Essentials: Miracleman

Un raffinato trucco di magia applicato al fumetto

Una delle cose più complesse che possa capitare a qualcuno è provare a ricordarsi com'era vivere in un mondo dove non si conosceva qualcosa. Questo vale sia per grandi scoperte, è difficile pensare a come fosse il mondo senza la ruota, sia per cose più piccole, come è difficile ricordarsi quando non eravamo in grado di piegare un foglio di carta per fare una barchetta, e ovviamente vale anche per i supereroi. 

Oggi, checché se ne dica, quando si pensa ad un supereroe in generale, ci immaginiamo qualcuno in grado di volare, forte, e possibilmente buono, e per quanto nella nostra testa la fantasia voli a Superman, negli anni 40 la risposta era... Capitan Marvel, o Shazam se siete dei lettori moderni. 

La storia di un bambino che pronunciando una parola magica era in grado di attingere ai poteri sovrumani di sei diversi eroi della mitologia era dinamite: Capitan Marvel era la versione migliorata dell'idea di base di Superman, un personaggio che era Dio, uomo ed eroe e al contempo giovane, adulto e anziano. Un campione dell'umanità in più di un senso, protagonista di alcuni dei fumetti più creativi e originali della storia del fumetto anni 40.

E a chi pubblicava Superman questa cosa non piaceva, così la DC Comics adotterà la stessa soluzione che aveva usato molte volte di fronte ad un problema di concorrenza: assorbirà dentro di sé la casa editrice di Capitan Marvel, e metterà il suo sceneggiatore, la leggenda Otto Binder al lavoro su Superman, adattando alle avventure dell'Azzurrone tutta una serie di stratagemmi presi proprio dalle storie del futuro Shazam, creando tutta una mitologia che regge ancora oggi. Il resto, come si suol dire, è storia.

Facciamo ora un salto non troppo lontano, al di là dell'oceano, per arrivare in Gran Bretagna, un altro stato dove Capitan Marvel, pubblicato dalla L. Miller & Son, aveva avuto un grandioso successo, ma che dopo l'acquisizione da parte della DC non poteva più essere pubblicato. 

I vertici della Miller chiederanno così al fumettista Mick Anglo di provare a modificare un po' il personaggio, per poter continuare a dare agli appassionati qualcosa da leggere, e che non fosse più legato alle leggi del copyright. Anglo creerà così Marvelman, alias Mickey Moran, un giovanotto biondino che aveva ottenuto speciali poteri non grazie alla magia, ma al potere della scienza atomica e che poteva mutare il suo corpo in una versione adulta dello stesso, e dotata di straordinari poteri semplicemente pronunciando la parola “Kimota” (che è poi Atomik al contrario). 

Inoltre, come Capitan Marvel aveva due assistenti, la sorella e l'amico Freddy, ambedue in grado di mutarsi in versioni superepotenti, Marvelman poteva contare su un paio di giovai amici, Kid Marvelman e Young Marvelman. Già a questo punto si potrebbe parlare di una piccola rivoluzione: dove Capitan Marvel era una favola moderna, una storia basata sulla magia e sulle possibilità che dava la crescita, Marvelman era un'operazione più di fantascienza classica, un'opera dove il potere della scienza si doveva piegare all'uomo, creando sì storie molto divertenti, ma meno cariche di un significato pedagogico intrinseco.

Seppur la serie avesse un grandissimo successo, l'avvento in Gran Bretagna della grande rivoluzione dei supereroi americani anni 60, schiaccerà le avventure di Marvelman, lasciando il personaggio dimenticato nei meandri della coscienza di moltissimi appassionati... Fino al 1982, quando la rivista Warrior deciderà di riportare in vita il personaggio, e per farlo si farà aiutare da un giovane scrittore chiamato Alan Moore, e dal disegnatore Gary Leach. Ah, e giusto per non farsi mancare niente, ad un certo punto la Marvel Comics denuncerà Warrior per l'uso del nome Marvelman, costringendo il personaggio a cambiare nome in Miracleman, e a cambiare editore passando alla Eclipse Comics, perché, in fondo, il senso di tutto era che non ci poteva essere pace per il buon Mickey Moran: anche al di fuori del fumetto sarebbe sempre stato in preda agli eventi, per non parlare di quello che sarebbe successo all'interno delle storie. Anzi, parliamone.

Alan Moore è uno degli scrittori più apprezzati della storia del fumetto occidentale e uno di quelli che ha più influenzato il mercato del comic book moderno. Sono stati scritti saggi su saggi sulla sua prosa e sulle sue influenze culturali, ma nel parere di chi scrive, il successo di Moore sta tutto nella semplicità delle sue premesse, che si possono riassumere in un assunto: "il mio personaggio deve essere calato in un contesto nel quale non era mai stato". Quel contesto era la Gran Bretagna negli anni 80. Quella vera.

