Uncanny Cinecomics: Joker
“Dance like nobody’s watching”: la danza macabra ed elettrizzante del Joker di Todd Phillips
Un uomo in completo borgogna, panciotto arancione e camicia verde scende una rampa di scale, alte, che danno su un’ambientazione urbana squallida e decadente. L’uomo fuma a grandi boccate l’ennesima sigaretta, agitandosi e muovendosi sulle note di Rock & Roll Part 2 di Gary Glitter. I suoi capelli sono tinti di verde, in viso il cerone bianco, una maschera in rosso e blu che abbraccia occhi e labbra. I gradini della scalinata sono ancora bagnati, eppure l’uomo danza con vigore, scalciando l’aria, agitando il corpo a ritmo.
“Dance like nobody’s watching”: per Arthur Fleck, la danza solitaria sembra un modo di riottenere concentrazione, mettere in chiaro le idee, silenziare i pensieri cattivi, gli istinti negativi. Lo spettatore, seduto sulla poltrona al cinema, ha già osservato questa figura longilinea e quasi scheletrica muoversi con movimenti lenti ma decisi. La precisione nella rotazione delle braccia, la narrativa che fluisce dalla mimica del corpo, distorcendo il proprio volto, contraendo, rilassando sotto le luci claustrofobiche di stanze squallide. Per la prima volta, su quella rampa di scale, il Joker di Todd Phillips vede un clown ballare per il suo pubblico, fiero, felice. Una danza macabra ed elettrizzante, coinvolgente, che lascia un sorriso in volto. L’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix smette di essere “Arthur” e abbraccia il suo nuovo nome: Joker.
(Ci teniamo a dirvi che quanto segue contiene qualche spoiler sulla trama, nella malaugurata ipotesi in cui voleste avventurarvi a leggere il pezzo prima di vedere il film!)
L’inizio degli anni ‘80 è traumatico per Gotham City: la città è invasa dai rifiuti e il divario tra la classe agiata e l’uomo comune non è mai stato così netto. La tensione sociale è palpabile. C’è nervosismo nell'aria e Arthur Fleck, seduto di fronte ad uno specchio, è pronto ad affrontare una nuova giornata. Metodicamente Joaquin Phoenix applica il trucco da clown, mentre qualche lacrima scende sulle sue guance e si infila due dita ai lati della bocca, “creando” un sorriso forzato, immediatamente interrotto da uno sguardo malinconico, triste, quasi disgustato da ciò che vede. L’inquadratura si allarga: ci dovrebbero essere altri pagliacci intorno a lui, ma quella visualizzata da Todd Phillips è una scena disperata, inconsciamente comica: uomini al limite, nani, volti loschi e poco affidabili, poco adatti a chi dovrebbe portare allegria e gioia nascosti tra le quattro mura luride e l’immondizia di una città fumosa.
Dopo l’ennesima brutta giornata ed un pestaggio subito da dei ragazzini, lo spettatore comincia ad addentrarsi nella vita quotidiana di Fleck, scoprendo che le botte e gli sputi sono solo gli ultimi dei suoi problemi: le sedute dalla psichiatra diventano sempre più sterili e vuote e ridotte alla semplice distribuzione di pillole; la sua malattia, l’impulso incontrollabile alla risata in momenti poco opportuni, stressanti o psicologicamente provanti lo emargina ancora di più, specialmente in una città che sembra non riuscire a ridere di nulla, se non della crudeltà verso gli altri. La vita in un condominio fatiscente, insieme alla stralunata, altrettanto disturbata madre Penny, completa un quadro umiliante per un uomo chiaramente ridotto al lumicino, fisico e morale. L’unico momento di tranquillità per Arthur è la sera quando, prima di addormentarsi, si affianca alla madre sul letto, guardando in tv lo show di Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro, comico e conduttore idealizzato ed elevato a figura simil-paterna da Fleck.
La deprimente quotidianità in Joker è seguita dall’occhio di Todd Phillips e del direttore della fotografia Lawrence Sher: insieme, i due seguono il percorso di Joaquin Phoenix con attenzione morbosa, concentrandosi particolarmente sul contrasto netto tra la figura di Arthur Fleck e il resto della città. Spesso schiacciato tra le strade, soffocato dalle luci al neon e perso tra tante persone, tristi e depresse, Phillips, Sher e soprattutto Phoenix riescono a rimuovere Fleck dal resto dei passanti. Le movenze sono scomposte, ricche di piccoli tic nervosi, scatti sommessi e, ancora, la risata graffiante e potente, rumorosa e incapace ad amalgamarsi col resto del rumore urbano.
