Dylan Dog Color Fest #40 - Estreme visioni

Una lettera d'amore a un personaggio punk


Quando gli Audaci mi hanno chiesto di recensire l'ultima fatica di casa Bonelli, il Dylan Dog Color Fest numero 40 del 9 febbraio 2022, mi sono un secondo guardato indietro e ho fatto mente locale.

Ricordo benissimo quando a 14 anni, stanco di leggere quasi solamente fumetti targati Disney o libri polverosi, spiluccavo la collezione di Dylan Dog di mio zio, trovando un qualcosa che non incontrava il mio interesse, e facendo l'adolescente modello catalogavo per sempre il fumetto italiano come terribilmente formulaico, citazionista e ripetitivo, lanciandomi così in un mondo che sicuramente non lo sarebbe stato: quello dei fumetti di supereroi, che al contrario era... formulaico, citazionista e ripetitivo, però in un'altra lingua, e quindi ovviamente superiore sotto ogni aspetto.

Ora, che di anni ne ho 31 e penso di aver capito due cose sull'ironia, mi rendo conto che, alla fine della fiera, la grammatica del fumetto è più o meno la stessa dappertutto, quello che cambia è il linguaggio di quest'ultimo e, se così è, questo Color Fest parla marziano.


Marziano perché chi si è approcciato a danzare nel mondo di Dylan questa volta non lo ha fatto con la grazia e il rispetto delle regole di una proprietà intellettuale fortissima, ma ha deciso di farlo a modo suo facendo, come si suol dire, un bel po' di rumore.
E le danze si sono aperte già in copertina, grazie ad Ambra Garlaschelli, che ci presenta una cover a più livelli, apparentemente classica ma che ad ogni occhiata risulta sempre più irrequieta. Quello che sembra un volto del nostro protagonista è in realtà tutto un insieme di ispirazioni, di giochi prospettici, di alternanza fra forme geometriche perfette e tratti più morbidi che nascondono sotto di loro altre forme, in un mare di stile dove ogni onda rivela tutta un'altra serie di particolari.


La storia che apre l'albo, scritta disegnata e colorata da Officina Infernale (con Riccardo Riboldi al lettering), continua questa commistione di stili: ci troviamo di fronte ad un artista che non solo è in grado di lavorare fondendo la grammatica del fumetto a quella della pubblicità e della grafica, ma anche ad un autore che riesce ad unire un forte spirito critico verso il personaggio di cui parla, con un forte interesse per le tematiche ed i tropi dello stesso.
Il Dylan Dog di Officina infernale sembra addirittura fuori posto all'interno della sua avventura, sia fisicamente per il modo in cui contrasta con tutto quello che lo circonda, sia a livello narrativo. Un Dylan Dog forse mai così umano nel senso fisico del termine, un Dylan Dog appesantito dagli anni e dalla vita, che arranca in un mondo che nessuno di noi è più in grado di riconoscere, un mondo al quale è riuscito a sfuggire per molto tempo, dimenticandosi però che alla fine, il tempo vince sempre.
Il lavoro di Riboldi, aumenta ancora di più questo stacco, con un lettering estremamente pulito e classico, che aumenta ancora di più questo straniamento intellettivo.

Si passa poi a La Casa dello Splatter ideata da Spugna, una storia muta assolutamente deliziosa, che prende a piene mani dall'immaginario pop dei videogiochi, senza però dimenticare un'attenzione particolare ai classici dell'orrore, con una struttura narrativa ed un ritmo che non sfigurerebbero nelle più classiche raccolte del brivido del fumetto anni 50 della EC Comics.
Una storia apparentemente semplice, ma dove la semplicità sta nell'occhio di chi guarda, proprio perché tutta la regia del racconto, e la sua disquisizione silente del rapporto fra l'uomo ed il mostro è proprio basata sugli occhi dei personaggi, che riescono a trasmettere tutta una serie di emozioni palpabili e travolgenti


