Uncanny Cinecomics: The Boys

“Come sarebbe il nostro mondo se esistessero i supereroi?”



Garth Ennis è un autore che si ama o si odia. Difficilissimo trovare mezze misure con uno scrittore che sembra essere l’antitesi stessa del concetto di “mezze misure”. Sboccato, violento, irrimediabilmente cinico e dissacrante, spesso e volentieri iconoclasta, Ennis non è mai stato come i suoi altrettanto illustri colleghi della “British Invasion”. Più distruttivo del primo Mark Millar, meno elaborato e sperimentale di Grant Morrison, sicuramente meno poetico e autoriale di Neil Gaiman, Garth Ennis si è ritagliato spazio mordendo, graffiando e mandando a farsi fo¥¥€re l’America a fumetti che lo accolse a braccia aperte. Dopo aver trovato successo in Gran Bretagna con il suo lungo ciclo di Judge Dredd, Ennis attraversò l’oceano per scrivere Hellblazer, The Demon e Hitman per DC Comics, seguito a ruota dal suo capolavoro Preacher in Vertigo e il suo approccio al Punisher in Marvel, senza mai accantonare la passione per il suo genere preferito: le war stories ambientate durante la II Guerra Mondiale.

Nel corso della sua carriera, Ennis ha sempre reso nota la sua viscerale antipatia per i supereroi, un genere che l’autore cominciò a conoscere solo negli ultimi anni della sua adolescenza e che arrivò a definire ridicolo nel 2011, in un’intervista per l’Irish Times. Con questa premessa, non è difficile capire quale spirito ha messo in moto la creazione di The Boys, serie a fumetti del 2006 disegnata da Darick Robertson, conclusa nel 2012 dopo ben 72 numeri. La premessa è semplice quanto diabolica: un gruppo di agenti della CIA, guidato dal cinico Billy Butcher, è incaricato di vigilare, contenere e, in casi necessari, eliminare i supereroi nel caso questi ultimi escano fuori dai ranghi. “I Ragazzi” del titolo, Butcher, il Francese, Latte Materno, la Femmina della Specie e Hughie, fungono come punto di vista del lettore su un mondo di supes sporco e corrotto, ricco di sesso, droga, corruzione e immoralità. Piuttosto che proporre, per contrasto, eroi senza macchia e senza paura, con The Boys Ennis sdogana l’iper-violenza, il gore, lo humor nero e la rabbia sadica come unica soluzione ad universo di supereroi che di eroico ha ben poco - un mix che può divertire, ma molto spesso intacca la qualità stessa del fumetto, perso in alcuni giri a vuoto di parodia esagerata fine a sé.

La cover del primo volume nell'edizione Deluxe targata Panini Comics.

Nello stesso spirito irriverente, di pop-controcultura nasce la serie TV The Boys, prodotta da Amazon e distribuita sulla piattaforma streaming Prime Video. Ideata da Evan Goldberg e Seth Rogen, già protagonisti dell’adattamento di Preacher dello stesso Ennis, la serie prende principale ispirazione dal primo arco narrativo della serie, Le Regole del Gioco, nonostante molti episodi prendano il proprio titolo da alcuni story-arc del fumetto. 
In cabina di pilotaggio di The Boys siede Eric Kripke, showrunner noto al pubblico per aver creato la serie cult Supernatural e altri serial come le più recenti Revolution e Timeless. Un uomo capace di catturare l’attenzione dello spettatore TV e un grande fan di Garth Ennis: in un’intervista a ScreenRant, Kripke ammise le difficoltà nel maneggiare una sceneggiatura non originale, esponendo al pubblico le complicazioni che derivano dallo scrivere un adattamento. Garth Ennis e Darick Robertson, coinvolti nel processo creativo, hanno preferito suggerire concentrazione e attenzione ai personaggi, piuttosto che alla trama principale. Di conseguenza, e in maniera del tutto naturale, The Boys in TV diventa un prodotto diverso dal The Boys a fumetti - per il sottoscritto, evolvendo e migliorando la serie originale.

Il primo episodio della serie non potrebbe presentarsi meglio: diretto da David Trachtenberg, regista di 10 Cloverfield Lane, e scritto dallo stesso Kripke, The Name Of The Game ricalca la premessa iniziale del fumetto di Ennis e Robertson. Traumatizzato dopo la morte della sua fidanzata Robin, letteralmente esplosa tra le sue mani al passaggio del supereroe velocista A-Train, il giovane Hugh Campbell, interpretato da Jack Quaid, viene approcciato da Billy Butcher, un rozzo ma carismatico agente della CIA dal volto di Karl Urban, che offre a Hughie la possibilità di vendicarsi dei supereroi.