In Joker, Phoenix riversa tutta la fatica e il nervoso creato nello studio del personaggio: la vistosa perdita di peso, le letture sulle malattie mentali e su cosa può comportare vivere sotto pesanti medicazioni ventiquattr’ore su ventiquattro. Chiaramente affascinato dalla possibilità di interpretare un personaggio diviso, empatico e ripugnante, violento e sottomesso, estremamente visibile e completamente invisibile, Joaquin Phoenix si esalta nelle inquadrature strettissime, nei dutch angles che ne sottolineano la stortura morale e fisica, spezza il ritmo della narrazione e della vita quotidiana ridendo irrefrenabilmente nonostante non ci sia alcun motivo. Fuori sincrono dal resto di Gotham, depressa e deprimente, Arthur Fleck passa inosservato tra la folla e risalta quando la sua malattia mentale prende il sopravvento, costringendolo più volte a subirne le conseguenze violente o i crudeli scherzi del destino.
La risata - componente fondamentale, finora, per ogni Joker cinematografico - di Joaquin Phoenix non è mai villain-esca come quella di Cesar Romero, deviata e maniacale come Heath Ledger o cartoonesca à la Mark Hamill. Arthur Fleck ride soffrendo, quasi soffocando: la sua condizione mentale gli impedisce di ridere come farebbe chiunque altro e, allo stesso tempo, non gli è consentito ridere insieme agli altri. Il suo sogno nel cassetto, diventare un comico professionista, è tremendamente puerile e Arthur appare incapace di cogliere l’umorismo dei cabarettisti delle bettole gothamite.
Il protagonista principale, in un modo o nell’altro, è emarginato dalla società a causa della sua malattia su molteplici strati e la pellicola di Philips e dello sceneggiatore Scott Silver è molto meno sottile e ambigua dell’interpretazione di Phoenix. Lo script è estremamente didascalico e, sin dai primi minuti, cerca di veicolare ad ogni costo la frattura insanabile tra Arthur Fleck e tutto ciò che resta di Gotham, dall’atteggiamento strafottente dei più ricchi alla rabbia e alla frustrazione di chi vive ai margini della scala sociale, colpendo indistintamente chiunque altro vi si trovi al centro.
Attenzione, però, allo scambiare la passività come difetto dell’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix. Nella prima abbondante ora del film, il mondo sembra incessantemente e sempre più crudelmente rivoltarsi contro Arthur. Una spirale discendente, che spesso culmina con il protagonista inerme, incapace a reagire, sia per la sua condizione mentale, sia perché gli ostacoli posti di fronte sono troppo grandi. Quella di Arthur Fleck è la giornata storta che Alan Moore raccontava in The Killing Joke: una giornata storta che dura una vita intera. Joaquin Phoenix cammina su un percorso doloroso e solitario, capace di sorprendere e scavare sempre più a fondo nella mente provata di un uomo disturbato, fino al punto in cui, come ogni storia che si rispetti, tutto cambia.
Come impone Cechov, l’introduzione di una pistola nella narrazione fa saltare l’equilibrio - e, per la prima volta, Arthur Fleck sente una briciola di potere, la possibilità di mettersi in mostra e prendersi il palcoscenico. Potere fittizio, artificiale, un deus ex machina che non rappresenta una riscossa per il protagonista, piuttosto il punto di non ritorno. Arthur Fleck si spinge oltre il limite dopo l’ennesima umiliazione: colpi nell’assordante silenzio urbano spezzano Joker in due. Seguito dalle note di Bathroom Dance di Hildur Guðnadóttir, Fleck mima un ballo solitario, squallido e terribilmente affascinante. La precisione, il ritmo lento e drammatico cozzano con la scarica d’adrenalina appena iniettata al film. Phillips e Phoenix lavorano insieme al resto della troupe, della produzione - è un momento fondamentale per la pellicola e per Arthur Fleck che, ignaro, ha appena compiuto il suo primo passo in avanti verso la sua nuova vita.
Pur essendo un film dedicato al Principe Clown del Crimine e alle sue (supposte) origini, Joker raramente parla di criminalità e, quando lo fa, sembra estremamente tangenziale, nonostante gli spari di Arthur abbiano apparentemente scatenato una sommossa popolare. Nell’ennesima beffa drammaticamente ironica, il “palcoscenico” per Arthur viene occupato e narrato da elementi esterni: l’unico atto tangibile e concreto del protagonista viene ridisegnato e decontestualizzato, sfruttato dal malcontento popolare gothamita come miccia pronta a far esplodere la rivolta, che adotta il volto del clown killer che ha colpito l’1% della città. Il filone secondario della frattura tra ricchi e poveri a Gotham diventa decisamente più importante, nonostante resti la parte più superficiale e leziosamente collegata alla trama generale. Tuttavia, come già accennato, Fleck resta in disparte, concentrato sulla sua personalissima discesa e ascesa.
