Lettera d'amore per un'edicola di periferia
Buona lettura!
Era una nebbiosa sera d’autunno, il periodo che preferisco, quando il freddo cerca di penetrarti nelle ossa e tu come un guerriero vichingo stanco cerchi di difenderti con maglioni pesanti e un fottuto goccio di liquore d'alloro. Soltanto che il liquore era a casa e io ero fuori… Fuori su una strada oscura con le chiappe gelate, sul sedile della mia Cadillac Nissan.
Era una sera calma, una sera da morti viventi. Urlando alleluja in sanscrito sentivo la notte che mi osservava dagli angoli remoti e bui della città, quegli occhi d’abisso insondabili che mi scrutavano mentre vagavo per una città sonnolenta, vuota e svogliata, proprio come mi sarei sentito io se non fosse accaduto quello che sto per raccontarvi.
Ero da solo ma sentivo di non essere solo, perché percepivo la notte profonda dietro ogni angolo che svoltavo. Lei mi osservava muovermi lento fra le strade fuligginose e fosche mentre io osservavo la notte slabbrata dal vento prendere il sopravvento sul tardo pomeriggio come un fottutissimo vampiro silenzioso che avrebbe inesorabilmente inseguito e succhiato via la delirante luce di novembre. Il buio in certe periferie può essere una presenza solida, tangibile e respirabile. Come se la conformazione urbanistica stessa di certe zone periferiche fosse plasmata dal nero cosmico della notte, dove il buio non è soltanto mancanza di luce ma l'ombra stessa di quelle calde stelle morenti che sono i dannati pallidi lampioni arancio che durante la notte allungano le loro ombre violente come braccia deformi per trasformare gli incroci degradati di periferie anonime in zone fantasma di città gotiche di un imminente futuro distopico che ci aspetta a gambe aperte con un bel sorriso e due bombe a mano sulle tette.
Dopo una buona mezz’ora di giri a vuoto, finalmente una strada illuminata da lampioni fulminati. Quella sera ero diretto verso nessuna meta, avevo degli affari da sbrigare e dissi a me stesso “mi fermerò nel primo dannato posto che mi trasmetterà l’energia ancestrale di cui ho bisogno”. Volevo seguire l’istinto primordiale. Ero diretto verso la periferia più estrema della mia città e per dio ci sarei arrivato, per un motivo che ancora non conoscevo.
L’incontro alla fine fu un impatto istantaneo, non prevedibile, come arrivare in un posto per la prima volta provando vero stupore: ti guardi intorno, cerchi i particolari, qualche elemento che possa catturare la tua attenzione. Una strada poco illuminata, un palazzo diroccato, l’ombra di un lampione morente. Poi finalmente, arrivato alla fine della strada, la vidi… Pallida luce nelle tenebre della periferia, arcaico altare in onore della conoscenza, era lì davanti a me sotto forma di un'edicola, una struttura degna del miglior film noir d’essai.
Scesi dalla macchina quasi a passo svelto, non vedevo l’ora di entrare in quel tempio di carta per farmi assalire e sprofondare con i milioni di personaggi che lo abitavano.
Immersa nel nulla cosmico della periferia, nel suo regno di carta mi attendeva una solitaria e minuta regina deposta in attesa del cavaliere errante di ritorno da un avamposto Jedi nello spazio profondo. Lei, come una piccola fiammiferaia solitaria, come il templare che attende Indiana Jones, attendeva forse me. Vidi nel suo volto, nei suoi abiti, nel suo portamento e nella sua voce, che recava con sé eoni di ricordi. Come un'anziana zia che ti accoglie in casa, nella sua tenerezza indifesa mi sorrise e ritornai indietro nel tempo.
Tornò in me l’istinto della scoperta e la sensazione d'avventura che provavo sempre da ragazzino quando d’estate nel cercare e girare le edicole dei paesi di mare riuscivo quasi a percepire il profumo della carta e dell’ inchiostro per le strade. Come un rabdomante fallace mentre mi avvicinavo a un'edicola, prima ancora di avvistarla all’orizzonte, venivo attirato da questo flusso (canalizzatore) di arome ataviche anglosassoni. Sentivo pulsare la bianca linfa delle vene degli alberi mentre le pagine mosse dal vento mi trascinavano dentro di loro. Percepivo l’odore di pergamena ed olio e balsamo per mummificare disegni ancestrali, per renderli eterni nella gloria del firmamento cartaceo della breve infame storia dell’umana esistenza. Come in una sinestesia, riuscivo a vedere il profumo e l’odore agrodolce della carta stampata che mi strattonava i sensi richiamandomi all’estasi.
Come una piccola Ghost town racchiusa in pochi metri quadrati d'acciaio logoro e vetri opacizzati dal gelo, quell’edicola - ma ancor di più la sua proprietaria - mi suscitarono tenerezza, dolcezza, devozione e serenità anche se fuori da quelle pareti c’era sempre la devastante realtà. Fu un momento di fuga dentro un'oasi di salvezza. La gioia che provai nel vedere quell’anziana signora in quell’edicola riportò alla luce memorie dall’invisibile e sensazioni quasi dimenticate che mi ricordarono quanto ho amato e quanto amo ancora le piccole accoglienti edicole di periferia ed i loro, a volte buffi e teneri, proprietari.
Ciò che quella visione d’insieme evocò in me fu soprattutto il pensiero che negli anni del benessere quel posto doveva essere stato come un castello nel deserto. Ora era solo deserto.