Grazie al ragazzo, Butcher spera di poter finalmente mettere in luce la realtà e condividere con il mondo la sua visione: i supes non sono altro che pezzi di m$&£a patentati, nascosti dalla luccicante patina dei loro mantelli.
Il piano vendicativo di Billy Butcher passa attraverso i Sette, Homelander e la Vought Industries. La Vought, impresa multimiliardaria gestita dalla vice presidente Madelyn Stillwell, può essere descritta come il figlio deforme nato dagli aspetti peggiori della Walt Disney Company, FOX News e il Partito Repubblicano statunitense. Tra social media manager, pubblicitari, esperti di marketing, stilisti, registi e produttori cinematografici, enti di informazione e public relationships si nasconde un meccanismo spietato di controllo totale dell’Immagine del Supereroe.

Dietro le rare imprese eroiche dei Sette che Kripke decide di mostrare in The Boys si nasconde in realtà un gruppo di eroi strafatti di celebrità, intossicati dalla propria immagine e dal potere che possiedono. Il potenziale distruttivo è tanto e per Butcher si tratta di una ghiotta opportunità. A-Train è un membro attivo dei Sette, distorta versione della Justice League secondo l’ottica Ennisiana: Homelander (Patriota, in italiano) è il loro leader, SuperUomo avvolto dalle stelle e strisce della bandiera americana. A comporre il resto del gruppo il già citato A-Train, la guerriera Queen Maeve, il misterioso Black Noir, il supereroe marino The Deep (Abisso, in italiano), l’invisibile Translucent e la nuova arrivata Starlight.


In appena un’ora di ottima TV, Trachtenberg e Kripke costruiscono un mondo ricco di dettagli, complesso, eppure completamente credibile. Alla base di questa realtà narrativa c’è l’annosa domanda che ogni lettore di fumetti si è posto almeno una volta nella vita: “come sarebbe il nostro mondo se esistessero i supereroi?”. Il problema nella risposta data da Garth Ennis, e da Eric Kripke a sua volta, è che questa è tutt’altro che piacevole. Sin dalla sua creazione, il Supereroe vive su carta per elevare i valori umani: coraggio, tolleranza, altruismo - non serve guardare più in là di Superman, l’eroe per eccellenza. Tuttavia, The Boys intraprende il sentiero opposto, osservando i supereroi del proprio universo oltre la maschera, evidenziandone i tratti più sordidi, le loro oscure debolezze, le dipendenze e l’innata inadeguatezza che esiste nella loro eccezionalità. Sin dal primo episodio, The Boys porta i supereroi nel “nostro” mondo, trascinandoli a fondo nel tristemente familiare squallore egocentrico, autoincensante e disgustoso.
Figure estremamente negative, uomini e donne disfunzionali si trovano al centro del palcoscenico. Ciò permette a Kripke, Goldberg e Rogen di intorbidire le acque, donando a tutti i personaggi il tempo di mettersi in mostra.



Camei e ruoli di secondo piano nel fumetto vengono graziati di profondità, carattere, momenti brillanti, veri e propri archi narrativi. Abisso, il primo a rompere l’illusione dello spettatore (e di Starlight) sulla caratura morale dei supereroi, attraversa diverse fasi: da spocchioso ed arrogante supereroe a tema marino, il suo lato ambientalista più puro ed eroico arriva a cozzare con la disgustosità delle sue azioni, che inizieranno a ritorcerglisi dolorosamente contro. A-Train, forse l’elemento più controverso e detestabile dei Sette, il velocista che mette in moto la trama con la sua incoscienza, si rivela sempre più distrutto e tormentato dalle dipendenze, che lo hanno invischiato in un torbido giro di droga, autocommiserazione, bugie e ricatti. Il Francese combatte con la sua natura, un uomo che sembra nato per trovare nuovi modi per uccidere e tuttavia non riesce a rifiutare i suoi momenti di tenerezza e umanità una volta conosciuta l’incompresa Femmina della Specie. Hughie viene trascinato a fondo dai Ragazzi, ma è evidente come i metodi violenti e le situazioni paradossali in cui continua a cacciarsi con i suoi “nuovi amici” inizino a cozzare con le sue intenzioni, diametralmente opposte al mondo disilluso e spietato di Butcher, Frenchi e L.M. 