Color correction e il costante aggiustamento della cinepresa invertono la tendenza e Arthur, prima minuscolo e spesso invisibile, comincia ad essere decisamente più esuberante, divertente ed inquietantemente cosciente, smanioso di riprovare quel briciolo di potere. Lo script di Phillips e Silver comincia a prendere nota del proprio protagonista, non più elemento completamente passivo, e gli shockanti risvolti di trama (capaci di far venire i brividi ai più accaniti fan del Pipistrello) incrociano in maniera inaspettata le strade di Fleck e della famiglia Wayne, partendo proprio dal piccolo Bruce, protagonista insieme al “nuovo” Arthur di una scena alla quale è letteralmente impossibile resistere: separati da sbarre di ferro, Fleck cerca in ogni modo di far ridere il giovane rampollo Wayne. È una piccola perla sorprendentemente fumettosa in un film che sembra fare di tutto pur di rinnegare la sua origine cartacea, ma che non riesce a resistere al canto della sirena.
Sarebbe sbagliato pensare che la presa di coscienza di Arthur Fleck e la trasformazione che Phoenix imprime al personaggio siano frutto di rivalsa: ciò che cambia in Arthur è la semplice percezione della vita in base alle nuove, traumatiche rivelazioni sul suo passato. Il mondo dell'uomo crolla sotto i suoi piedi ancora una volta, marcando a fuoco la natura disperata, fragile e patetica di quello che un semplice uomo o donna - non il Joker - può fare. La vita tragica si trasforma in commedia solo perché non è rimasto più nulla che possa andare peggio, per Fleck... e tanto vale riderci su. La situazione diventa insostenibile e perdere l'ultimo briciolo di figura paterna rimastagli scatena in lui anni di rabbia repressa, menzogne e vendetta covata contro il mondo intero, che lo ha ingiustamente messo ai margini per tutta la sua vita.
Umiliato, strappato con forza dalle flebili certezze esistenziali, messo a confronto con la cruda realtà e le finzioni della sua malattia mentale, la transizione da Arthur Fleck a Joker è netta e palpabile, brillantemente portata in scena da un Phoenix sempre più coinvolto e propriamente calato nel ruolo. La figura pavida si lascia andare a momenti d’ira, sprazzi di gioia: la risata non è più soffocante e sembra aver lasciato posto a silenziosi quanto inquietanti sorrisi. La trasformazione è sottolineata dalla sempre più rilevante presenza del trucco, con Arthur che adotta l’identità di Joker quasi casualmente - un nome che i media hanno imposto su di lui. Uno dei temi rilevanti della pellicola, la percezione della società verso il singolo individuo, arriva a trasformare la persona Arthur Fleck nel “simbolo” Joker: killer, comico fallito, icona di un movimento popolare, leggenda metropolitana. Per Arthur tutto ciò non ha alcuna rilevanza e il film sembra bistrattare questa narrativa apparentemente fondamentale con una certa superficialità, che assottiglia il contesto, il messaggio e “riduce” il film ad un character study. Non è un caso, dunque, che Phoenix spicchi su tutto il resto, una trama raccontata con semplicità con un messaggio potente, didascalico, per nulla originale, ma veicolato in maniera chiara e capace di scuotere lo spettatore.
La prima apparizione del Joker avviene dopo l’ultimo, crudele ed inquietante atto di vendetta di Arthur e riporta tutto alle scale, elemento costante nella regia e sceneggiatura di Joker. Nell’arco della pellicola, la lunga scalinata verso il fatiscente condominio nel cuore della Gotham più povera è sempre vista in salita. Anche in questo caso, Phillips è tutt’altro che sottile e la metafora sulla tragica vita di Arthur Fleck è servita su un piatto d’argento. Ma a scendere le scale, questa volta, non è più Fleck, bensì un personaggio completamente nuovo, finalmente a suo agio nei propri panni, non più anonimo e tragico, ma riconoscibile, gioioso, arricchito dalla sua nuova, criminale, psicotica prospettiva di vita.