Mickey Moran in questa versione è un giornalista sulla quarantina, che vive una vita normale con la moglie, ma che nell'ultimo periodo soffre di pesanti emicranie e sogna un mondo fatto di colori primari e di miracoli, fino a quando non scopre di essere stato in passato un supereroe e gli torna alla mente la parola magica a cui tutto aveva dato inizio.

Da questa premessa partirà una saga lunga 16 numeri nella quale esploreremo non solo le conseguenze che questo potere avrà su Mickey Moran, ma su tutto quello che lo circonda: dalla moglie che fatica a convivere con un uomo che per metà è la perfezione incarnata, al governo del mondo che inizia a tremare una volta che scopre che i superumani sono veri, arrivando fino ai confini della Galassia e a vecchi volti noti, che invece il passato di Mickey Moran se lo ricordano ancora benissimo. 

In questa saga lunga un sogno, Moore sarà poi accompagnato alle matite da un pool di artisti abbastanza robusto, che partirà con Garry Leach, e poi si muoverà aggiungendo Alan Davis, Chuck Austen, Rick Veitch e John Totleben.

Garry Leach avrà l'arduo compito di disegnare i primi numeri della serie e di creare quindi il nuovo look generale del personaggio, e riuscirà a mischiare con sapienza uno stile più moderno e realistico, che strizzava però l'occhio a quello originale di Mick Anglo, con tutta una serie di riferimenti che il fan più sfegatato (o chi aveva letto le ristampe del materiale originale) non poteva non notare, ma soprattutto riuscirà più di tutti gli altri disegnatori a creare al meglio un contrasto luce/ombra, facendo capire fin da subito che non tutto quello che illumina la via sia sinonimo di qualcosa di positivo in questo mondo. 

Chuck Austen cercherà di ricreare al meglio lo stile originale della serie, cercando di non far emergere troppo le sue influenze da americano in un fumetto creato da autori britannici, e riuscirà nell'impresa, sacrificando però un po' la dinamicità del tutto, con uno stile piuttosto squadrato e in alcuni momenti più statico, modalità che stonerà un poco nelle scene d'azione, ma che in un paio di sequenze oniriche risulterà veramente interessante. 

Rick Veitch veniva dall'underground, fuso al più classico degli stili americani, ed essendo da sempre un disegnatore fatto di contraddizioni potenti, ci donerà un albo speciale che alternerà in una scena particolare un fotorealismo ed una scelta stilistica di rottura e d'impatto, alternato ad un mondo quasi abbozzato, quasi a voler contrastare perfettamente con il punto centrale della trama di quell'albo: alla fine, nulla importava, tranne questo nuovo inizio, e devo dire che quando disegno e trama si uniscono così alla perfezione, anche a livello metanarrativo, mi ricordo sempre di più perché io ami i fumetti. 

John Totleben traghetterà la serie verso il finale, e potrà sbizzarrirsi sia nel suo stile fatto di puntinismo e tratteggio finissimo, che gli permetterà di disegnare una pletora di mostri spaventosi, e visioni angeliche di pura perfezione nell'arco di un voltar pagina, riprendendo inoltre l'uso importante del chiaroscuro e del contrasto fra luce ed ombre inserito da Leach, permettendo una chiusura del cerchio deliziosa.

Mi sono tenuto da parte Alan Davis per ultimo, pur essendo stato il secondo disegnatore della serie, e anche se lo stesso disegnatore ammetterà che il suo scopo principale fosse quello di scopiazzare il più possibile lo stile di Leach e quindi di non aver dato il suo massimo. 

Ecco, Alan Davis è, era e sarà uno dei più grandi disegnatori di fumetti della storia, un uomo dal tratto così morbido da essere quasi granitico. I contrasti fra il corpo di Miracleman e quello di Mickey quando sono fatti da Alan Davis sono terribilmente impietosi, e perfetti nel grande schema della narrazione, le espressioni dei personaggi di Davis sono così dannatamente reali da mettere inquietudine, specialmente tutti i sorrisi. Si impara in fretta che ogni singolo sorriso, ogni singola espressione felice, e anche i momenti dove si ride, ride e poi ride all'interno di questa seria, nascondono sempre un segreto, a volte doloroso, a volte crudele, a volte semplicemente segreto. 

E se non fosse per come Alan Davis disegna i sorrisi, tutto questa gravitas semplicemente non ci sarebbe, ed il fumetto ne soffrirebbe tantissimo.

Vi lascio solo immaginare, se un dettaglio semplice come dei quadrati bianchi vi possa restare per sempre cucito nel cervello, cosa possa fare tutto il resto dei numeri disegnati da Alan Davis, e alla fine, farvi immaginare era proprio quello che voleva lui. 

Miracleman è alla fine un raffinato trucco di magia applicato al fumetto, che come tutti i trucchi di magia deve essere analizzato a più livelli: il livello del pubblico classico, il livello del pubblico che ha studiato un pelo di prestidigitazione ed il livello del pubblico fatto da maghi professionisti. 

