce l’ha, come ce l’ha - per esempio - nell’ambito della cronaca locale al confronto con quella generale. Più “il giro” è ristretto e più è facile subire influenze e pressioni dirette od “occulte”. L’ambito musicale è piuttosto ampio, ma chiaramente se ci si occupa di musica italiana il rischio di farsi condizionare da amicizie, inimicizie e conoscenze è reale, con tutte le conseguenze del caso. Per quanto mi riguarda, ritengo di essermi comportato sempre con correttezza, ma è innegabile che qualche compromesso si faccia. Non scriverei mai bene di un disco che secondo me non vale nulla, ma magari se il disco in questione è opera di qualcuno che conosco dico privatamente al “qualcuno” come la vedo e, se possibile, lascio fare la recensione a qualche collega. Quando non è possibile, scrivo quello che ritengo giusto e se l’artista se la prende… pazienza.
Ti è capitato di aver cambiato idea su qualcosa che avevi recensito? Sia nel bene che nel male.
Un cambiamento di opinione radicale, tipo amare alla follia un disco che in origine avevo maltrattato ritenendolo pessimo, non mi viene proprio in mente, ma è logico che con il tempo i giudizi possano cambiare, nel bene e nel male. Per dire, nei primi anni ’80 ero cattivissimo con tutta l’area Duran Duran e Spandau Ballet perché, nella mia ottica di rocker duro e puro, si trattava di musica leggera, leziosa e costruita per il successo di massa, tutte caratteristiche che odiavo. Quarant’anni dopo mi sono ammorbidito e non posso non riconoscere che da quel settore siano uscite parecchie ottime canzoni, ma continuo a pensare che sarebbero state migliori se arrangiate in maniera diversa.
Oggi chiunque può dire la sua con la massima libertà, soprattutto in Rete, ma pochissimi di questi pensatori indipendenti riescono a fare di questa attività un lavoro dal quale ricavare un sostentamento concreto e non solo soddisfazioni (di solito piccole, peraltro). Però, alla fine, se sei in gamba riesci anche a trovare spazi retribuiti nei media ufficiali. Il problema è che queste retribuzioni fanno quasi sempre ridere e che, quindi, moltissimi di quelli che scrivono lo fanno per hobby e/o passione. E il livello medio cala.
A questo punto, visto il luogo di questa intervista, qual è il tuo rapporto col fumetto? C’è qualche fumetto che ti ha segnato in modo particolare o che ha segnato un particolare momento della tua vita?
Anche se prima mi era capitato di leggere, oltre all’immancabile Topolino, Superman, Batman e cose più ricercate come il Flash Gordon che collezionava mio padre e Asterix, mi sono appassionato seriamente ai fumetti dal 1970, quando - a dieci anni - trovai in edicola il primo numero de L’Uomo Ragno della Corno. Ai “supereroi con superproblemi” della Marvel sono rimasto legatissimo fino a una quindicina/ventina di anni fa, quando mi sono reso conto che la nuova linea non mi appassionava più, ma da fine anni ’80 fino appunto alla metà dei 2000 ho seguito decine e decine di serie sugli albi originali americani: Marvel, ma anche DC, Valiant, Image e non solo. Nei ’90 ho anche lavorato per Star Comics, Play Press, Magic Press e Marvel Italia, occupandomi di cronologie, cartoni animati e telefilm legati ai fumetti, tendenze di mercato e altro. Nella mia carriera nella musica ho conosciuto centinaia di artisti, ma se mi chiedono quale sia l’incontro che più mi ha emozionato rispondo senza esitare “Stan Lee!”.
Uso personale del mezzo, ammetto: come è stato aver incontrato Stan Lee?
Emotivamente è stato incredibile: avevo già trentuno anni, ma mi sentivo come un giovane fan e mi sono dovuto sforzare di comportarmi in modo professionale invece di gettarmi ai suoi piedi dicendogli mille volte “grazie”. È successo nel 1991, lui è passato da Roma all’epoca del lancio delle collane “Marvel 2099” e l’ho incontrato nell’ambito di una conferenza stampa per pochi intimi tenuta in un hotel del quartiere Parioli. Credo che la foto faccia capire chiaramente quanto fossi felice.
Oddio, questa è tipo “vuoi più bene alla mamma o al papà?”, e quindi non posso che essere diplomatico: voto Temple of the Dog per la maggiore spontaneità del progetto, ma ascolto più spesso i Mad Season.