Starlight risulta forse la figura più positiva e, implicitamente, più tragica: da sempre esposta ad un mondo di concorsi di bellezza, estrema pressione sociale e luci dei riflettori in grado di accecare, il suo scontro con la schifosa realtà del mondo Vought e dei Sette metterà in discussione il suo desiderio, purissimo, di poter essere una “vera” supereroina. Come Ellis comanda, Hughie Campbell e Ann “Starlight” January iniziano una relazione romantica con ottimi risultati: l’alchimia tra Jack Quaid e Erin Moriarty, l’interprete della biondissima supereroina, è palpabile, convincente e farà da fil rouge “umano” ed empatizzante di questa prima stagione. Per una sorta di scherzo del destino, l’amore sbocciato tra i due permetterà ad entrambi di farsi forza nonostante il loro drammatico status quo: Hughie, coinvolto nei piani di Butcher, dovrà a malincuore sfruttare Starlight e la sua connessione diretta con i Sette - mentre Ann si troverà sempre più vicina al ragazzo, l’unica persona “buona” rimasta nella sua vita dopo il tragico ingresso nei Sette.


Nonostante l’occhio di riguardo riservato a Hughie e Starlight, la serie mostra una invidiabile equilibrio nella gestione del suo cast - al punto tale da poter sviluppare una trama corale priva di un unico protagonista principale, ben definito in schemi morali, azioni trascrivibili al registro dei Buoni o Cattivi. The Boys, sembra ridondante dirlo, preferisce staccarsi dalla classica dicotomia supereroistica, preferendo gettare tutti i suoi personaggi in uno scuro e sporco calderone, pieno di liquidi sudici. Nessun personaggio ne uscirà perfettamente immacolato e tutti subiranno un’evoluzione lungo il corso degli otto episodi della serie.
Billy Butcher è una bomba di distruzione e volgarità squisitamente britannica, con Karl Urban letteralmente fuori controllo: il suo odio per i supes è viscerale e ripugnante, rancoroso e profondamente radicato. Incapace per natura di diventare, come ci si aspetterebbe, una sorta di figura paterna per Hughie, Butcher preferisce rivelarsi lentamente per quello che è: un manipolatore, un bugiardo e un folle bastardo che riunisce i suoi “Boys” per puro interesse personale e lo fa candidamente - almeno col pubblico. Il suo percorso acquista valore se posto in parallelo, però, alla perfetta rappresentazione dello spirito satirico di The Boys - il personaggio interpretato da uno straordinario Antony Starr, Homelander.

Per una serie che non propone il dualismo come suo perno centrale, l’analisi della dicotomia Billy Butcher/Homelander permette di porre The Boys sotto una nuova luce - più propriamente supereroistica, tuttavia naturalmente disequilibrata e contorta, vista la natura della storia. Il primo, barbuto, sempre coperto da una pesante giacca scura, camicie hawaiiane sdrucite, un particolare gusto per la volgarità gratuita, lotta contro il suo passato, motivato dall’odio verso i supereroi; l’altro, capelli biondo platino, la bandiera degli Stati Uniti d’America, un sorriso abbagliante, pubblicamente sempre ineccepibile: il leader dei Sette sembrerebbe il perfetto opposto a Billy Butcher, lo yin al suo yang. Homelander, però, non solo si rivela più umano e fragile di Butcher, ma anche più subdolo, pianificatore, terrificante e, soprattutto, potente. Antony Starr arricchisce il ruolo di tic nevrotici, sottigliezze che nemmeno Darick Robertson riusciva a far trasparire su carta - e che Ennis, dal canto suo, trascurava in favore di una caricatura dissacrante dell’Uomo d’Acciaio DC.