Il climax del film è composto da due elementi - uno propriamente appartenente alla narrativa di Todd Phillips, Scott Silver e Joaquin Phoenix, l’altra alla natura da cinefumetto, che torna in maniera prepotente e inietta una scarica d’adrenalina finale. Il confronto tra Joker, la figura paterna posticcia di Murray Franklin e “la società”, che osserva il nuovo Fleck attraverso lo schermo, vomita in un fiume d’odio anni di repressione, abusi ed incomprensioni. È una lettera non casualmente raccontata attraverso gli schermi della tv, il delirio di un matto che si sente giustificato e supportato dal pubblico nel suo radicale cambiamento. Ufficialmente introdotto al pubblico come Joker, Fleck si lascia alle spalle qualsiasi stralcio del suo passato, compiendo l’ultimo passo verso l’apice della sua origin story in una scena brillantemente diretta e, ancora una volta, splendidamente recitata.
Il film potrebbe concludersi qui, con un ultimo colpo di pistola che shocka lo spettatore. Joker preferisce invece indugiare, accelerando improvvisamente il ritmo, regalando i dieci minuti più belli dell’intera pellicola: quelli che mostrano una Gotham dominata dall’ideale traviato e distorto del Joker, una città che ha un disperato bisogno di Batman. Con uno splendido colpo di coda, Phillips, Scott e Phoenix chiudono le origini del Joker, (anti)eroe della folla in rivolta, a suo agio in un nuovo palcoscenico. Danza col Diavolo nel pallido plenilunio, mentre il dramma prende nuovi risvolti a Crime Alley - e comincia una nuova storia d’origini.
Visivamente intrigante e competentemente diretto, Joker soffre principalmente di una trama ridotta all’osso, che offre poche ma intriganti curvature alle spettatore. Le deviazioni sul percorso offrono spunti di discussione e possibilità di teorizzare, ma essenzialmente restano parti minori dello studio sul personaggio di Joaquin Phoenix, che calza perfettamente nella “doppia parte” Fleck / Joker, anonimo e disturbato l’uno, inquietante, crudele ed esilarante il secondo.
Il film non nasconde le proprie idee, anzi sembra disperatamente intenzionato a farle notare a tutti i costi, scrivendole su quaderni, urlandole allo schermo. Tuttavia, c’è spazio per interessanti giochi visivi, come la ricorrente separazione tra il protagonista e il resto dei personaggi, tra muri e sbarre, barriere visibili e invisibili che sottolineano la differenza tra le considerazioni su normalità e anormalità. Il nocciolo di Joker non è, come si temeva, la storia di rivalsa per i bistrattati della società moderna, né tanto meno la riproduzione 1:1 di The Killing Joke. Joker è essenzialmente la storia personale di un uomo in cerca di approvazione, di un palcoscenico su cui danzare e mettersi in mostra. La costante negazione di esso, la sorte avversa, le bugie e il morboso istinto a separarsi e ad ignorarsi, a non concedersi mai in un gesto d’amore o una gentilezza spingono il protagonista ad intraprendere un percorso interessante e turbolento ed il film è valorizzato dalla straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix.
Né Leto, né Ledger, né Nicholson, né Hamill, né Romero: osservare il passaggio da Arthur Fleck a Joker offre tridimensionalità e personalità ad un personaggio che dovrebbe fare del proprio perverso carisma il proprio perno fondamentale. Ma la bellezza o la bruttezza di Joker, come pellicola e come “concetto” in sé, dipende proprio dalla visione che ne si ha. Il lettore di fumetti e anche lo spettatore “medio” conosce il mistero dietro il cerone, il volto bianco, i capelli verdi. Ognuno degli attori, dei registi, degli scrittori, degli artisti ha portato un’interpretazione radicalmente diversa. Tra il pubblico c’è chi ne ama il fascino dell’origine ignota, come c’è chi apprezzerà lo sguardo nella nascita della follia offerta da Phillips e soprattutto da Phoenix.
Joker non ha la presunzione di offrire l’origine definitiva del Principe Clown del Crimine. Si appoggia, senza nasconderlo, a quello che possiamo definire come il Principio Fondamentale Mooreiano, un estratto da The Killing Joke che riassume perfettamente Arthur Fleck così come tante altre interpretazioni del personaggio.
Ogni Joker è diverso, ma ogni Joker che sembra rifarsi allo stesso punto d’origine in comune: «Non siamo legati al raziocinio per contratto! Non esistono clausole per la sanità mentale! E così, quando ti trovi agganciato ad un treno di pensieri spiacevoli, diretto verso quei luoghi del tuo passato dove le urla si fanno insopportabili, ricordati che c’è sempre la follia... e la follia è l’uscita d’emergenza. Puoi sempre uscire e chiudere la porta su tutte le cose orribili della tua vita. Per sempre.»