Ad un primo impatto, ad una prima lettura, escludendo completamente la storia dal suo contesto storico, dai suoi rimandi e dalle sue origini, Mircleman è una storia di perdita. Mickey Moran è stato un dio, che ha perso la sua divinità, per poi perdere la sua umanità con tutto quello che ne consegue, anche perché, ci viene rivelato che il duo non condivide al 100% la mente, e quando nella pagina c'è l'uno piuttosto che l'altro, quello che non è sulla pagina, di solito non è molto contento.

Il cast di Mircleman perde qualcosa durante tutta la narrazione, c'è chi perde l'innocenza, chi la sanità mentale, chi la vita in senso letterale, e chi in senso metaforico. La più grande decostruzione del fumetto dei supereroi che fa questa storia, non è tanto l'iperviolenza, il realismo spicciolo, od il cinismo (che però ha ragione) che dice che i supereroi nel mondo vero non funzionerebbero come i fumetti: la più grande decostruzione è che alla fine di tutto Mircleman crede di aver vinto, ma non è così, in uno scacco matto al lettore, che per tanti numeri aveva tifato per lui. 

Ad una seconda lettura, Miracleman è una storia sulle parole. Come Capitan Marvel, il fulcro di tutto è la parola, la parola magica che trasforma il mondo, come Abracadabra, la parola la cui etimologia è ancora discussa, che in alcune lingue si può tradurre come “io creo, attraverso la parola”. 

E quindi da “Kimota” nasce tutto, da sei lettere mescolate assieme nasce il potere, nasce la corruzione e lo splendore che il potere porta, e nasce l'evoluzione di questo personaggio nel corpo e nella mente, e questa importanza riverbera in tutte le decisioni della storia, dove ogni momento cruciale, ogni crocevia del destino è legato ad una parola. “Steppenwolf”, “Mamma”, “Sesso”, “Miracleman” “Bravo”. Senza contesto, son cinque parole senza senso, ma unite alla parola magica sono le sei parole sulle quale si reggono tutti i principali momenti di Pathos, di potenza assoluta di questa serie. Sei parole, per sei lettere. Esattamente, le lettere di Kimota.

Ad una terza lettura, Miracleman è una serie sul dimenticare. Se il Capitan Marvel originale aveva una parola che veniva dalla magia, e pur essendo dio e uomo, adulto e bambino, campione del bene e persona normale trovava nell'equilibrio la sua forza, Miracleman invece è tutto l'opposto. 

La serie parte già con lui legato più alla scienza che alla magia e pian piano Miracleman dimentica che la sua forza viene dall'equilibrio, semplicemente dimentica cosa significhi essere umano, e dimenticandolo si dimentica di non essere veramente un Dio. 

La storia si apre con un uomo senza ricordi, e si chiude con la stessa persona che non riesce più a ricordarsi come fosse la sua vita prima della sua evoluzione, una persona che ha gettato alle ortiche il suo passato per creare un presente nuovo, nella quale però manca qualcosa, che la vera essenza di stesso. 

Il trucco finale è proprio questo, l'essersi focalizzati così tanto sul reale, sul crudo, sul violento, ed esserci dimenticati a nostra volta delle vere origini di Miracleman, del fumetto per ragazzi fatto di semplicità ed innocenza, e di una visione del mondo che non ci ricordiamo più di avere. Perché è sempre difficile, quasi impossibile, ricordarsi com'era vivere in un mondo dove non si conosceva qualcosa. 

Miracleman è una storia sul come sia impossibile vivere nel ricordo, specie quando i ricordi (anche quelli dei non superumani) non sono affidabili, sono ricostruzioni di altri, ma è importante e cruciale vivere il ricordo, il non perdere di vista quali siano le nostre buone qualità, e ricostruire la nostra vita su di esse, piuttosto che su un'illusione di perfezione. 

Vero è però che, in alcuni casi, vorrei avere la possibilità di dimenticare. Vorrei dimenticare di aver letto questo fumetto, vorrei tornare al momento in cui recuperai per la prima volta dei numeri ingialliti della Eclipse, con pagine strappate, che odoravano di umido ed in alcuni punti erano illeggibili, tanto che la prima lettura di Miracleman fu a dir poco incompleta. Ma vorrei tornare lì, per poter rileggere di nuovo questa storia per la prima volta, e restare di nuovo a bocca aperta, per aver scoperto un nuovo modo di fare fumetto. 

Invece, mi tocca restare sì a bocca aperta, perché ogni volta che rileggo queste storie, mi ricordo perché siano dei classici: perché trascendono il tempo stesso, e sono sempre attuali. Son sempre un calcio in bocca, ma sempre attuali. E mi sta bene così.

Giovanni Campodonico

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