Indubbiamente si percepiva l’aura, seppur fioca, dell’edicola che insieme all’anziana signora formava un tutt’uno, come se fossero entrambe due entità viventi e al tempo stesso un'unica entità, vene pulsanti al crocevia di strade vuote. Come una matrioska, la città conteneva l’edicola e l’edicola conteneva l’anziana proprietaria che a sua volta conteneva una parte di memoria di questa città. La memoria della gente che alla fine dei conti è la vera anima di una città.
L’edicola, come un vecchio specchio opacizzato dall’incuranza, rifletteva la stanza vuota nella quale era stato lasciato appeso, i muri spogli, sudici e umidi come le strade che la circondano.
Eppure lei, l’edicola, come la signora al suo interno, resiste come un faro su un'isola deserta colpita dall’indifferenza del mare, come la torre nera di Stephen King, inarrivabile ed imbattibile in quanto a fascino mistico.
Ultimo baluardo del sapere che cerca di difendersi ed essere ascoltato senza far rumore. Perché le pagine inchiostrate urlano mentre combattono battaglie di silenzioso inchiostro che schizza ovunque nelle nostre menti. E in tutto questo, anziane signore cercano di sopravvivere a quest'apocalisse combattendo umili battaglie quotidiane per sopravvivere.
Fu proprio il silenzioso inchiostro dell’edicola e la calma rassicurante dell’anziana che mi attirarono a fermarmi.
Mentre ero lì, al freddo della sera nel mio caldo cappotto, intento a sfogliare alcuni fumetti, immaginavo l’evoluzione (o forse l’involuzione) della periferia e la sua decadenza attraverso l’immagine dell’edicola stessa, come se fosse lei il cuore pulsante di quella particolare zona, come se l’edicola fosse la rappresentazione fisica, strutturale, tridimensionale dell’impalpabile abbandono in cui riversano certe zone suburbane.
Una serie indefinibile di assurde domande iniziarono a spaccarmi i pensieri. Cosa sarebbe diventato quel posto, quella struttura fra dieci o vent'anni? Quale ragazzo o ragazza avrà comprato proprio lì un fumetto fondamentale per la sua esistenza (magari il primo fumetto della sua esistenza)? Chi comprerà qualcosa di altrettanto fondamentale nel futuro?
Perché a volte, come è capitato spesso a me in diverse edicole del pianeta, proprio lì, in quelle vecchie, logore, meravigliose, sgangherate edicole si trovano vecchi fumetti e soltanto un vero lettore conosce la sensazione di trovare un fumetto vecchio di due, tre dieci anni. La sensazione che più si avvicina ad una scoperta archeologica. Ti senti un vero fottutissimo Indiana-Fuckin'-Jones.
Per quanto riguarda quell’edicola, la ricordavo bene perché ventiquattro o venticinque anni prima, forse ci sarò andato un paio di volte, ma non ho conservato troppe memorie riguardo l’oggetto di quelle mie visite. È stato un ritorno in un posto in cui in realtà non ero mai stato prima ma nel quale non mi sentivo affatto uno straniero.
Percepivo la luce dei neon antichi, i fasti dei tempi migliori riflessi nello scintillio degli occhi dell’anziana, lei e quel bunker di carta: loro due insieme stavano combattendo l’oscurità mentale e l’oscurità stradale. Stavano combattendo l’asfissia cieca e pigra dell’ignoranza comoda delle falene viziate che vengono attirate dai bagliori accecanti dei centri commerciali e delle grandi librerie in centro, dal lurido luccichio falso dei flash onnipresenti di siti internet amazzonici e non riescono più a vedere o distinguere le luci al neon di una piccola edicola di periferia. Noi non siamo fottute falene, siamo corvi e siamo draghi e quelle edicole di periferia sono lucciole che illuminano la strada quanto basta per non farci cadere in un cazzo di fosso di 6 metri.
Mi ritrovai a domandarmi: e se fossimo noi la causa del degrado di certi luoghi, se comprassimo meno su internet e molte case editrici fossero costrette a tornare in edicola, non sarebbe una vittoria per le piccole edicole contro le vituperate pluri milionarie multi nazionali? È un sogno, lo so, il sogno di un vecchio pazzo che ama ancora alla follia le piccole e male illuminate edicole di periferia (e relativi anziani proprietari).
A volte, semplicemente a me piace girare per le vecchie edicole, cercando l’ignoto e comprando anche albi stravecchi. Mi piace ancora lasciarmi stupire dalle gemme rare da cercare in quegli avamposti reali diroccati che sono certe edicole nell’orlo esterno delle città.
Mentre salutavo la disillusa simpatica vecchietta e rientravo in auto, in quella precisa serie di momenti mi sono chiesto: “Hey, shit, ma sei mai stato in tutte le edicole di questa città?”, o meglio: “in tutte le edicole di periferia?”. Mi risposi: “Fuck yeah, sarà la mia folle missione”. Che io sia dannato a defecare dalle orbite pancake allo sciroppo d’acero per l’eternità, damn, lo farò.
Visiterò tutte le edicole della mia città, soprattutto quelle periferiche. Un pellegrinaggio profano alla ricerca del sacro pantagruelico fumetto perduto o dell’antico vaso che doveva essere portato in salvo.
Sono in missione per conto di Dio. Vai.