Un uomo in completo borgogna, panciotto arancione e camicia verde scende una rampa di scale, alte, che danno su un’ambientazione urbana squallida e decadente. L’uomo fuma a grandi boccate l’ennesima sigaretta, agitandosi e muovendosi sulle note di Rock & Roll Part 2 di Gary Glitter. I suoi capelli sono tinti di verde, in viso il cerone bianco, una maschera in rosso e blu che abbraccia occhi e labbra. I gradini della scalinata sono ancora bagnati, eppure l’uomo danza con vigore, scalciando l’aria, agitando il corpo a ritmo.
“Dance like nobody’s watching”: per Arthur Fleck, la danza solitaria sembra un modo di riottenere concentrazione, mettere in chiaro le idee, silenziare i pensieri cattivi, gli istinti negativi. Lo spettatore, seduto sulla poltrona al cinema, ha già osservato questa figura longilinea e quasi scheletrica muoversi con movimenti lenti ma decisi. La precisione nella rotazione delle braccia, la narrativa che fluisce dalla mimica del corpo, distorcendo il proprio volto, contraendo, rilassando sotto le luci claustrofobiche di stanze squallide. Per la prima volta, su quella rampa di scale, il Joker di Todd Phillips vede un clown ballare per il suo pubblico, fiero, felice. Una danza macabra ed elettrizzante, coinvolgente, che lascia un sorriso in volto. L’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix smette di essere “Arthur” e abbraccia il suo nuovo nome: Joker.
(Ci teniamo a dirvi che quanto segue contiene qualche spoiler sulla trama, nella malaugurata ipotesi in cui voleste avventurarvi a leggere il pezzo prima di vedere il film!)
L’inizio degli anni ‘80 è traumatico per Gotham City: la città è invasa dai rifiuti e il divario tra la classe agiata e l’uomo comune non è mai stato così netto. La tensione sociale è palpabile. C’è nervosismo nell'aria e Arthur Fleck, seduto di fronte ad uno specchio, è pronto ad affrontare una nuova giornata. Metodicamente Joaquin Phoenix applica il trucco da clown, mentre qualche lacrima scende sulle sue guance e si infila due dita ai lati della bocca, “creando” un sorriso forzato, immediatamente interrotto da uno sguardo malinconico, triste, quasi disgustato da ciò che vede. L’inquadratura si allarga: ci dovrebbero essere altri pagliacci intorno a lui, ma quella visualizzata da Todd Phillips è una scena disperata, inconsciamente comica: uomini al limite, nani, volti loschi e poco affidabili, poco adatti a chi dovrebbe portare allegria e gioia nascosti tra le quattro mura luride e l’immondizia di una città fumosa.
Dopo l’ennesima brutta giornata ed un pestaggio subito da dei ragazzini, lo spettatore comincia ad addentrarsi nella vita quotidiana di Fleck, scoprendo che le botte e gli sputi sono solo gli ultimi dei suoi problemi: le sedute dalla psichiatra diventano sempre più sterili e vuote e ridotte alla semplice distribuzione di pillole; la sua malattia, l’impulso incontrollabile alla risata in momenti poco opportuni, stressanti o psicologicamente provanti lo emargina ancora di più, specialmente in una città che sembra non riuscire a ridere di nulla, se non della crudeltà verso gli altri. La vita in un condominio fatiscente, insieme alla stralunata, altrettanto disturbata madre Penny, completa un quadro umiliante per un uomo chiaramente ridotto al lumicino, fisico e morale. L’unico momento di tranquillità per Arthur è la sera quando, prima di addormentarsi, si affianca alla madre sul letto, guardando in tv lo show di Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro, comico e conduttore idealizzato ed elevato a figura simil-paterna da Fleck.
La deprimente quotidianità in Joker è seguita dall’occhio di Todd Phillips e del direttore della fotografia Lawrence Sher: insieme, i due seguono il percorso di Joaquin Phoenix con attenzione morbosa, concentrandosi particolarmente sul contrasto netto tra la figura di Arthur Fleck e il resto della città. Spesso schiacciato tra le strade, soffocato dalle luci al neon e perso tra tante persone, tristi e depresse, Phillips, Sher e soprattutto Phoenix riescono a rimuovere Fleck dal resto dei passanti. Le movenze sono scomposte, ricche di piccoli tic nervosi, scatti sommessi e, ancora, la risata graffiante e potente, rumorosa e incapace ad amalgamarsi col resto del rumore urbano.