In coda all'albo, troviamo poi Il Teatro dei Demoni di Jacopo Starace (con lettering di Valentina Pejrano), una storia che si avvale del difficile stratagemma della metanarrativa: come il titolo lascia intuire, la storia è tutta ambientata su di un palco, e per tutta la storia l'autore gioca benissimo a muoversi fra le inquadrature della tavola per darci proprio l'impressione di star seguendo uno spettacolo teatrale, per poi ribaltarci da sotto il tappeto tutte le nostre convinzione, e metterci di fronte a quelle che sono le nostre paure più profonde. E non è forse la più grande paura dell'uomo, quella di mettersi di fronte ad un pubblico, esporre chi si è, ed essere visto per quello che si è realmente, quando le luci si spengono?
Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad una prova di lettering preciso e puntuale da parte della Pejrano, che incapsula perfettamente l'atmosfera pulita di questa storia, lanciando poi qualche stilettata in grassetto, che si incastra deliziosamente con tutto l'umore della storia.

E quindi, arrivati alla fine, non si può non notare come questo Color Fest sia molto più grande della somma delle sue parti.
Perché è facile, molto, forse troppo facile, urlare al miracolo guardando questo Color Fest dalla mia posizione, la posizione di un uomo che ha letto molti fumetti, che non apprezza Dylan Dog e che si trova davanti un qualcosa di così nuovo. Parliamo del nuovo, del diverso, di qualcosa che magari farà storcere il naso agli appassionati. E andiamo, non è tutto quello che avreste voluto? Una conferma che il mainstream è il male del fumetto, e che solo l'indie ci può salvare? Una scusa per giocare a fare il critico saputo? Sono solamente io?
Davvero, mi posso spellare le mani, ma mi dimenticherei una parte fondamentale del contesto che sto andando ad affrontare.


Perché, checché se ne possa pensare, Dylan Dog è nato come una scommessa rischiosa e ha mantenuto al suo interno quello rispetto punk e ribelle che aveva avuto negli anni della sua prima messa in stampa, ma oggi è volenti o nolenti un monumento granitico alla possibilità del fumetto italiano, un pezzo importantissimo di storia.
E creare una bella storia di Dylan Dog, per quanto di rottura sia, per quanto nuova o sfidante ci possa sembrare, è cruciale che chi ci lavora abbia capito il personaggio.
Non voglio aprire vespai di sorta, perché “capire il personaggio” è una frase che trovo disgustosa sotto plurimi punti di vista, ma in questo caso, è importantissimo capire chi, o cosa sia Dylan Dog.
Perché solo conoscendo le basi, è possibile distruggere, solo dalle macerie di quello che c'è stato, è possibile innalzare un monumento al progresso.
E ognuna di queste storie di Dylan, è proprio questo, una lettera d'amore a un personaggio punk, che lo riporta indietro agli albori della sua nascita, e si chiede cosa sarebbe successo se il personaggio fosse andato in un'altra direzione, se avesse seguito in modo più costante questo o quell'altro genere.


Questo Color Fest non solo riesce nell'impresa di creare un buonissimo fumetto di Dyan Dog in generale, ma riesce proprio a creare un buon fumetto, un fumetto dove la grammatica non sarà quella che siamo abituati a sentire, ma che si esprime con un linguaggio che diventa in breve tempo una sinfonia, che non riesci a sentire una volta sola.
Allora ti siedi, rileggi l'albo, noti nuovi particolari, e allo stesso ti guardi attorno, perché sei talmente dentro il mondo del fumetto, che inizi a temere che il tuo campanello cominci a gridare, che qualcuno stia cercando te, per risolvere un mistero, che è come si farà a dimenticarsi di un progetto così ambizioso. La soluzione, ve la do io, semplicemente non si può.

Giovanni Campodonico



Dylan Dog Color Fest #40 - Estreme visioni
Sergio Bonelli Editore
Febbraio 2022
Copertina: Ambra Garlaschelli

La colazione dei campioni
Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Officina Infernale
Lettering: Riccardo Riboldi

La casa dello splatter
Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Spugna

Il teatro dei demoni
Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Jacopo Starace
Lettering: Valentina Pejrano


Per le immagini: © 2022 Sergio Bonelli Editore.

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