La trama principale e le sottotrame che coinvolgono il leader dei Sette godono tutte di un momento clou, spesso e volentieri accompagnato da una peculiare ed affascinante prestazione attoriale di Starr. Homelander lascia trasparire molte delle sue ombre e riesce ad occultare al meglio i suoi aspetti deprorevoli, per poi esplodere in piccoli e grandi gesti di inquietudine e brillante scrittura caratteriale. Tanto un bambino sperduto quanto un tiranno in divenire, un superuomo invincibile ed una bomba atomica di nevrosi: Antony Starr incute paura e si lascia andare in patetici atti di umanità, sente l’ambizione dell'übermensch conquistatore e si camuffa dietro sornioni sorrisi da burattino delle corporazioni. Lo scambio di sguardi con Billy Butcher in Get Some costruisce l’intero plot che legherà i due fino alla fine della stagione. Il suo rapporto morboso con la vice-presidente, l’agente/amante Stillwell, è ricco di sfaccettature morbose, sguardi sensuali e depravati, complessi di Edipo rivisitati e distorti.
È proprio con la presentazione e la complessa rielaborazione di Homelander che The Boys “in TV” viene giustificato e sublima il proprio status come azzeccatissimo adattamento del materiale originale - nel senso letterale. Kripke, Rogen, Goldberg e l’intero staff comprendono Ennis e Robertson e adoperano le giuste tecniche per dare equilibrio ad una storia volutamente esagerata e fuori controllo. The Boys mancava di una vera e propria struttura, come già accennato. Persa nell'irrefrenabile tentazione di parodizzare qualsiasi elemento supereroistico, l’opera di Ennis trova una sua quadratura all’interno di una sceneggiatura ponderata e che sfrutta al meglio gli otto episodi a disposizione.



L’equilibrio e le solide fondamenta di questa nuova versione di The Boys riescono ad ammortizzare il carico di informazioni e il lento incedere della trama - che rallenta bruscamente rispetto ai più frenetici episodi iniziali. L’ingresso di Hughie nei Ragazzi, l’introduzione ai vari membri dei Sette, la turbolenta operazione Translucent e lo shock iniziale dietro le premesse della serie fanno scorrere rapidamente gli episodi - in un continuo susseguirsi di scelte azzardate, momenti brutalmente crudeli e humor nero (ma non troppo). 

Una volta rivelato il MacGuffin, The Boys si concentra sui personaggi coinvolti. Sebbene questo favorisca la già citata tridimensionalità dei Sette come dei Ragazzi, il focus della serie si sposta gradualmente, lo script inizia a farsi denso di rivelazioni e (momentanee) risoluzioni. Il crescendo narrativo comincia a stringersi attorno al binomio Homelander/Butcher e al segreto che li unisce: la costruzione del climax non ruota intorno ad alcuna scazzottata o lotta tra acerrimi super-rivali. Il divario di forze tra i due è talmente vasto che risulterebbe impossibile rendere credibile un confronto fisico. Homelander e Butcher si incrociano in maniera privata, lontano dai riflettori, vomitandosi addosso gli aspetti peggiori della loro personalità. Lo scontro diventa (im)morale, aggressivo, profondamente personale. Una rivalità basata sul dialogo accresce la costante sensazione che tutti i personaggi di contorno siano stati coinvolti a loro insaputa in una guerra segreta.

Per scelte di trama, The Boys non può raggiungere le vette di azione gore imposte dal maestro della violenza gratuita Ennis. Le fasi action sono più studiate e centellinate con precisione; la serie non indugia troppo dove farebbero altri show di supereroi - e anche nella presentazione The Boys, con i suoi colori saturi, la fotografia pulitissima e la regia talvolta brillantemente fumettistica, ricerca e trova la sua personalità nell'ecosistema pop-culturale odierno, affollato da mantelli e maschere create a tavolino - come, del resto, fa la Vought con i suoi supes.


L'ordine al caos Ennisiano, chi l'avrebbe mai detto, si trovava nascosto nelle strutture televisive. Eric Kripke, Seth Rogen e Evan Goldberg e tutto il mondo dietro The Boys hanno saputo confezionare un'intelligente rivisitazione di uno dei fumetti più politicamente scorretti degli ultimi anni. L'unico abbastanza audace da poter alzare il dito medio e non avere paura di chi potesse offendersi. The Boys "in TV" alza il suo dito medio al canone moderno dei Supereroi studiati a tavolino, persi tra cinema, tweet, demografiche, public relationships ed inutili fanfare mediatiche. Non si prende sul serio, ma non si lascia andare nella parodia fine a se stessa. Non c'è bisogno di Billy Butcher per demolire lo stereotipo del supereroe; serviva solo la giusta dose di cinismo per raccontare al pubblico quanto sia possibile far schifo anche se si sparano laser dagli occhi.

Fabrizio Nocerino

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