In Joker, Phoenix riversa tutta la fatica e il nervoso creato nello studio del personaggio: la vistosa perdita di peso, le letture sulle malattie mentali e su cosa può comportare vivere sotto pesanti medicazioni ventiquattr’ore su ventiquattro. Chiaramente affascinato dalla possibilità di interpretare un personaggio diviso, empatico e ripugnante, violento e sottomesso, estremamente visibile e completamente invisibile, Joaquin Phoenix si esalta nelle inquadrature strettissime, nei dutch angles che ne sottolineano la stortura morale e fisica, spezza il ritmo della narrazione e della vita quotidiana ridendo irrefrenabilmente nonostante non ci sia alcun motivo. Fuori sincrono dal resto di Gotham, depressa e deprimente, Arthur Fleck passa inosservato tra la folla e risalta quando la sua malattia mentale prende il sopravvento, costringendolo più volte a subirne le conseguenze violente o i crudeli scherzi del destino.
La risata - componente fondamentale, finora, per ogni Joker cinematografico - di Joaquin Phoenix non è mai villain-esca come quella di Cesar Romero, deviata e maniacale come Heath Ledger o cartoonesca à la Mark Hamill. Arthur Fleck ride soffrendo, quasi soffocando: la sua condizione mentale gli impedisce di ridere come farebbe chiunque altro e, allo stesso tempo, non gli è consentito ridere insieme agli altri. Il suo sogno nel cassetto, diventare un comico professionista, è tremendamente puerile e Arthur appare incapace di cogliere l’umorismo dei cabarettisti delle bettole gothamite.
Il protagonista principale, in un modo o nell’altro, è emarginato dalla società a causa della sua malattia su molteplici strati e la pellicola di Philips e dello sceneggiatore Scott Silver è molto meno sottile e ambigua dell’interpretazione di Phoenix. Lo script è estremamente didascalico e, sin dai primi minuti, cerca di veicolare ad ogni costo la frattura insanabile tra Arthur Fleck e tutto ciò che resta di Gotham, dall’atteggiamento strafottente dei più ricchi alla rabbia e alla frustrazione di chi vive ai margini della scala sociale, colpendo indistintamente chiunque altro vi si trovi al centro.
Attenzione, però, allo scambiare la passività come difetto dell’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix. Nella prima abbondante ora del film, il mondo sembra incessantemente e sempre più crudelmente rivoltarsi contro Arthur. Una spirale discendente, che spesso culmina con il protagonista inerme, incapace a reagire, sia per la sua condizione mentale, sia perché gli ostacoli posti di fronte sono troppo grandi. Quella di Arthur Fleck è la giornata storta che Alan Moore raccontava in The Killing Joke: una giornata storta che dura una vita intera. Joaquin Phoenix cammina su un percorso doloroso e solitario, capace di sorprendere e scavare sempre più a fondo nella mente provata di un uomo disturbato, fino al punto in cui, come ogni storia che si rispetti, tutto cambia.
Come impone Cechov, l’introduzione di una pistola nella narrazione fa saltare l’equilibrio - e, per la prima volta, Arthur Fleck sente una briciola di potere, la possibilità di mettersi in mostra e prendersi il palcoscenico. Potere fittizio, artificiale, un deus ex machina che non rappresenta una riscossa per il protagonista, piuttosto il punto di non ritorno. Arthur Fleck si spinge oltre il limite dopo l’ennesima umiliazione: colpi nell’assordante silenzio urbano spezzano Joker in due. Seguito dalle note di Bathroom Dance di Hildur Guðnadóttir, Fleck mima un ballo solitario, squallido e terribilmente affascinante. La precisione, il ritmo lento e drammatico cozzano con la scarica d’adrenalina appena iniettata al film. Phillips e Phoenix lavorano insieme al resto della troupe, della produzione - è un momento fondamentale per la pellicola e per Arthur Fleck che, ignaro, ha appena compiuto il suo primo passo in avanti verso la sua nuova vita.
Pur essendo un film dedicato al Principe Clown del Crimine e alle sue (supposte) origini, Joker raramente parla di criminalità e, quando lo fa, sembra estremamente tangenziale, nonostante gli spari di Arthur abbiano apparentemente scatenato una sommossa popolare. Nell’ennesima beffa drammaticamente ironica, il “palcoscenico” per Arthur viene occupato e narrato da elementi esterni: l’unico atto tangibile e concreto del protagonista viene ridisegnato e decontestualizzato, sfruttato dal malcontento popolare gothamita come miccia pronta a far esplodere la rivolta, che adotta il volto del clown killer che ha colpito l’1% della città. Il filone secondario della frattura tra ricchi e poveri a Gotham diventa decisamente più importante, nonostante resti la parte più superficiale e leziosamente collegata alla trama generale. Tuttavia, come già accennato, Fleck resta in disparte, concentrato sulla sua personalissima discesa e ascesa.
Color correction e il costante aggiustamento della cinepresa invertono la tendenza e Arthur, prima minuscolo e spesso invisibile, comincia ad essere decisamente più esuberante, divertente ed inquietantemente cosciente, smanioso di riprovare quel briciolo di potere. Lo script di Phillips e Silver comincia a prendere nota del proprio protagonista, non più elemento completamente passivo, e gli shockanti risvolti di trama (capaci di far venire i brividi ai più accaniti fan del Pipistrello) incrociano in maniera inaspettata le strade di Fleck e della famiglia Wayne, partendo proprio dal piccolo Bruce, protagonista insieme al “nuovo” Arthur di una scena alla quale è letteralmente impossibile resistere: separati da sbarre di ferro, Fleck cerca in ogni modo di far ridere il giovane rampollo Wayne. È una piccola perla sorprendentemente fumettosa in un film che sembra fare di tutto pur di rinnegare la sua origine cartacea, ma che non riesce a resistere al canto della sirena.
Sarebbe sbagliato pensare che la presa di coscienza di Arthur Fleck e la trasformazione che Phoenix imprime al personaggio siano frutto di rivalsa: ciò che cambia in Arthur è la semplice percezione della vita in base alle nuove, traumatiche rivelazioni sul suo passato. Il mondo dell'uomo crolla sotto i suoi piedi ancora una volta, marcando a fuoco la natura disperata, fragile e patetica di quello che un semplice uomo o donna - non il Joker - può fare. La vita tragica si trasforma in commedia solo perché non è rimasto più nulla che possa andare peggio, per Fleck... e tanto vale riderci su. La situazione diventa insostenibile e perdere l'ultimo briciolo di figura paterna rimastagli scatena in lui anni di rabbia repressa, menzogne e vendetta covata contro il mondo intero, che lo ha ingiustamente messo ai margini per tutta la sua vita.
Umiliato, strappato con forza dalle flebili certezze esistenziali, messo a confronto con la cruda realtà e le finzioni della sua malattia mentale, la transizione da Arthur Fleck a Joker è netta e palpabile, brillantemente portata in scena da un Phoenix sempre più coinvolto e propriamente calato nel ruolo. La figura pavida si lascia andare a momenti d’ira, sprazzi di gioia: la risata non è più soffocante e sembra aver lasciato posto a silenziosi quanto inquietanti sorrisi. La trasformazione è sottolineata dalla sempre più rilevante presenza del trucco, con Arthur che adotta l’identità di Joker quasi casualmente - un nome che i media hanno imposto su di lui. Uno dei temi rilevanti della pellicola, la percezione della società verso il singolo individuo, arriva a trasformare la persona Arthur Fleck nel “simbolo” Joker: killer, comico fallito, icona di un movimento popolare, leggenda metropolitana. Per Arthur tutto ciò non ha alcuna rilevanza e il film sembra bistrattare questa narrativa apparentemente fondamentale con una certa superficialità, che assottiglia il contesto, il messaggio e “riduce” il film ad un character study. Non è un caso, dunque, che Phoenix spicchi su tutto il resto, una trama raccontata con semplicità con un messaggio potente, didascalico, per nulla originale, ma veicolato in maniera chiara e capace di scuotere lo spettatore.
La prima apparizione del Joker avviene dopo l’ultimo, crudele ed inquietante atto di vendetta di Arthur e riporta tutto alle scale, elemento costante nella regia e sceneggiatura di Joker. Nell’arco della pellicola, la lunga scalinata verso il fatiscente condominio nel cuore della Gotham più povera è sempre vista in salita. Anche in questo caso, Phillips è tutt’altro che sottile e la metafora sulla tragica vita di Arthur Fleck è servita su un piatto d’argento. Ma a scendere le scale, questa volta, non è più Fleck, bensì un personaggio completamente nuovo, finalmente a suo agio nei propri panni, non più anonimo e tragico, ma riconoscibile, gioioso, arricchito dalla sua nuova, criminale, psicotica prospettiva di vita.
Il climax del film è composto da due elementi - uno propriamente appartenente alla narrativa di Todd Phillips, Scott Silver e Joaquin Phoenix, l’altra alla natura da cinefumetto, che torna in maniera prepotente e inietta una scarica d’adrenalina finale. Il confronto tra Joker, la figura paterna posticcia di Murray Franklin e “la società”, che osserva il nuovo Fleck attraverso lo schermo, vomita in un fiume d’odio anni di repressione, abusi ed incomprensioni. È una lettera non casualmente raccontata attraverso gli schermi della tv, il delirio di un matto che si sente giustificato e supportato dal pubblico nel suo radicale cambiamento. Ufficialmente introdotto al pubblico come Joker, Fleck si lascia alle spalle qualsiasi stralcio del suo passato, compiendo l’ultimo passo verso l’apice della sua origin story in una scena brillantemente diretta e, ancora una volta, splendidamente recitata.
Il film potrebbe concludersi qui, con un ultimo colpo di pistola che shocka lo spettatore. Joker preferisce invece indugiare, accelerando improvvisamente il ritmo, regalando i dieci minuti più belli dell’intera pellicola: quelli che mostrano una Gotham dominata dall’ideale traviato e distorto del Joker, una città che ha un disperato bisogno di Batman. Con uno splendido colpo di coda, Phillips, Scott e Phoenix chiudono le origini del Joker, (anti)eroe della folla in rivolta, a suo agio in un nuovo palcoscenico. Danza col Diavolo nel pallido plenilunio, mentre il dramma prende nuovi risvolti a Crime Alley - e comincia una nuova storia d’origini.
Visivamente intrigante e competentemente diretto, Joker soffre principalmente di una trama ridotta all’osso, che offre poche ma intriganti curvature alle spettatore. Le deviazioni sul percorso offrono spunti di discussione e possibilità di teorizzare, ma essenzialmente restano parti minori dello studio sul personaggio di Joaquin Phoenix, che calza perfettamente nella “doppia parte” Fleck / Joker, anonimo e disturbato l’uno, inquietante, crudele ed esilarante il secondo.
Il film non nasconde le proprie idee, anzi sembra disperatamente intenzionato a farle notare a tutti i costi, scrivendole su quaderni, urlandole allo schermo. Tuttavia, c’è spazio per interessanti giochi visivi, come la ricorrente separazione tra il protagonista e il resto dei personaggi, tra muri e sbarre, barriere visibili e invisibili che sottolineano la differenza tra le considerazioni su normalità e anormalità. Il nocciolo di Joker non è, come si temeva, la storia di rivalsa per i bistrattati della società moderna, né tanto meno la riproduzione 1:1 di The Killing Joke. Joker è essenzialmente la storia personale di un uomo in cerca di approvazione, di un palcoscenico su cui danzare e mettersi in mostra. La costante negazione di esso, la sorte avversa, le bugie e il morboso istinto a separarsi e ad ignorarsi, a non concedersi mai in un gesto d’amore o una gentilezza spingono il protagonista ad intraprendere un percorso interessante e turbolento ed il film è valorizzato dalla straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix.
Né Leto, né Ledger, né Nicholson, né Hamill, né Romero: osservare il passaggio da Arthur Fleck a Joker offre tridimensionalità e personalità ad un personaggio che dovrebbe fare del proprio perverso carisma il proprio perno fondamentale. Ma la bellezza o la bruttezza di Joker, come pellicola e come “concetto” in sé, dipende proprio dalla visione che ne si ha. Il lettore di fumetti e anche lo spettatore “medio” conosce il mistero dietro il cerone, il volto bianco, i capelli verdi. Ognuno degli attori, dei registi, degli scrittori, degli artisti ha portato un’interpretazione radicalmente diversa. Tra il pubblico c’è chi ne ama il fascino dell’origine ignota, come c’è chi apprezzerà lo sguardo nella nascita della follia offerta da Phillips e soprattutto da Phoenix.
Joker non ha la presunzione di offrire l’origine definitiva del Principe Clown del Crimine. Si appoggia, senza nasconderlo, a quello che possiamo definire come il Principio Fondamentale Mooreiano, un estratto da The Killing Joke che riassume perfettamente Arthur Fleck così come tante altre interpretazioni del personaggio.
Ogni Joker è diverso, ma ogni Joker che sembra rifarsi allo stesso punto d’origine in comune: «Non siamo legati al raziocinio per contratto! Non esistono clausole per la sanità mentale! E così, quando ti trovi agganciato ad un treno di pensieri spiacevoli, diretto verso quei luoghi del tuo passato dove le urla si fanno insopportabili, ricordati che c’è sempre la follia... e la follia è l’uscita d’emergenza. Puoi sempre uscire e chiudere la porta su tutte le cose orribili della tua vita. Per sempre.»
Fabrizio Nocerino